L’unico
difetto delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone è che vengono
solo una volta all’anno. Per impegni vari non sono riuscito a
seguire tutto, ma ecco qualche breve annotazione su quanto ho visto.
In
primo luogo, i grandi restauri e i film riscoperti. Le Giornate si
sono aperte sabato
7 ottobre
con
Antonio Coppola e l’Octuor de France che
hanno
splendidamente eseguito la partitura di Coppola per
“La
Divine Croisière” (1929) di Julien Duvivier: bel film
di mare che apre
come
realismo
sociale, esplode
in una grande scena di irruzione del popolo
in
casa del
perfido armatore, e nella seconda parte assume
un tratto mistico:
è la Madonna del mare, Maris Stella, che guida la spedizione di
soccorso (sulla
nave
di
questo nome)
a
trovare il gruppetto dei naufraghi, un ago nel pagliaio del Pacifico.
La sequenza in cui la Maris Stella torna in porto coi naufraghi
durante una
processione religiosa di cordoglio
non la dimenticheremo facilmente. In
un film Julien
Duvivier
tiene
ben presente la
lezione dei grandi autori
dell’epoca
(si
riconosce continuamente qualcuno),
fra i quali Fritz Lang: in scene concitate, due personaggi femminili
si muovono come Brigitte Helm in “Metropolis”.
A
metà
settimana, altra serata speciale anche dal punto di vista musicale
artificiale quando
l’applaudito
accompagnamento di Maud Nilessen per pianoforte, violino,
violoncello, sassofono e percussioni ha impreziosito
il
film
britannico del 1927 “Hindle
Wakes” di Maurice Elvey, tratto
da un’opera teatrale di Stanley Houghton.
In
vacanza a Blackpool, l’operaia Fanny fugge altrove per qualche
giorno col figlio del padrone (un ragazzo, più stupido che cattivo,
già fidanzato), e
conta sull’amica
Mary che deve “coprirla” coi suoi genitori. Mary però muore in
un incidente, e salta fuori tutto, sconvolgendo la famiglia povera e
quella ricca. Film
piacevole
ma non trascendentale, “Hindle
Wakes” è
un buon esempio delle qualità e dei difetti di Maurice
Elvey. Questo
abile artigiano inglese
era
un
regista eminentemente visivo – anche qui, basta vedere le belle
inquadrature dei piedi e delle scarpe che “stanno per” la figura
intera – con una tendenza al simbolismo visuale. Elvey ha una buona
capacità di messa in scena e un occhio acuto per la descrizione
degli ambienti: nel presente film, la filanda del Lancashire e
il parco divertimenti di Blackpool, pressoché
documentaristici, ma
anche tutto il mondo del
proletariato locale. Con
queste doti Elvey compensa un difetto presente nei suoi film: è
piuttosto carente sul piano narrativo. In
“Hindle
Wakes” ne
è un esempio palmare la morte di Mary, che viene solo annunciata
velocemente da un telegramma: è una necessità in teatro, ma
qualunque regista americano avrebbe mostrato
in
una breve scena muta la disgrazia. Il
meglio del film (che dà forza a un ottimo finale) è la figura di
Fanny, dignitosa e volitiva: una rivendicazione del diritto della
donna a scegliere la sua vita. Ottima l’interpretazione di Estelle
Brody, in opposizione a quella un po’ caricata di altri personaggi.
Accanto
a “La Croisière”, la Giornate hanno presentato altri due film
francesi di mare. Se è bello “Vent debout” di René Leprince
(1923), che si divide fra il racconto marinaro e l’intrigo
finanziario, è magnifico “Pêcheur
d’Islande” (1924) di Jacques de Baroncelli (da Pierre Loti), che
possiamo segnalare come uno dei vertici in assoluto delle Giornate
2023. E’ la storia ossessiva del rapporto fra una giovane bretone e
l’uomo che ama, ossessionato dal mare e dalla morte: nel suo
delirio (o realtà?) l’uomo pensa di essere fidanzato col mare –
che, non dimentichiamo, in francese è femminile: “la mer” – e
che il suo matrimonio con la giovane sia un tradimento. Questa
destinazione verso la morte in mare non può che realizzarsi. In
aggiunta ai vivi e commoventi ritratti psicologici, espressi in
bellissime inquadratura, sono eccezionali due
scene fantastiche del film, il naufragio e, prima, l’incontro con
una nave di morti: un esempio indimenticabile di orrore puro.
