Roman Polanski
In
tutto il suo cinema Roman Polanski ci ha detto che la malvagità e
l’assurdità sono le componenti fondamentali dell’universo, con
l’incubo che si insinua nella nostra realtà e la disgrega. Ora,
togliete la malvagità (solo un poco) e mettete al suo posto la
stupidità, e avrete The Palace, pazza cronaca del 31 dicembre 1999 e
della festa di Capodanno 2000 (sotto l’ombra ingannatrice del
Millennium Bug) in un lussuoso Grand Hotel svizzero. Di nuovo dopo
Luna di fiele Polanski mostra una festa di Capodanno e la
devastazione che lascia. Ma ora il novantenne Polanski e
l’ottantacinquenne Jerzy Skolimowski, co-sceneggiatori con Ewa
Piaskowska, assumono uno sguardo olimpico, cinico/clinico,
sottolineando l’aspetto farsesco della vita. E’ un grottesco
senza angoscia; una danza macabra, ma privata dell'elemento tragico
del macabro.
Superficialmente
The Palace può essere accomunato a Per favore, non mordermi sul
collo e a Pirati per la sua dimensione comica; ma sarebbe più giusto
richiamare l’assurdità fondamentale di Che? – dove il filo
narrativo finiva per restringersi alla persona fisica di Sydne Rome
(che appare, quanto invecchiata, anche qui) – se non vogliamo
addirittura risalire al surreale clownesco e beckettiano di Due uomini
e un armadio. Infatti, a differenza di Per favore, non mordermi sul
collo e anche di Pirati (a parte il fallimento artistico di
quest’ultimo), The Palace non ha una struttura narrativa forte. Al
suo posto, Polanski lavora sull’estensione: è un precipitare di
storie interlineate. Gli autori hanno voluto fare un film “a volo
d’uccello”, un po’ come quei dipinti fiamminghi in cui vediamo
una miriade di figurette e di occupazioni. Invero avrebbero potuto
con facilità organizzare il film su una spina dorsale narrativa più
solida, sviluppando una di queste storie; non farlo è stata
chiaramente una scelta. Si può discutere se sia stata la scelta più
oculata, giacché la mancanza di tale spina dorsale narrativa
innegabilmente si sente; ma è anche vero che il nostro smarrimento
viene trascinato e portato via nel vortice caotico, in cui il grande
albergo del titolo (l’ennesima delle dimore centripete polanskiane)
provvede una sorta di contenitore, anche nel senso di limite.
Infatti, mentre tutto procede verso il caos, solo quella sorta di Mr.
Wolf “Risolvo problemi” che è il direttore dell’hotel (Oliver
Masucci)… non a caso si chiama Kopf (testa)… insieme al suo staff
di martiri lotta contro l’entropia e riesce a tenere in piedi la
bislacca piramide danarosa. Che non è neppure il capitalismo bensì
i suoi fenomeni collaterali e deteriori: dalla truffa finanziaria
(Mr. Crush/Mickey Rourke, una specie di Donald Trump con
abbronzatura artificiale e parrucchino), al gangsterismo (i russi
chiassosi), allo sperpero (la baronessa/Fanny Ardant con l’orrido
cagnolino, il vecchio milionario/John Cleese con una moglie molto più
giovane), e così via. Per inciso, John Cleese – senza fare spoiler
– sul piano della mimica facciale diventerà il campione del film.
Polanski è sempre stato un campione delle fisionomie, e anche qui i
visi sono memorabili (ricordiamo anche Milan Peschel, con la perfetta
faccia da travet bancario promosso a piccolo dirigente). Quanto alla
solidarietà di classe, non basta il fatto che le cameriere cantino
l’Internazionale insieme a quella strana forma di proletariato che
sono le guardie del corpo dei russi.
Non
manca nessuno in questa bolgia, dal pinguino che si aggira per i
corridoi agitando le ali all’idraulico polacco che era il fantasma
della Brexit. Ognuno ha la sua storia, o magari, come nel caso della
famiglia povera di discendenti non riconosciuti da Crush, triste
quartetto ceco sbattuto qua e là, la sua backstory – che emerge in
modo commovente nella scena finale della telefonata. I tre
sceneggiatori non dimenticano di essere polacchi: spunta il dramma di
oggi quando vediamo in tv Eltsin che si dimette e un giovane Putin,
già con occhi da squalo, che prende il potere. Brindisi dei mafiosi
russi al nuovo leader “che si prenderà cura di noi per molti,
molti anni”. E’ il trionfo della nascente cleptocrazia moscovita
(l’ambasciatore: “Presto o tardi io e i miei colleghi ci
divideremo la torta russa”).
La
progressione verso la festa di mezzanotte è un accumulo di incidenti
tale da ricordare vagamente la disastrosa inaugurazione del
ristorante in Playtime di Tati. Ma c’è sempre il signor Kopf a
metterci una pezza, con l’unica ricompensa del senso del dovere e
di qualche bottiglietta di vodka da frigo bevuta in privato.
All’ultima
Mostra di Venezia questo film ha diviso profondamente gli spettatori,
fra chi diceva capolavoro e chi diceva porcheria. Chi scrive queste
righe si trova nella scomoda situazione di essere in mezzo, e così,
inimicus omnium. Porcheria assolutamente non è; d’altro canto, non
si può dire sia in prima fila all’interno della sfavillante
filmografia polanskiana. Ma invero è piacevole – e dannatamente
divertente.
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