giovedì 14 ottobre 2010

Inception

Christopher Nolan

I fantasmi esistono. Nel bellissimo “Inception” di Christopher Nolan (che riprende temi presenti in tutta l'opera del regista, ed è dieci volte superiore ai suoi “Batman” revisionisti), il protagonista Dom Cobb (Leonardo Di Caprio) mette in pericolo se stesso e i suoi compagni quando penetra con loro nei sogni, perché ha un segreto: la moglie Mal (Marion Cotillard), che è morta suicida, e i suoi bambini (che non può rivedere perché non può tornare negli USA, dov'è accusato della morte della moglie) si aggirano nei sogni come fantasmi del suo inconscio. Ma mentre i bambini sono spettri sfuggenti, umbratili, che non vediamo mai in viso, Mal è un fantasma vendicativo, un vampiro, che vuole attrarre Cobb nel mondo onirico più profondo - il limbo - per sempre.

In “Inception” il gruppo di soavi criminali aduso a infiltrarsi nei sogni altrui usualmente lo fa per carpirvi un segreto, giustamente espresso sul piano onirico con immagini di nascondigli e casseforti (per questa strada il film incontra l'Orson Welles di “Quarto potere”: la girandola trovata nella cassaforte della vittima, rimpianto dell'infanzia perduta, è un'altra Rosebud). Va da sé che l'irruzione nel sogno si definisce in termini di effrazione e violazione; “Inception” è il riflesso di un'epoca ossessionata dal controllo sociale e dalla perdita dell'intimità. Ma ancora più sinistro è il nuovo progetto di Cobb: innestare un'idea attraverso il sogno allo scopo di influenzare il comportamento futuro del soggetto. Questo impianto di idee (inception) è fortemente caratterizzato come hybris – e trova il suo rovesciamento punitivo quando emerge la vera storia del suicidio di Mal; la sceneggiatura di Nolan articola un concetto morboso dell'idea come parassita o virus. Naturalmente alla base di tutto, come di tanta parte della nostra cultura, sta l'opera seminale di Philip K. Dick.
Alla ricerca di una metafora del sogno, “Inception” la trova nell'architettura (per cui viene naturale il concetto di sfaldamento in connessione al risveglio). Sul piano diegetico, è nell'ambiente degli architetti che Cobb pesca i suoi aiutanti; così la giovane Ariadne (Ellen Page) diventa l'Architetto che ha il compito di costruire i sogni. Viene attirata in questa losca impresa appunto dalla possibilità creativa assoluta: un architetto che non deve fare i conti con le leggi fisiche e la resistenza dei materiali.
Per questa via il film incontra Escher: “Inception” è il film più escheriano della storia del cinema in quanto non lo usa semplicemente come sfondo (questo lo faceva già il vecchio “Labyrinth” di Jim Henson) ma ne assume la stessa logica illogica di spazi che si sviluppano da altri spazi in modo impossibile ma apparentemente naturale: l'opera di Escher è un ampliamento mostruoso del paradosso grafico del blivet. Bene lo mostra la scena più famosa del film: Parigi che si ripiega su se stessa come una scatola.

Ci sono tre livelli del sogno nella trama di “Inception” (notevole l'uso di Edith Piaf come marcatore sonoro: la potenza di Non, je ne regrette rien assume una speciale drammaticità). Il film assume una sfumatura elegiaca sul tempo, in quanto il tempo scorre più lento via via che si scende di livello - inevitabile ricordare il folklore delle fiabe e delle leggende sulla dimensione fatata. C'è un elemento faustiano (“anime vecchie catapultate di nuovo nella giovinezza”) nell'offerta di tornare giovane, cancellando un'intera vita illusoria, fatta da Cobb a Saito (Ken Watanabe) alla fine: una scelta non facile, perché il sogno è pervasivo. Il film ci mostra un gruppo di sognatori a Mombasa descritti come oppiomani.
In “Inception” il tema del labirinto è fondamentale. Non a caso la co-protagonista femminile si chiama Ariadne: Arianna, la figura femminile che rappresenta la salvezza dal labirinto. Non solo in senso generico e collettivo: Ariadne rappresenta nel film l'elemento razionale che permette l'uscita di Cobb dal suo labirinto onirico privato, relativo a Mal. Poiché Cobb ha cercato tenere in vita nei sogni la moglie morta (“una prigione di ricordi”, dice il film), e come il dottor Frankenstein mentre tentava di ricreare la vita ha creato un mostro. Questo tentativo di portare indietro l'amata morta rimanda naturalmente al mito di Orfeo ed Euridice; è quando Cobb metaforicamente si volta indietro e la vede – “Guardati. Sei solo un'ombra” – che la perde, ossia accetta di lasciarla andare. L'ipotesi di un particolare interesse di Nolan per “Metropolis” (v'è chi nella vecchia casa di Mal nel mondo onirico ha visto una replica della casupola di Rotwang nel capolavoro di Lang) ci incoraggia a osservare che “Metropolis” è anche una storia frankensteiniana. E' lecito segnalare la somiglianza linguistica fra Mal e Hel?