Non
una scoperta, ma un grande film da rivedere, è il
magnifico “Die Strasse” di Karl Grune (Germania 1923).
L’ambientazione reale (niente caligarismo!) mostra tuttavia le
tracce dell’espressionismo nella descrizione di una infernale
metropoli notturna, dalle atmosfere ghignanti e isteriche alla Otto
Dix. Un piccolo borghese frustrato (Eugen Klöpfer), stanco della
vita familiare, esce in cerca di distrazioni, va dietro a una donna
di malaffare (Aud Egede-Nissen) e vive una sconvolgente vicenda che
lo porta sull’orlo del suicidio. Nella parte di un cieco compare
Max Schreck, il Nosferatu di Murnau.
“The
Love that Lives” (1917) del ritrovato Robert Vignola è un altro
esempio dei notevoli Anni Dieci del cinema americano, storia della
vita e del sacrificio materno di una donna delle pulizie. In una
storia tipicamente melodrammatica dell’epoca, Vignola mostra un uso
abile dell’inquadratura (cito solo l’inquadratura “in fuga”
diagonale delle donne delle pulizie davanti ai loro armadietti).
Conviene ricordare quello che diceva David Bordwell sulla formazione
del racconto nel cinema classico: qui è ancora imperfetto (uso delle
coincidenze) ma è convincente, anche grazie a un’interpretazione
sentita ed efficace di Pauline Frederick.
Accolto
con qualche risatina dai più ignoranti nel pubblico, “The
Oath of the Sword” di Frank Shaw (USA 1914) è invece
un
film di tutto rispetto. E’ un dramma giapponese, non solo
interpretato, cosa rara, da attori autenticamente giapponesi (fra cui
Abe Yukata, destinato a una carriera di regista in patria) ma anche
prodotto da una società giapponese, la Japanese American Film
Company. Invece
“Le Vertige” (1926) è una delusione, tanto più in quanto è
firmato da Marcel L’Herbier. Il film è debole e i favoleggiati
contatti con “Vertigo” di Hitchcock sono molto tenui; nota che,
follemente, la sceneggiatura svela la verità a primo colpo,
eliminando ogni possibile ambiguità.
Un
secondo vertice
delle Giornate è “Conrad
in Quest of His Youth” (1920)
di William C. DeMille – il fratello altrettanto dotato di Cecil B.
Regista delicato, intimo e sensibile, attento in tutto il suo cinema
ai sentimenti, l’“altro DeMille” racconta con gentile ironia la
storia crepuscolare di un tentativo di resuscitare il passato. Il
ricco ex militare Conrad torna dall’India e ha l’idea di
recuperare le emozioni gioiose della fanciullezza invitando nella
vecchia casa di campagna i tre cugini con cui aveva trascorso
un’infanzia felice. Inutile dire che l’esperimento fallisce;
simbolico il dettaglio di una vecchia fionda ritrovata che si rompe
in mano. Il protagonista compie altri tentativi, ma “la terra del
Come Eravamo” (così recita una didascalia) resta irrevocabilmente
chiusa. Tuttavia alla fine il caso offrirà a Conrad un’imprevista
chance. Per inciso, sarebbe stato molto meglio se questo film
affascinante, invece che sabato pomeriggio, avesse ottenuto il posto
d’onore di venerdì sera invece del brutto “Circe the
Enchantress” di Robert Z. Leonard.
Restiamo
negli Stati Uniti per un “wild bunch” di commedie deliziose,
partendo
dal grande Edward Everett Horton, ben accompagnato in proiezione
dalla Zerorchestra. Tutti conosciamo questo superbo caratterista,
specializzato in ruoli di ingenuo e/o seccatore. Le sue espressioni
stupite lo fanno somigliare a un gufo leggermente sotto shock. Lo
ricordiamo specialmente nei film di Fred Astaire (in coppia con un
altro grande, Eric Blore) e di Lubitsch (stra-memorabile in "Partita
a quattro", per esempio); ma
vederlo protagonista in una “comedy” muta, alle
Giornate
, non ha prezzo. È "Poker Faces" (1926)
di
Harry Pollard, scatenata commedia di finzioni che ricadono su se
stesse, esempio da manuale di impiego della mimica facciale –
di
E.E. Horton
e dell'egualmente spiritosa Laura LaPlante.
