Film
estremamente rigoroso, di un minimalismo quasi ascetico, tutto
proiettato sull'individuo protagonista, tutto spezzettato in piccoli
momenti dell'esperienza, TIR -
la nuova importante opera di Alberto Fasulo dopo Rumore
bianco - si situa nella
zona di transizione fra il documentario e la fiction, sempre più
esplorata nel cinema contemporaneo. Il film segue Branko, un ex
insegnate croato che ha lasciato il lavoro per fare il camionista per
una ditta italiana: guadagna il triplo, ma la moglie a casa non è
soddisfatta della nuova situazione.
L'interprete
Branko Završan (un attore che ha lavorato con Bulajić, Tanović,
Stoppard) ha conseguito la patente di camionista per questo film,
girato in sei mesi sulle strade di mezza Europa; mentre il suo
partner nella prima parte del film, Maki, è Marijan Šestak, un
camionista di mestiere che qui recita se stesso, ovvero il proprio
ruolo. La situazione degli interpreti - Završan a mezza strada fra
attore e camionista, Šestak a mezza strada fra camionista e attore -
è simbolica del carattere “doppio” del film.
Il
concetto di viaggio accomuna Rumore bianco e TIR - ma
nel primo caso proiettato verso l'esterno, nel secondo verso
l'interno. Ovvero: in Rumore bianco l'occhio
della mdp, come trascinato dal nastro trasportatore ideale che è il
fiume Tagliamento, guardava direttamente l'esterno che si dispiegava
alla vista; in TIR abbiamo
di nuovo un nastro che scorre, la strada interminabile, ma l'occhio
della mdp è tutto concentrato sul protagonista. Ciò
conferisce al film un senso centripeto, laddove Rumore bianco era
centrifugo. Un senso centripeto che replica l'elemento “chiuso”
del lavoro dei camionisti; la durezza del lavoro occupa il primo
piano (il lavoro, con la sua muta sicurezza del gesto, sembra essere
un tema centrale di Fasulo: l'uomo è faber, si definisce in
questa logica).
Vediamo
molta strada scorrere in TIR, ma non è un normale camera-car,
perché lo sguardo si porta dietro tutta la pesantezza stanca
del lavoro umano: scivola sulle cose (il panorama esterno) senza
fermarsi su di esse, perché quello che importa non è il paesaggio
ma il movimento (o meglio, il lavoro che sta dietro al movimento).
L'inquadratura
dalla cabina di guida del camion è l'elemento fondamentale del film,
oscillando fra la soggettiva del guidatore e un'inquadratura da
dietro le sue spalle. Per forza di cose quest'inquadratura è
stretta, quasi soffocante: la dimensione della cabina di guida,
questo abitacolo dove trascorrono i giorni mentre il mondo si snoda
davanti e intorno al TIR, diventa l'universo di svolgimento del film.
Gli
spazi alternativi sono anch'essi ristretti: i momenti della pausa,
seduti accanto al camion, in un'inquadratura quasi egualmente
stretta, a cucinare su un fornello o sedere a chiacchierare, magari
occhieggiando una donna che passa. E quando appaiono gli spazi larghi
e vuoti di un magazzino, o un ufficio, noi spettatori - condizionati
come siamo dal dispositivo “magnetico” della regia - sentiamo
sulla pelle quest'allargamento dello spazio, come (qui esagero per
farmi intendere, ma nel senso giusto) se fosse qualcosa di
sorprendente. Del resto, sono spazi così intimamente legati al
lavoro che psicologicamente formano un tutt'uno con la guida in
strada.
Di
conseguenza, si potrebbe dire che l'unico spazio vitale che si apre
realmente fuori dalla dimensione ristretta dell'abitacolo è
uno spazio virtuale che si esplicita nelle telefonate di Branko con
la moglie, con le loro tensioni: la gelosia per un certo Goran, il
malcontento della moglie rivelato dalla proposta di un nuovo lavoro
precario a scuola, un litigio sul prestito dei loro risparmi al
figlio sposato che vuole comprarsi una casa.
“Branko
- dichiara il regista Alberto Fasulo - è ovviamente un Ulisse, un
uomo che ritiene che il dovere sia più importante del piacere”. Ma
è un Ulisse il cui nostos non
si conclude. Ciò che
invece vale per il compagno - però a prezzo di un rifiuto: Maki, che
già prima minacciava di lasciare il camion per strada, infine molla:
“Io non ne posso più. Sono fuori dal gioco”. Invece il tempo di
Branko, il tempo del lavoro, sembra immutabile e infinito come
la strada (e non mancano accenni alla perdita della nozione del tempo
nel film). A partire da qui, si
potrebbero fare molti discorsi sull'alienazione (che non è Monica
Vitti che dice “Mi fanno male i capelli”: è qualcosa di molto
più reale e concreto e drammatico).
Senza
sottovalutare le costrizioni produttive e di budget, mi pare evidente
che TIR
si basi su un partito preso antispettacolare, sviluppato in modo
estremamente coerente. Anche un episodio come quello dello
sciopero dei camionisti italiani che bloccano il TIR di Branko è
depotenziato come sviluppo “drammaturgico” (cioè fictional) per
giocarsi tutto sulla dimensione immediata dell'esperienza. E ancora,
la scena in cui i maiali vengono fatti scendere dal camion
“ereditato” da Maki passa subito all'umile compito di ripulire il
camion da sterco a palate. Questa posizione antispettacolare deriva
da una scelta di base: non c'è nel film, nemmeno sullo sfondo,
nessun “romanticismo della merce che viaggia nel mondo” (perché
esso implicherebbe una visione armoniosa come nei libri illustrati
per bambini di Richard Scarry: una società ordinata di animaletti
sorridenti dove tutti sono felici del mestiere che svolgono) - e di
conseguenza nessuna astratta eroicizzazione del lavoro del
camionista. C'è solo la silenziosa, tenace, ammirevole dignità di
Branko nel suo duro impegno.
(Cinemazero)