venerdì 14 febbraio 2014

A proposito di Davis

Joel & Ethan Coen

E' il 1961. Il film si apre su un microfono in primissimo piano. Si avvicina Llewyn Davis (Oscar Isaac) e canta Hang Me, Oh Hang Me. Poco dopo sarà riempito di botte da uno sconosciuto (il motivo lo sapremo solo alla fine del film). Com'è proprio dei personaggi di Joel & Ethan Coen, il suo viaggio nel mondo è un'odissea kafkiana fra i poli gemelli della bizzarria e della sfortuna, anche per colpa sua, oscillando tra incazzatura e rancorosa rassegnazione. “Tutto quello che tocchi diventa merda, come il fratello idiota di re Mida”, gli sibila l'ex amante e tutt'altro che amica Jean (Carey Mulligan).
Film pieno di musica, che ritrae a piccoli tocchi l'alba della rivoluzione folk al Greenwich Village, il magnifico A proposito di Davis è tutto un camminare nelle strade fredde senza cappotto, sbattersi in cerca di un posto dove suonare, cercare un letto a casa di parenti e conoscenti, guidare da New York a Chicago sostando in deprimenti ambienti alla Hopper, incontrare strana gente come il monumentale Mr. Turner (John Goodman), veder di raggranellare soldi perché bisogna pagare l'aborto di Jean, che insulta Davis di continuo e aspetta un bambino (forse) suo - e proprio per quello vuole abortire. E' quella vita randagia e precaria che abbiamo incontrato nelle pagine di Jack Kerouac. Gli appartamenti che appaiono nel film si aprono su corridoi strettissimi; quello che porta all'appartamento di Jean, addirittura, quasi si chiude ad angolo; difficile non vederli come un'allegoria dell'esistenza.
Non è che Llewyn Davis, cantante folk liberamente ispirato alla figura storica di Dave Van Ronk, non sia bravo: semplicemente non ha quel dono indefinibile, quello knack, che conquista il pubblico. Dice l'impresario di Chicago (F. Murray Abraham) dopo averlo ascoltato: “Non ci vedo tanti soldi qui”. E' bravo ma non è Bob Dylan; è un eterno secondo. Se Emmet Ray (Sean Penn) in Accordi e disaccordi di Woody Allen si tormentava sapendo di non essere il chitarrista jazz più bravo del mondo (veniva dopo Django Reinhardt), per il razionalista Allen c'era un motivo preciso per quella condizione (ma inutile fare spoiler). Per i fratelli Coen, invece, se Davis è uno sconfitto della vita non c'è un motivo psicologico o morale, o di levatura musicale: come tutta la triste assurdità dell'esistenza, accade e basta. Il mondo per Joel & Ethan Coen è un luogo enigmatico, sfuggente alla comprensione, sottilmente ostile - è un gigantesco nonsense. I personaggi coeniani corrono come topi in trappola di qualche perverso esperimento psicologico di Dio.
Come sempre con i Coen, è forte in sottofondo la presenza della morte. Ne parla la prima canzone che sentiamo; Davis suona da solo perché il suo partner si è suicidato; il ringhioso Mr. Turner finisce a terra in overdose nei cessi di una tavola calda e verrà abbandonato esanime in macchina; la ballata sulla regina Jane che Llewyn canta a Chicago è un lamento funebre; lo stanco passeggero anonimo del ritorno a New York dorme sul sedile come se fosse morto.
Un'opera dei Coen vuol dire un film di fortissima pregnanza delle atmosfere e delle figure. Tutti i visi dei comprimari - con quelle espressioni deadpan che nascono dalla rassegnazione all'esistenza - sono indimenticabili. Non mancano poi nel film i tradizionali “giusti” coeniani, vilipesi e illusi, ma che forse - come vuole la leggenda ebraica - sono la giustificazione dell'esistenza del modo. In A proposito di Davis sono i due amici ebrei, i coniugi Gorfein, che lo accolgono e lo sopportano nonostante il suo egoismo e le sue sfuriate.
Tra le figure memorabili del film assume una bizzarra rilevanza un gatto rosso (anzi, come si vedrà, un doppio gatto rosso). Ha un ruolo nelle tragicomiche disgrazie del protagonista, ma i Coen non lo usano come puro espediente narrativo: lo elevano a personaggio. Lo si vede dai suoi primissimi piani di sguardo; e anzi, il gatto ha diritto anche a una soggettiva di viaggio, il percorso in metrò visto attraverso i suoi occhi. Questo suo status (che, se non mi sbaglio, è una novità nella produzione coeniana) apre domande non prive di fascino. Cosa pensa questo gatto-persona del caos umano? L'universo appare confuso e ostile, oltre che agli uomini, anche ai gatti? O i gatti sono più attrezzati degli uomini per farvi fronte?
Si potrebbe sospettare di sì; il gatto, specialista in fughe ed evasioni, torna a casa da solo alla fine di un periglioso viaggio per Manhattan (e non è una sorpresa quando apprendiamo alla fine del film che si chiama Ulisse). E' vero però che la sua copia, probabilmente (la scena è volutamente ambigua), si allontana nel buio zoppicando ammaccata...
La forma narrativa sulla quale i Coen costruiscono il loro cinema è quella, ampia e distesa, del novel, il romanzo d'impianto realistico. Ciò comporta una struttura narrativa forte, che consente digressioni, le quali però devono essere ben controllate; che si costruisce su episodi rilevanti e personaggi marcati, in una tessitura logicamente connessa; che si dilata su uno spettro narrativo vasto, per cui ammette una polifonia di toni. Così, il sarcasmo coeniano si apre a volte in potenti squarci di sentimento. Per esempio: nel film i rapporti amorosi sono guardati in modo fortemente ironico (il personaggio dell'ex amante Jean), ma - quasi invisibile nel suo scorrere veloce - appare una delle scene più belle a mio parere che i Coen ci abbiano mai dato, uno splendido tocco poetico, quando Davis sta guidando nel buio verso New York e vede in lontananza le luci della cittadina di Akron, dove si è ritirata la donna più importante che ha perso, con un figlio che neppure sapeva di avere.
O della stessa pudica dolcezza è la pagina in cui Llewyn va a trovare suo padre, ex marinaio, in una casa di riposo, e canta per il vecchio muto e impassibile la canzone dei pescatori - e il vecchio volta la testa per guardare verso la finestra, cioè alla vita che è passata, con l'ombra di un sorriso.
Quando il film si avvia alla fine, compare un microfono in primissimo piano, si avvicina Llewyn e canta Hang Me, Oh Hang Me... La narrazione è tornata sull'inizio, il film si è svolto in modo circolare (che il cerchio sia la figura tipica dei Coen, lo dichiarava apertamente L'uomo che non c'era). Ora capiamo molte cose, fra cui il motivo della battuta (meritata) che si prende Llewyn. Ultima immagine: lui, a terra dolorante, lancia un “Au revoir” al suo punitore che s'invola su un taxi. E' solo un gesto di sfida, s'intende – ma in un film dei Coen quando lanciamo un au revoir alla sfortuna sappiamo quel che diciamo.

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