"Would
You Believe It?" (1929)
di Walter Forde invece è inglese. Quando
furono introdotti i primi carri armati, nella prima guerra mondiale,
se ne fece in Inghilterra una dimostrazione pubblica (ne
esiste un filmato)
in
cui un tank montava su un'auto parcheggiata e la stritolava. Mi è
tornato in mente, ma forse ci
pensava anche
Walter Forde?, circa la bellissima terza parte della sua comica: un
tank (autentico) viene usato dal protagonista per una dimostrazione
fallita di radiocomando a distanza - e impazzisce, distrugge tutto,
stritola automobili, demolisce case, e solo per un pelo non schiaccia
persone, assai ben reso dal punto di vista registico, con ferocia
spietata. Un
film assai gustoso, incrocio
di scuola slapstick americana e understatement britannico.
“Oh!
What a Nurse!” (1926) di Charles Reisner è abbastanza modesto, la
narrazione è un po’ faticosa e qualche gag non è freschissima –
ma un grande pregio ce l’ha: ed è la superba interpretazione “en
travesti” di Syd Chaplin. Per i comici dell’epoca era un punto
d’onore esibirsi parodisticamente in vesti femminili, ma Syd
Chaplin (assieme a Stan Laurel) era il primo assoluto, e qui lo
dimostra abbondantemente. Cito di passaggio il divertente “Modern
Love” (1929), di Arch Heath e Jack Foley, con Charley Chase, del
quale è sopravvissuta solo una versione parzialmente sonorizzata.
Fra
i film più brevi della sezione “slapstick”, da ricordare “From
Hand to Mouth” (1919) di Alf Goulding, una commedia molto spiritosa
di Harold Lloyd in lotta per salvare un’ereditiera dalle mire di
una banda capitanata da Harry Pollard. Molto bello l’inizio sulla
fame dello sfortunato Harold e il suo legame con una bambina povera
incredibilmente “cute” e il suo cane: il classico cane
ammaestrato delle comiche ma questo (una novità per me) con una
zampa secca. La corsa finale in cui Harold si fa inseguire apposta da
una torna di poliziotti è una meraviglia.
Infine,
in mezzo a una serie di brevi comiche molto apprezzabili (il
proto-inseguimento spiritosissimo de “La course des sergents de
ville”, 1907), il nome principale è quello di Karl Valentin.
Sebbene
questo
grande comico fosse legato alla parola, coi suoi monologhi
prettamente bavaresi, usava altresì un corpo che lo rendeva (prendo
la definizione dal catalogo delle Giornate) "una caricatura
vivente". Bene
lo
mostrano due
comiche mute viste alle
Giornate,
"Die lustigen Vagabunden", gli allegri vagabondi, con K.V.
in veste di poliziotto beffato e
"Karl
Valentins Hochzeit", le nozze di K.V., con una sposa cicciona
che è l'attore Georg Ruckert "in drag". C'è qualcosa di
estremo e finale nella comicità di Karl Valentin, uomo-caricatura,
con le sue gambe a stecco di magrezza quasi oscena e il corpo
filiforme, e quindi una figura "grafica": la scheda citata
del catalogo sottolinea come sia debitore del disegnatore coevo
Ludwig Greinert, ma si potrebbe andare ancora più indietro, risalire
a Heinrich Hoffmann e Wilhelm Busch.
Si
è conclusa la retrospettiva biennale “Ruritania, che ha il merito
di aver rispolverato, oltre che il concetto, il nome. “A Truthfuk
Liar” (1924) di Hampton Del Ruth ci dà il piacere di rivedere Will
Rogers – un nome troppo poco conosciuto e apprezzato in Italia –
nelle vesti di un ambasciatore americanissimo alla classica corte
ruritana. Il personaggio dell’anarchico bombarolo col suo folle
veicolo è un urlo! Mentre “Eine Frau von Format” (1928) di Fritz
Wendhausen è una piacevole commedia di ambiente diplomatico sulla
lotta fra due ambasciatori di paesi rivali, uno dei quali è una
donna, che davvero si fanno i peggiori tiri possibili.
Harry
Carey è un nome che non ha bisogno di presentazioni.
Fu
il primo degli attori-feticcio di Ford, nonché suo amico e mentore.
Non
per nulla Ford
fu poi
amico
del figlio, Harry Carey jr., e volentieri lo impiegò in
parti di contorno nella
sua lunga carriera.
