lunedì 22 marzo 2021

Three The Movie

 Elisabetta Minen

 “L'Uno ha generato il Due e il Due ha generato il Tre e il Tre tutte le creature”. Similmente in Three the Movie il Tre – il numero base della nostra cultura – e i suoi multipli generano il film: la Triade, l'Esagramma, l'Enneagramma. Tre sono i protagonisti: Irene, carnica cristiana che vive a Udine, e due immigrati clandestini: Pavel, ebreo ucraino, e Mehdi, iraniano sciita. Interagiscono con loro tre personaggi che riflettono realtà metafisiche: il Monsignore, il Cieco e la Donna: l'insegnamento, la ricerca, la tentazione, correlati a paradiso, purgatorio e inferno. Altre figure appaiono che portano a nove il numero. Li avvolge, letteralmente, la città di Udine. Ha senso che, durante il discorso in voce over del cieco sul Tre, passi alle spalle della protagonista – in quella via Mercatovecchio che è il cuore della città – proprio l'autobus numero 3: in un film narrativo sarebbe un inside joke ma qui rientra in un sistema di correspondances, quelle che evocava, sulla scorta del decadentismo, Arthur Machen.
E' un tipo di cinema poetico. “La sceneggiatura fa pronunciare ai protagonisti massime, riflessioni, apoftegmi che si inseguono da una sequenza all'altra tracciando un percorso in cui la clandestinità si sublima in immagine sul senso dell'esistere”, scrive Giancarlo Zappoli in una bella recensione su MyMovies.it. Di una certa “oscurità” dell'azione, è sempre inevitabile chiedersi se sia dovuta tutta all'intenzione di raggiungere un'indeterminazione poetica o a difficoltà soggettiva dello spettatore nel ricostruire questa trama allusiva. Ma l'autrice Elisabetta Minen rivendica “...l'indeterminatezza per lasciare spazio allo spettatore di concludere a mente la scena, o immaginarne i preludi in base alla propria sensibilità, cultura o vissuto, e poesia... perché a parer mio, ce n'è tanto bisogno”.
Esiste quindi nel film una questione di linguaggio. Certo, al linguaggio che sentiamo nel film non bisogna alcuna intenzione di mimesi realistica; è, piuttosto, “alto”, letterario, gnomico. “Il linguaggio e le espressioni sono modulate sul personaggio, l'aulico monsignore, l'ingenua Irene, la conturbante donna misteriosa (…), il tagliente cieco” (Minen). Vi sono tocchi indovinati: bello per esempio quel “Bevi come un templare” rivolto al cieco, personaggio magniloquente che segretamente rimanda appunto ai Templari (nota che l'espressione era in uso già prima della caduta dei Templari sotto Filippo il Bello). Altre volte, l'Aulico, benché programmatico, appare alquanto calato dall'alto. Per esempio un “Ma cosa mi racconti, dove hai messo il senno?”, in cui quest'ultimo vocabolo incrina il tono diretto del rimprovero di Monsignor Angelo a Irene. Connessa a questo, è evidentemente voluta la naïveté d'impostazione di alcune battute (esempio, l'enfasi in “Ha una grande cultura” in bocca a Irene) che può ricordare la recitazione “ingenua” in Pasolini.
Sotto i temi quotidiani, come la clandestinità e le possibili sanatorie, e sotto la dura vita quotidiana nel quartiere multietnico di via Roma, appaiono quelli assoluti: la scelta morale, il libero arbitrio, la predestinazione. E' interessante, e raggiunge in buona parte del film un effetto che si potrebbe chiamare ipnotico, questo trasfondere il reale (e il fin troppo reale dell'immigrazione) su un piano metafisico. Qui la figura che appare meglio definita è la donna elegante dai capelli rossi – la Donna Scarlatta? – che rappresenta molto bene l'elemento maligno, e gira per il film “in su e in giù” (Libro di Giobbe), non senza entrare in chiesa per lanciarsi in irridenti confronti col Monsignore (deliziosa la cupa ironia del prelato quando nel commiato chiede al suo assistente Edo di accompagnare fuori “l'illustre signora”).
E' altresì importante l'uso della città di Udine, fotografata da Luca Coassin, che il montaggio di Elisabetta Minen scompone e ricompone, “a mosaico”, reinventandola. Nel campo del cinema narrativo, Johnnie To aveva fatto con Udine qualcosa di simile, a livello più piccolo in Yesterday Once More; ma qui il luogo assume un'importanza di protagonista. Nei momenti migliori, appare l'immagine di una città ambigua e affascinante sotto la cui superficie cheta emerge una vibrazione inquietante e magica – un po' come la Praga di Gustav Meyrink. C'è qualcosa di febbrile in questo muoversi dei personaggi lungo le sue vie e nei suoi locali, discutendo o giocando una partita metafisica, di cui fanno parte anche apparizioni angeliche.
Il film è il final cut dell'originale Trê – Sé – Shalosh (le lingue sono friulano, farsi, ebraico). Come apprendiamo dalla scheda di presentazione del film, “The edited film does not match the one shot. The final script completely disrupted the original structure of the film. At the dubbing it was possible to adapt the lines of the new writing of the film”. Questo dà conto di una formulazione inusuale nei credits: “Un film di Elisabetta Minen” (sceneggiatrice, montatrice e produttrice) “diretto da (in ordine alfabetico) Yassine Marco Marroccu – Elisabetta Minen”.
Non saprei dire se Three the Movie lasci un'impressione di compiutezza. A volte si ha l'impressione che come in un palinsesto riemergano tracce della scrittura precedente. Ma certamente è un'esperienza che resta nella memoria.

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