sabato 7 ottobre 2023

Kafka a Teheran

Ali Asgari e Alireza Khatami

Di solito il dialogo al cinema è reso con quella sorta di ping-pong delle immagini che si chiama campo/controcampo. Invece Kafka a Teheran, scritto e diretto a quattro mani da Ali Asgari e Alireza Khatami, consta di nove dialoghi (più un prologo muto e un epilogo simbolico) in cui nove personaggi – in ottime interpretazioni – se la la vedono con altrettante incarnazioni del regime iraniano. Sono nove dialoghi congelati in un’inquadratura fissa frontale, che nega la visione dell’interlocutore, presente solo come voce (rare volte appare la mano che entra in campo dal lato della mdp). Tale barriera invalicabile ritorna in tutti i segmenti, unificando le varie storie in uno schema fisso, ne potenzia il significato politico, trasmettendolo ancora più fortemente che se vedessimo nove piccoli drammi variati. Questi dialoghi mettono in scena casi autentici, piccoli drammi realmente accaduti, o ai registi (facile immaginare che sia il caso del regista convocato da un ipocrita censore, regista che finisce disperato per strappare pagine su pagine del copione) o a persone che conoscono.
Il titolo italiano (quello internazionale è Terrestrial Verses) coglie bene il senso del film: sotto il totalitarismo, non solo l'individuo è sottoposto alla prepotenza politica del potere ma questo potere assume aspetti capricciosi e demenziali, oggettivamente ridicoli, per cui l’aggettivo “kafkiano” viene perfettamente in taglio. Quest’aspetto di delirio istituzionalizzato fornisce al film un elemento di humour noir: basta citare surreale interrogatorio di un uomo che vuole la patente di guida e che il burocrate fa spogliare per rivelare i suoi tatuaggi di versi del poeta Rumi su tutto il corpo (lui all'inizio quando deve esibire le braccia mostra il pugno chiuso!); la ragazza convocata alla polizia stradale perché una telecamera di sorveglianza ha rivelato che alla guida della sua auto c’era una donna senza velo (ed era suo fratello che ha i capelli lunghi); il colloquio di lavoro in un ufficio, dove l’aspirante è interrogato non sul mestiere ma sui precetti dell’Islam sciita (superbo il momento in cui sia lui sia il suo esaminatore mimano l'apertura di un rubinetto per vedere se il malcapitato sa fare le abluzioni rituali).
E’ uno sberleffo al regime, certo, ma Kafka a Teheran non è un film comico. Sotto lo humour noir si stende il nero di un'oppressione capillare, dove tutti spiano e controllano tutti. L’episodio della bambina che prima balla e poi riappare rigida infagottata nel chador è esemplare, anche sul piano della gestione del corpo, ed è straziante quello finale dell'anziana signora cui i poliziotti hanno portato via il cagnolino, animale “impuro”.
Come accade sempre, questi interlocutori invisibili non sono tutti scherani professionisti al servizio del governo. Alcuni lo sono; uno è un mascalzone (quello che tenta di sedurre una ragazza attratta con un’offerta di lavoro); molti sono gente comune, correi del regime, più che per adesione ideale, per il gusto di godere di un briciolo di potere. Qualcosa che tutte le nazioni che hanno vissuto sotto una dittatura, Italia compresa, hanno conosciuto.

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