(warning: contiene gravi spoiler)
“I morti parlano”.
Questa è la prima frase della tradizionale scritta “a sciame di
astronavi” che apre ogni episodio di Star Wars: frase che va
al di là della contingenza di quanto direttamente enuncia, ossia il
ritorno dell'imperatore Palpatine. Infatti in Star Wars –
Episodio IX: L'ascesa di Skywalker di J.J. Abrams i grandi caduti
della trilogia, Han Solo, Luke Skywalker, Leia Organa, ricompaiono
sullo schermo: i cavalieri Jedi morti intervengono per consigliare e
guidare. Malgrado il suo svolgimento mosso, spesso frenetico,
L'ascesa di Skywalker è un film maestoso. Sarà l'episodio
definitivo? Certo ha un senso solenne di finale. Dopo
l'episodio malinconico e quasi disperato di Rian Johnson, Gli
ultimi Jedi, gli sceneggiatori J.J. Abrams e Chris Terrio si sono
fortemente impegnati per wrap up, riordinare e concludere, non
solo la trilogia ma tutta la saga.
Parlo di saga e non di
serie perché a Star Wars meglio si confà il primo termine.
Una serie chiunque può farla: è un'aggiunta lineare di episodi; una
saga è una costruzione organica ove tutti gli episodi si fondono
come in un enorme mega-film. Con qualche inevitabile sbavatura, ciò
è quanto i film di Star Wars sono riusciti a fare (sebbene
George Lucas non sia rimasto soddisfatto degli sviluppi della sua
creazione): una notevole realizzazione narrativa e artistica, che non
era affatto garantita, stante il cambiamento avvenuto non solo al
timone della saga ma nella stessa Hollywood che l'ha prodotto. A
questo punto poco importa la differenza evidente fra la regia
concitata di J.J. Abrams nell'ultimo episodio e quella
classicheggiante di George Lucas nel primo; il substrato mitico, dal
quale deriva l'integrità artistica della saga, è riuscito a
mantenersi. In questo, L'ascesa di Skywalker è un apporto
decisivo.
La
scena in cui Rey si sta esercitando riporta sullo schermo un “remoto”
come quello con cui si esercitava Luke sotto la guida di Obi-wan
Kenobi in Guerre stellari.
Il nono episodio riprende oggetti, luoghi, topoi
di tutta la serie e si riconnette in particolare alla trilogia
originaria. Non è un caso che riappaia il relitto della Morte Nera
come sfondo per una scena cruciale. Nello stesso contesto rientra la
ricomparsa dell'imperatore Palpatine – e questo morto
vivente con gli occhi bianchi dei film horror, agganciato a un
meccanismo che lo sostiene a un metro dal suolo, è un'immagine che
ricorda il secondo episodio di Hellraiser
(una saga anche questa, detto per inciso, ma che al contrario di Star
Wars ha sofferto di una
degenerazione progressiva, pur mantenendo la sua pregnanza visuale).
Anche nel presente
film, come in precedenza, si fa notare l'influsso della cultura
cinematografica orientale. Che è dichiarata visivamente all'inizio:
dopo che Kylo Ren si è battuto da solo con la spada laser contro
degli avversari, l'inquadratura di fine scena ce lo mostra in primo
piano con alle spalle in fuga prospettica una serie smisurata di
nemici morti fra gli alberi che bruciano: un'inquadratura che è puro
wuxiapian di Hong Kong. Allo stesso modo, sapevamo che i Jedi
e i Sith possono volare, ma il combattimento fra Rey e Kylo Ren sul
relitto della Morte Nera circondato da un oceano tempestoso, con quei
folli balzi in alto o anche all'indietro, ricorda molto King Hu.
Filtrato attraverso la
cultura popolare americana della space opera, alla base di Star Wars dal punto
di vista mitico c'è Richard Wagner – una presenza dichiarata ma
non esaurita nell'uso apertamente wagneriano dei Leitmotive nel
commento musicale di John Williams. Come ennealogia wagneriana la
saga trova i suoi temi nei miti del sangue e dell'eredità,
dell'ombra dell'incesto, della seduzione del potere, della caduta e
della redenzione (accanto all'Anello del Nibelungo viene in
mente il Parsifal).
Alla fine del lungo
percorso possiamo vedere che il tema principale che attraversa la
storia è quello della tentazione. Proprio com'era accaduto a Luke
Skywalker (“Luke... Luke... Io sono tuo padre”), e prima di lui
ad Anakin Skywalker, così capita a Rey, e prima di lei a Kylo Ren.
La storia di redenzione di
Ben/Kylo Ren riecheggia quella di Anakin/Darth Vader alla fine de Il
ritorno dello Jedi.
Una simmetria ammirevole (e non importa che sia evidentemente
costruita di episodio in episodio).
“Quanti
ce ne hanno portati via. Ora portiamo a loro la guerra” (sono le
parole dei membri della Resistenza prima di scatenare l'attacco).
Ecco un punto in cui Star Wars si
differenzia (fin dal titolo, potremmo aggiungere) dall'altra grande
saga di fantascienza spaziale del nostro tempo, ovvero Star
Trek. Non parlo qui dello
sciagurato reboot di
quest'ultima. Voglio dire che al vago pacifismo di Star
Trek, che è figlia dell'epoca
kennediana, Star Wars
oppone una visione più drammatica e realistica, per cui la guerra è
una realtà ineluttabile, e possibilmente eterna. Nel finale de
L'ascesa di Skywalker,
le grandi astronavi nemiche – i Destroyer della flotta dei Sith –
esplodono in fiamme e precipitano dal cielo come maligne stelle
cadenti.
I
riferimenti al nazismo, già presenti nel primissimo Guerre
stellari, sono ripresi
nell'ultimo episodio (vedi la perquisizione delle case sul pianeta
occupato) a ricordarci che qualsiasi prospettiva di pace va difesa
con le armi e la ribellione armata può sempre presentarsi come una
cruda necessità. Qui viene pronunciato il classico discorso sul
numero e sull'unione dei ribelli (“Non siamo soli”). Un po'
retorico nella sua enunciazione verbale? Certo – ma togliete la
retorica a qualsiasi discorso ispirato, e cosa resta? Eppoi questa
retorica è necessaria a preparare la grande scena della comparsa in
extremis di un nugolo di
astronavi ribelli (ed è la stessa retorica che presiede alla scena
analoga, purtroppo non così ben realizzata, di Dunkirk
di Christopher Nolan).
Tutto
finisce su Tatooine, dove tutto era cominciato. Giunta alla fine del
suo cammino di scoperta di se stessa – occorre ricordare che la
forma ricorrente dei film di Star Wars
è il viaggio iniziatico? – Rey seppellisce le spade laser di Luke
e Leia nel terreno (ma attenzione, ciò che è sepolto può sempre
ricomparire). Preannunciato
dal titolo dell'episodio, il finale in cui Rey rinuncia con un atto
di puro volontarismo (ratificato dai due Jedi morti che assistono)
alla sua eredità del sangue e assume il nome di Skywalker è il
sigillo morale e narrativo dell'intera saga: taglia di un colpo il
nodo gordiano che l'ha sostenuta (l'eredità e il tradimento del
sangue) per attestare uno stato di purezza finalmente
conquistata. La saga
di Star Wars si è
venuta strutturando come un'amara ripetizione del ciclo dell'eterno
ritorno. Il finale pone un momento di pausa in questo “eterno
dolore”.