E'
il 1961. Il film si apre su un microfono in primissimo piano. Si
avvicina Llewyn Davis (Oscar Isaac) e canta Hang
Me, Oh Hang Me.
Poco dopo sarà riempito di botte da uno sconosciuto (il motivo lo
sapremo solo alla fine del film). Com'è proprio dei personaggi di
Joel & Ethan Coen, il suo viaggio nel mondo è un'odissea
kafkiana fra i poli gemelli della bizzarria e della sfortuna, anche
per colpa sua, oscillando tra incazzatura e rancorosa rassegnazione.
“Tutto quello che tocchi diventa merda, come il fratello idiota di
re Mida”, gli sibila l'ex amante e tutt'altro che amica Jean (Carey
Mulligan).
Film
pieno di musica, che ritrae a piccoli tocchi l'alba della rivoluzione
folk al Greenwich Village, il magnifico A
proposito di Davis è
tutto un camminare nelle strade fredde senza cappotto, sbattersi in
cerca di un posto dove suonare, cercare un letto a casa di parenti e
conoscenti, guidare da New York a Chicago sostando in deprimenti
ambienti alla Hopper, incontrare strana gente come il monumentale Mr.
Turner (John Goodman), veder di raggranellare soldi perché bisogna
pagare l'aborto di Jean, che insulta Davis di continuo e aspetta un
bambino (forse) suo - e proprio per quello vuole abortire. E' quella
vita randagia e precaria che abbiamo incontrato nelle pagine di Jack
Kerouac. Gli appartamenti che appaiono nel film si aprono su corridoi
strettissimi; quello che porta all'appartamento di Jean, addirittura,
quasi si chiude ad angolo; difficile non vederli come un'allegoria
dell'esistenza.
Non
è che Llewyn Davis, cantante folk liberamente ispirato alla figura
storica di Dave Van Ronk, non sia bravo: semplicemente non ha quel
dono indefinibile, quello knack,
che conquista il pubblico. Dice l'impresario di Chicago (F. Murray
Abraham) dopo averlo ascoltato: “Non ci vedo tanti soldi qui”. E'
bravo ma non è Bob Dylan; è un eterno secondo. Se Emmet Ray (Sean
Penn) in Accordi
e disaccordi di
Woody Allen si tormentava sapendo di non essere il chitarrista jazz
più bravo del mondo (veniva dopo Django Reinhardt), per il
razionalista Allen c'era un motivo preciso per quella condizione (ma
inutile fare spoiler). Per i fratelli Coen, invece, se Davis è uno
sconfitto della vita non c'è un motivo psicologico o morale, o di
levatura musicale: come tutta la triste assurdità dell'esistenza,
accade
e basta. Il mondo per Joel & Ethan Coen è un luogo enigmatico,
sfuggente alla comprensione, sottilmente ostile - è un gigantesco
nonsense.
I personaggi coeniani corrono come topi in trappola di qualche
perverso esperimento psicologico di Dio.
Come
sempre con i Coen, è forte in sottofondo la presenza della morte. Ne
parla la prima canzone che sentiamo; Davis suona da solo perché il
suo partner si è suicidato; il ringhioso Mr. Turner finisce a terra
in overdose nei cessi di una tavola calda e verrà abbandonato
esanime in macchina; la ballata sulla regina Jane che Llewyn canta a
Chicago è un lamento funebre; lo stanco passeggero anonimo del
ritorno a New York dorme sul sedile come se fosse morto.
Un'opera
dei Coen vuol dire un film di fortissima pregnanza delle atmosfere e
delle figure. Tutti i
visi dei comprimari - con quelle espressioni deadpan
che nascono dalla rassegnazione all'esistenza - sono indimenticabili.
Non mancano poi nel film i tradizionali “giusti” coeniani,
vilipesi e illusi, ma che forse - come vuole la leggenda ebraica -
sono la giustificazione dell'esistenza del modo. In A
proposito di Davis sono
i
due amici ebrei, i coniugi Gorfein, che lo accolgono e lo sopportano
nonostante il suo egoismo e le sue sfuriate.
Tra
le figure memorabili del film assume
una bizzarra rilevanza un gatto rosso (anzi, come si vedrà, un
doppio gatto rosso). Ha un ruolo nelle tragicomiche disgrazie del
protagonista, ma i Coen non lo usano come puro espediente narrativo:
lo elevano a personaggio. Lo si vede dai suoi primissimi piani di
sguardo; e anzi, il gatto ha diritto anche a una soggettiva di
viaggio, il percorso in metrò visto attraverso i suoi occhi. Questo
suo status (che, se non mi sbaglio, è una novità nella produzione
coeniana) apre domande non prive di fascino. Cosa pensa questo
gatto-persona del caos umano? L'universo appare confuso e ostile,
oltre che agli uomini, anche ai gatti? O i gatti sono più attrezzati
degli uomini per farvi fronte?
Si
potrebbe sospettare di sì; il gatto, specialista in fughe ed
evasioni, torna a casa da solo alla fine di un periglioso viaggio per
Manhattan (e non è una sorpresa quando apprendiamo alla fine del
film che si chiama Ulisse). E' vero però che la sua copia,
probabilmente (la scena è volutamente ambigua), si allontana nel
buio zoppicando ammaccata...
La
forma narrativa sulla quale i Coen costruiscono il loro cinema è
quella, ampia e distesa, del novel,
il romanzo d'impianto realistico. Ciò comporta una struttura
narrativa forte, che consente digressioni, le quali però devono
essere ben controllate; che si costruisce su episodi rilevanti e
personaggi marcati, in una tessitura logicamente connessa; che si
dilata su uno spettro narrativo vasto, per cui ammette una polifonia
di toni. Così, il sarcasmo coeniano si apre a volte in potenti
squarci di sentimento. Per esempio: nel film i rapporti amorosi sono
guardati in modo fortemente ironico (il personaggio dell'ex amante
Jean), ma - quasi invisibile nel suo scorrere veloce - appare una
delle scene più belle a mio parere che i Coen ci abbiano mai dato,
uno splendido tocco poetico, quando Davis sta guidando nel buio verso
New York e vede in lontananza le luci della cittadina di Akron, dove
si è ritirata la donna più importante che ha perso, con un figlio
che neppure sapeva di avere.
O della stessa pudica
dolcezza è la pagina in cui Llewyn va a trovare suo padre, ex
marinaio, in una casa di riposo, e canta per il vecchio muto e
impassibile la canzone dei pescatori - e il vecchio volta la testa
per guardare verso la finestra, cioè alla vita che è passata, con
l'ombra di un sorriso.
Quando
il film si avvia alla fine, compare un microfono in primissimo piano,
si avvicina Llewyn e canta Hang
Me, Oh Hang Me... La
narrazione è tornata sull'inizio, il film si è svolto in modo
circolare (che il cerchio sia la figura tipica dei Coen, lo
dichiarava apertamente L'uomo
che non c'era).
Ora capiamo molte cose, fra cui il motivo della battuta (meritata)
che si prende Llewyn. Ultima immagine: lui, a terra dolorante, lancia
un “Au
revoir”
al suo punitore che s'invola su un taxi. E' solo un gesto di sfida,
s'intende – ma in un film dei Coen quando lanciamo un au
revoir alla
sfortuna sappiamo quel che diciamo.
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