Elisabetta Minen
“L'Uno ha generato il
Due e il Due ha generato il Tre e il Tre tutte le creature”.
Similmente in Three the Movie il Tre – il numero base della
nostra cultura – e i suoi multipli generano il film: la Triade,
l'Esagramma, l'Enneagramma. Tre sono i protagonisti: Irene, carnica
cristiana che vive a Udine, e due immigrati clandestini: Pavel, ebreo
ucraino, e Mehdi, iraniano sciita. Interagiscono con loro tre
personaggi che riflettono realtà metafisiche: il Monsignore, il
Cieco e la Donna: l'insegnamento, la ricerca, la tentazione,
correlati a paradiso, purgatorio e inferno. Altre figure appaiono che
portano a nove il numero. Li avvolge, letteralmente, la città
di Udine. Ha senso che, durante il discorso in voce over del cieco
sul Tre, passi alle spalle della protagonista – in quella via
Mercatovecchio che è il cuore della città – proprio l'autobus
numero 3: in un film narrativo sarebbe un inside joke ma qui
rientra in un sistema di correspondances, quelle che evocava,
sulla scorta del decadentismo, Arthur Machen.
E' un tipo di cinema
poetico. “La sceneggiatura fa pronunciare ai protagonisti massime,
riflessioni, apoftegmi che si inseguono da una sequenza all'altra
tracciando un percorso in cui la clandestinità si sublima in
immagine sul senso dell'esistere”, scrive Giancarlo Zappoli in una
bella recensione su MyMovies.it. Di una certa “oscurità”
dell'azione, è sempre inevitabile chiedersi se sia dovuta tutta
all'intenzione di raggiungere un'indeterminazione poetica o a
difficoltà soggettiva dello spettatore nel ricostruire questa trama
allusiva. Ma l'autrice Elisabetta
Minen rivendica “...l'indeterminatezza
per lasciare spazio allo spettatore di concludere a mente la scena, o
immaginarne i preludi in base alla propria sensibilità, cultura o
vissuto, e poesia... perché a parer mio, ce n'è tanto bisogno”.
Esiste quindi nel film
una questione di linguaggio. Certo, al linguaggio che sentiamo nel
film non bisogna alcuna intenzione di mimesi realistica; è,
piuttosto, “alto”, letterario, gnomico. “Il
linguaggio e le espressioni sono modulate sul personaggio, l'aulico
monsignore, l'ingenua Irene, la conturbante donna misteriosa (…),
il tagliente cieco” (Minen). Vi sono tocchi
indovinati: bello per esempio quel “Bevi come un templare”
rivolto al cieco, personaggio magniloquente che segretamente rimanda
appunto ai Templari (nota che l'espressione era in uso già prima
della caduta dei Templari sotto Filippo il Bello). Altre volte,
l'Aulico, benché programmatico, appare alquanto calato dall'alto.
Per esempio un “Ma cosa mi racconti, dove hai messo il senno?”,
in cui quest'ultimo vocabolo incrina il tono diretto del rimprovero
di Monsignor Angelo a Irene. Connessa a questo, è evidentemente
voluta la naïveté d'impostazione di alcune battute
(esempio, l'enfasi in “Ha una grande
cultura” in bocca a Irene) che può ricordare la recitazione
“ingenua” in Pasolini.
Sotto i temi
quotidiani, come la clandestinità e le possibili sanatorie, e sotto
la dura vita quotidiana nel quartiere multietnico di via Roma,
appaiono quelli assoluti: la scelta morale, il libero arbitrio, la
predestinazione. E' interessante, e raggiunge in buona parte del film
un effetto che si potrebbe chiamare ipnotico, questo trasfondere il
reale (e il fin troppo reale dell'immigrazione) su un piano
metafisico. Qui la figura che appare meglio definita è la donna
elegante dai capelli rossi – la Donna Scarlatta? – che
rappresenta molto bene l'elemento maligno, e gira per il film “in
su e in giù” (Libro di Giobbe), non senza entrare in chiesa
per lanciarsi in irridenti confronti col Monsignore (deliziosa la
cupa ironia del prelato quando nel commiato chiede al suo assistente
Edo di accompagnare fuori “l'illustre signora”).
E' altresì importante
l'uso della città di Udine, fotografata da Luca Coassin, che il
montaggio di Elisabetta Minen scompone e ricompone, “a mosaico”,
reinventandola. Nel campo del cinema narrativo, Johnnie To aveva
fatto con Udine qualcosa di simile, a livello più piccolo in
Yesterday Once More; ma qui il luogo assume un'importanza di
protagonista. Nei momenti migliori, appare l'immagine di una città
ambigua e affascinante sotto la cui superficie cheta emerge una
vibrazione inquietante e magica – un po' come la Praga di Gustav
Meyrink. C'è qualcosa di febbrile in questo muoversi dei personaggi
lungo le sue vie e nei suoi locali, discutendo o giocando una partita
metafisica, di cui fanno parte anche apparizioni angeliche.
Il film è il final
cut dell'originale Trê – Sé – Shalosh
(le lingue sono friulano, farsi, ebraico). Come apprendiamo dalla
scheda di presentazione del film, “The edited film does not match
the one shot. The final script completely disrupted the original
structure of the film. At the dubbing it was possible to adapt the
lines of the new writing of the film”. Questo dà conto di una
formulazione inusuale nei credits: “Un film di Elisabetta
Minen” (sceneggiatrice, montatrice e produttrice) “diretto da (in
ordine alfabetico) Yassine Marco Marroccu – Elisabetta Minen”.
Non saprei dire se
Three the Movie lasci un'impressione di compiutezza. A volte
si ha l'impressione che come in un palinsesto riemergano tracce della
scrittura precedente. Ma certamente è un'esperienza che resta nella
memoria.