A
Harry Carey le
Giornate hanno dedicato una
benvenuta rassegna, comprendente alcuni classici. Il
sabato
d'apertura
ci
ha dato una vera
gemma,
già
vista alle Giornate vari anni fa, con
lo
splendido “Hell
Bent” (1918), diretto da un giovane John Ford quando
si firmava ancora Jack (gli amici lo chiamarono Jack per tutta la
vita):
ed è
già Ford purissimo, a
partire dall’inizio dove un quadro di Remington, il suo pittore
preferito, si anima trasformandosi nel racconto filmico. C’è
già tutta la sua
grandezza nell’uso geniale del paesaggio e del movimento in campo
lunghissimo, nella gamma
tematica (la moralità, l’amicizia virile, l'amore timido), nelle
ambientazioni: la
potente parte finale nel deserto anticipa molto cinema fordiano a
venire, e in particolare “The Three Godfathers” del 1948.
E
a proposito dei “three Godfathers”, ecco
(anch’esso già visto in passato alle Giornate e opportunamente
recuperato) una magnifica versione
del classico racconto dei tre banditi
che trovano un neonato nel deserto e si sacrificano per prendersene
cura: "Hell's Heroes" di William Wyler (1929).
Wyler ne dà una versione di folgorante forza espressiva, e mette in
primo piano l'elemento religioso sotteso (vedi per esempio l'albero a
forma di croce). Piuttosto
confuso e un po’ faticoso nell’organizzazione del racconto è
invece “Man to Man” (1922) di Stuart Paton, che si raccomanda in
particolare per un bell’inizio a colori in un ambiente esotico
troppo presto abbandonato.
Un
altro Harry, dalla Germania: l’acrobatico Harry Piel. Definirlo “il
Douglas Fairbanks tedesco”, come è stato fatto, è un’esagerazione
complimentosa; Harry Piel – che si autodirigeva – ha una buona
verve ma anche una certa pesantezza teutonica. Ma le sue opere sono
piacevoli. “Rivalen” (1923) sembra debitore del quasi
contemporaneo “Dottor Mabuse” di Lang – che in ogni caso vince
il confronto. “Zigano, der Brigant von Monte Diavolo” (1925) è
un piacevole racconto di cappa e spada di epoca napoleonica. Il
migliore tra quelli visti è “Sein grösster
Bluff” (1927), che presenta Harry Piel in una doppia parte, anche
con compresenza sullo schermo (sebbene le proporzioni non siano
sempre perfette) ed è godibilissimo, riuscendo a strappare ancor
oggi un brivido nella sequenza dell’auto sull’abisso.
Siamo
arrivati alla serata conclusiva di sabato 14. Beninteso, se
Le
Giornate si
chiudono con Charlie
Chaplin
e
Buster Keaton
non c’è partita. L'Orchestra
da Camera di Pordenone, diretta da Ben Palmer, ha magistralmente
eseguito le due partiture, di Chaplin stesso e di Daan van den Hurk, per
due capolavori
in successione: “The Pilgrim” (“Il pellegrino”, 1923) di
Chaplin
e
poi
“Sherlock
jr.” (“La palla n°
13”, 1924) di Keaton.
Due
classici “a
specchio”, perché proiettare insieme Chaplin e Keaton vuol dire
mettere a confronto due giganti totalmente diversi. Il
dickensiano Chaplin
viene dalla povertà nei
bassifondi di Londra,
che
ha conosciuto
e mai dimenticato.
Il
“saltarello”
Keaton
viene dalla tradizione del vaudeville americano, in cui i suoi
genitori, attori,
lo fecero esordire
a
tre
anni. In
“The Pilgrim” Charlot
è un evaso, si traveste con
gli abiti rubati a un
pastore protestante, e il caso lo costringe a fingersi pastore in una
piccola città. Nel cinema di
Chaplin,
acutissimo
osservatore del comportamento umano (sorridente
osservazione sull'ipocrisia:
l’anziano della severa
chiesa protestante ha una
bottiglia di whisky nella tasca dei calzoni), tutto è
ricondotto
alla sua straripante
presenza. Parafrasando
Protagora, “Charlot è la misura di tutte le cose”. In
“Sherlock jr.” Buster
Keaton è un proiezionista e
aspirante detective; accusato ingiustamente, sfoga la sua
frustrazione entrando in sogno come investigatore infallibile nel
film che sta proiettando al cinema. Cantore
dell’eterna lotta contro le cose, Keaton
è autore
di geniali geometrie di cui
si potrebbe tracciare lo schema con squadra e matita. La superba
scena della palla n. 13 (che
è una bomba),
sempre sfiorata e
mai colpita nella partita a
biliardo, potrebbe essere il
simbolo di tutto il cinema keatoniano.