Ali Asgari e Alireza Khatami
Di
solito il dialogo al cinema è reso con
quella sorta di ping-pong delle immagini che si chiama
campo/controcampo. Invece Kafka a Teheran, scritto e
diretto a quattro mani da Ali Asgari e
Alireza Khatami,
consta di nove dialoghi (più
un prologo muto
e un epilogo simbolico)
in cui nove personaggi – in ottime
interpretazioni
– se la la
vedono con altrettante incarnazioni
del regime iraniano. Sono
nove dialoghi congelati
in un’inquadratura
fissa frontale, che
nega la visione dell’interlocutore, presente solo come voce (rare
volte appare la mano che entra in campo dal lato della mdp).
Tale barriera invalicabile ritorna in tutti i segmenti, unificando
le varie storie in uno schema fisso, ne potenzia
il significato politico, trasmettendolo
ancora più fortemente
che se vedessimo
nove piccoli drammi variati. Questi
dialoghi mettono in scena casi
autentici, piccoli drammi realmente
accaduti, o ai registi (facile immaginare che sia il caso del regista
convocato da un ipocrita censore, regista che finisce disperato per
strappare pagine su pagine del copione) o a persone che conoscono.
Il
titolo italiano (quello internazionale è
Terrestrial Verses)
coglie bene il senso del film: sotto il
totalitarismo, non solo l'individuo è sottoposto alla prepotenza
politica del potere ma questo potere assume aspetti capricciosi e
demenziali, oggettivamente
ridicoli, per cui l’aggettivo “kafkiano” viene perfettamente in
taglio. Quest’aspetto di delirio istituzionalizzato fornisce al
film un elemento di humour noir: basta
citare surreale interrogatorio di un
uomo che vuole la patente di guida e che il burocrate fa spogliare
per rivelare
i suoi
tatuaggi di
versi del poeta Rumi su tutto il corpo (lui all'inizio quando deve esibire le braccia mostra il pugno chiuso!); la
ragazza convocata alla polizia stradale perché una telecamera di
sorveglianza ha rivelato che alla guida della sua auto c’era una
donna senza velo (ed era suo fratello che ha i capelli lunghi); il
colloquio di lavoro in un ufficio,
dove l’aspirante
è interrogato non sul mestiere ma sui precetti dell’Islam sciita
(superbo il momento in cui sia lui sia il suo esaminatore mimano
l'apertura di un rubinetto per vedere se il malcapitato sa fare le
abluzioni rituali).
E’
uno sberleffo al
regime, certo, ma Kafka a Teheran non è un
film comico. Sotto lo humour noir si stende il nero di un'oppressione
capillare, dove tutti spiano e
controllano tutti. L’episodio della
bambina che prima balla e poi riappare rigida infagottata nel chador
è esemplare, anche sul piano della
gestione del corpo, ed
è straziante quello finale dell'anziana
signora cui i poliziotti hanno portato via il cagnolino, animale
“impuro”.
Come
accade sempre, questi interlocutori invisibili non sono tutti
scherani professionisti al servizio del
governo. Alcuni
lo sono; uno è un mascalzone (quello che tenta di sedurre una
ragazza attratta con un’offerta di
lavoro); molti sono gente comune, correi
del regime, più che per adesione ideale, per il gusto di godere di
un briciolo di potere. Qualcosa che tutte le nazioni che hanno
vissuto sotto una dittatura, Italia compresa, hanno conosciuto.
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