“Inception” ci invita esplicitamente a riflettere sul rapporto tra il sogno e il cinema. Facile osservare che il gruppo protagonista costruisce il sogno come un'autentica mise en scène. E sono propri del cinema elementi quali l'arma inesauribile (o la provvista di caricatori a portata di mano) oppure la vittoria su un numero assurdo di nemici – qui elementi del sogno. Ma anche il passaggio da un livello onirico all'altro, con questi “salti” impossibili, si può vedere come allegoria del potere creatore del montaggio cinematografico (già nel lontano 1924 Buster Keaton in “Sherlock Junior” aveva giocato sul valore spiazzante del salto di ambiente in montaggio!). Se i teorici del cinema hanno ampiamente analizzato l'elemento semi-onirico nella fruizione di un film, “Inception” rende pan per focaccia costruendo una fruizione cinematografica del sogno.
Ora bisogna ricordare che tanto il sogno quanto il cinema posseggono in grado eminente la dimensione dell'ellissi – che il sogno dei personaggi di “Inception” non ha. Di più: il sogno segue una logica svincolata dal principio di non contraddizione – mentre questi personaggi si muovono in un sogno perfettamente aristotelico (nel senso che risponde alle regole aristoteliche della verosimiglianza). Dovremo vedere in questo un difetto radicale del film? No, se consideriamo che lo scopo di “Inception” non è di illustrare i meccanismi onirici agli studenti di psicologia ma di innestare su un dato presupposto una peripezia narrativa, che di esso si nutre ma non vi si esaurisce. Ciò detto, è giusto riconoscere che questo film affascinante fallisce nel tentativo di darci una mimesi cinematografica convincente del sogno. Un compito riuscito meglio a Martin Scorsese in “Shutter Island” nelle scene oniriche del protagonista con la moglie morta (ma Scorsese non doveva fondare sul sogno l'intera trama).

I rapporti fra “Inception” e “Shutter Island” vanno al di là dell'ovvia suggestione della presenza di Leonardo Di Caprio in ambo i film. Entrambi pongono il grande problema: l'esistenza oggettiva o meno della realtà percepita. Qui conviene ritornare al discorso dei vari livelli di sogno, e su questa strada incontriamo un film che è un antecedente fondamentale e forse un modello di “Inception”: “eXistenZ” di David Cronenberg – fondato su un dubbio ontologico fondamentale: se il mondo percepito è scompaginato in vari livelli, la “realtà” base - ciò che l'analisi del racconto chiamerebbe il “racconto primo” - potrebbe essere anch'essa illusoria, e comportare un livello di “realtà vera” superiore e non conosciuto.
Qui entra in taglio un elemento di “Inception”, che non si vuol porre come ipotesi di lettura del film ma che certo vi introduce un che di drammatico e vertiginoso: se avesse ragione Mal quando cerca di convincere Cobb che la vita reale di lui è un sogno? Una delle idee migliori della sceneggiatura è che per farlo Mal mette l'accento su un elemento del “reale” di Cobb che indica come onirico e fantastico, laddove è autentico (ma lo è?) nella diegesi: l'ansia di essere perseguitato da una potentissima organizzazione. Invero, simili deliri di persecuzione sono elementi realistici nel mondo dei film – perché sono espedienti narrativi; ecco quindi che per vie traverse sogno e cinema vengono di nuovo a coincidere.

L'ambiguità fra lo stato di sonno e quella di veglia diventa inquietante in due passaggi del film che gettano un'ombra di dubbio su quello che è il racconto “oggettivo”. Il primo c'è – come molti hanno osservato – quando vediamo in flashback il suicidio di Mal, raccontato da Cobb ad Ariadne. Questo flashback appartiene al livello oggettivo della storia; però viene visualizzato con un'inquadratura impossibile, frontale rispetto a Cobb che guarda (parente quindi della Parigi “rovesciata”). E' perché l'ambiente del sogno influenza la visualizzazione? O c'è di più?
Il secondo è nel finale. Cobb torna in America e rivede il padre (Michael Caine) che lo porta a casa dove lo attendono i bambini. Però com'è strano, brusco, stridente il passaggio in montaggio, così immediato, dall'aeroporto all'interno della casa! E' un brano di montaggio che suona onirico. E infatti Cobb tira fuori il suo “totem”, la trottola che indica se sta sognando o è sveglio – ma il film finisce prima del responso, con tragica ambiguità.
Il dubbio sulla consistenza della realtà oggettiva non è mai stato ignoto alla cultura occidentale; però è particolarmente forte in quella orientale, e credo si debba all'influsso di essa l'amplificazione di tale sentire nella cultura occidentale contemporanea; e di conseguenza anche il proliferare di opere che sviluppano questo dubbio ontologico (accanto ai testi citati potremmo allegarne tanti altri, da “Matrix” a “Lost”). Se questo è vero, allora è suggestivo, e non solo “turistico”, che la parte iniziale di “Inception” sia così radicata nel mondo giapponese.