giovedì 18 maggio 2023

Il sol dell'avvenire

Nanni Moretti

Contrariamente alle apparenze, Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti è più nella linea de La messa è finita o de La stanza del figlio che in quella di Bianca o Palombella rossa. E’ lo stesso che dire che si situa nella linea dei migliori film di Moretti.
Come mai questo? Moretti in ogni suo film inserisce una serie di topoi, di tratti, Sterne direbbe hobby horses, che non servono tanto a caratterizzare il personaggio/protagonista – è cosa ovvia che Moretti fa un cinema auto-centrico – ma come marche di riconoscimento, che costruiscono un universo morettiano immediatamente riconoscibile dagli spettatori e immediatamente in contatto affettivo con gli appassionati. Non voglio dire con questo che sia insincero: il contrario: per esempio, il fatto di usare in tal senso la Nutella (non in questo film) non si oppone al fatto che sul piano personale la Nutella gli piaccia molto, anzi, ne procede. E’ una costruzione a metà fra l’autoritratto e l’autocaricatura (perché per forza deve esagerare questi tratti) – che fra l’altro dà ai suoi film una invidiabile continuità.
Ora, Il sol dell’avvenire si accomuna, come detto, ai suoi film migliori perché, come quelli, cala l’autoritratto in una struttura narrativa forte, che lo assorbe e così facendo paradossalmente lo esalta. Non c’è nulla di forzato o di sovrimposto in questo film. C’è un insieme di aree narrative, immaginiamole come cerchi, che si intersecano: la crisi del matrimonio fra Moretti e Margherita Buy; il film con Silvio Orlando sul circo ungherese e il PCI del 1956 all’epoca dell’invasione dei maledetti russi, film che il regista Giovanni (Moretti) non riesce a completare per ragioni produttive e organizzative, ma inconsciamente prima di tutto artistiche; il racconto interno al film-nel-film, che indicativamente (addirittura Giovanni non se ne accorge e glielo insegna l'attrice Barbora Bobulova) è anch’esso la crisi di un rapporto. L’intersecarsi e il ruotare di questi cerchi narrativi offrono a Nanni Moretti l’occasione per toccare ora un punto ora un altro della sua personalità senza bisogno di spingerle in primo piano. Inutile osservare che fra questi temi c’è anche il terrore del blocco creativo (per un solo esempio, Aprile), un aspetto della grande paura dell’afasia che attraversa il suo cinema.
Prendiamo in esame una delle scene meglio inventate del film: Moretti/Giovanni dice “Devo caricarmi”, comincia a cantare in auto una canzone, quella canzone si allarga in montaggio a tutta la troupe del film-nel-film, che canta, con Moretti al centro, come modo di “caricarsi” – ma l'inquadratura frontale, da palcoscenico, e poi dall’alto angolata, dice qualcosa di più: dice che anche se il film-nel-film non è un musical qui si realizza almeno per un momento quel musical di cui Moretti in maniera semiseria parla sempre, quello con Silvio Orlando pasticciere trockista, che è un po’ il suo ironico Mastorna.
C’è dunque un’autentica felicità nel modo in cui il “morettismo” viene riproposto nel film (non sempre: per esempio la sequenza della contestazione del film violento, pur avendo senso in quanto esposizione delle preoccupazioni etiche di Moretti, è un po’ troppo lunga). Di tutto questo fa parte, ed esplode nel presente film più che mai, il concetto di utopia.
Perché l’improvviso rovesciamento, la torsione, impressa al film-nel-film va al di là del what if, le svolte storiche immaginarie alla Tarantino. Quelle di Tarantino hanno una giustificazione logica nel caso (C'era una volta a... Hollywood) o nell’azione umana entro il contesto (Bastardi senza gloria). Qui invece il finale del film-nel-film non è storia alternativa, non è controfattuale (Moretti non è così ingenuo: se il PCI all’epoca avesse condannato l’attacco sovietico all’Ungheria, cosa di per sé impossibile essendoci Togliatti e il gruppo dirigente togliattiano, lo avrebbe fatto in forme ben più caute, e certo non sulla spinta di una petizione e una dimostrazione). Moretti dice un’altra cosa: il suo finale è l’esplosione di un desiderio che prende forma svincolandosi in toto dalla realtà storica. Tant’è vero che nella manifestazione campeggia la gigantografia di Trockij (il Trockij della vecchiaia antistalinista) – e qui per inciso rispunta il Mastorna del pasticciere trockista. Un richiamo all’utopia – antistorico, certo, come è antistorico il gesto di Moretti che straccia il manifesto separando Lenin da Stalin, ma questa osservazione non ci conduce assolutamente a nulla. Non è la storicità che qui viene messa in scena, è il desiderio, e Trockij appare come puro segno del desiderio. Utopia – ed ha senso che si realizzi attraverso il cinema, in un film peraltro ricchissimo di riferimenti e citazioni, da Fellini a Démy.
E’ per questo, per questa ventata di irrealtà, che la conclusione può uscire dalla cornice diegetica unificando nel finale il film e il film-nel-film, per cui nel corteo possono apparire insieme gli interpreti e le interpreti dei precedenti film di Moretti (ed è Fellini, naturalmente, il suo manifesto metacinematografico di Otto e mezzo), e Moretti stesso può salutare sorridendo in macchina.

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