Nanni Moretti
Contrariamente
alle apparenze, Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti è più nella
linea de La messa è finita o de La stanza del figlio che in quella
di Bianca o Palombella rossa. E’ lo stesso che dire che si situa
nella linea dei migliori film di Moretti.
Come
mai questo? Moretti in ogni suo film inserisce una serie di topoi, di
tratti, Sterne direbbe hobby horses, che non servono tanto a
caratterizzare il personaggio/protagonista – è cosa ovvia che
Moretti fa un cinema auto-centrico – ma come marche di
riconoscimento, che costruiscono un universo morettiano
immediatamente riconoscibile dagli spettatori e immediatamente in
contatto affettivo con gli appassionati. Non voglio dire con questo
che sia insincero: il contrario: per esempio, il fatto di usare in
tal senso la Nutella (non in questo film) non si oppone al fatto che
sul piano personale la Nutella gli piaccia molto, anzi, ne procede.
E’ una costruzione a metà fra l’autoritratto e l’autocaricatura
(perché per forza deve esagerare questi tratti) – che fra l’altro
dà ai suoi film una invidiabile continuità.
Ora,
Il sol dell’avvenire si accomuna, come detto, ai suoi film migliori
perché, come quelli, cala l’autoritratto in una struttura
narrativa forte, che lo assorbe e così facendo paradossalmente lo
esalta. Non c’è nulla di forzato o di sovrimposto in questo film.
C’è un insieme di aree narrative, immaginiamole come cerchi, che
si intersecano: la crisi del matrimonio fra Moretti e Margherita Buy;
il film con Silvio Orlando sul circo ungherese e il PCI del 1956
all’epoca dell’invasione dei maledetti russi, film che il regista
Giovanni (Moretti) non riesce a completare per ragioni produttive e
organizzative, ma inconsciamente prima di tutto artistiche; il
racconto interno al film-nel-film, che indicativamente
(addirittura Giovanni non se ne accorge e glielo insegna l'attrice
Barbora Bobulova) è anch’esso la crisi di un rapporto.
L’intersecarsi e il ruotare di questi cerchi narrativi offrono a
Nanni Moretti l’occasione per toccare ora un punto ora un altro
della sua personalità senza bisogno di spingerle in primo piano.
Inutile osservare che fra questi temi c’è anche il terrore del
blocco creativo (per un solo esempio, Aprile), un aspetto della
grande paura dell’afasia che attraversa il suo cinema.
Prendiamo
in esame una delle scene meglio inventate del film: Moretti/Giovanni
dice “Devo caricarmi”, comincia a cantare in auto una canzone,
quella canzone si allarga in montaggio a tutta la troupe del
film-nel-film, che canta, con Moretti al centro, come modo di
“caricarsi” – ma l'inquadratura frontale, da palcoscenico, e
poi dall’alto angolata, dice qualcosa di più: dice che anche se il
film-nel-film non è un musical qui si realizza almeno per un momento
quel musical di cui Moretti in maniera semiseria parla sempre, quello
con Silvio Orlando pasticciere trockista, che è un po’ il suo ironico Mastorna.
C’è
dunque un’autentica felicità nel modo in cui il “morettismo”
viene riproposto nel film (non sempre: per esempio la sequenza della
contestazione del film violento, pur avendo senso in quanto
esposizione delle preoccupazioni etiche di Moretti, è un po’
troppo lunga). Di tutto questo fa parte, ed esplode nel presente film
più che mai, il concetto di utopia.
Perché
l’improvviso rovesciamento, la torsione, impressa al film-nel-film
va al di là del what if, le svolte storiche immaginarie alla
Tarantino. Quelle di Tarantino hanno una giustificazione logica nel
caso (C'era una volta a... Hollywood) o nell’azione umana entro il contesto (Bastardi senza gloria).
Qui invece il finale del film-nel-film non è storia alternativa, non
è controfattuale (Moretti non è così ingenuo: se il PCI all’epoca
avesse condannato l’attacco sovietico all’Ungheria, cosa di per
sé impossibile essendoci Togliatti e il gruppo dirigente togliattiano, lo avrebbe fatto in forme ben più caute, e certo non
sulla spinta di una petizione e una dimostrazione). Moretti dice
un’altra cosa: il suo finale è l’esplosione di un desiderio che
prende forma svincolandosi in toto dalla realtà storica. Tant’è
vero che nella manifestazione campeggia la gigantografia di Trockij
(il Trockij della vecchiaia antistalinista) – e qui per inciso
rispunta il Mastorna del pasticciere trockista. Un richiamo all’utopia –
antistorico, certo, come è antistorico il gesto di Moretti che
straccia il manifesto separando Lenin da Stalin, ma questa
osservazione non ci conduce assolutamente a nulla. Non è la
storicità che qui viene messa in scena, è il desiderio, e Trockij
appare come puro segno del desiderio. Utopia – ed ha senso che si
realizzi attraverso il cinema, in un film peraltro ricchissimo di
riferimenti e citazioni, da Fellini a Démy.
E’
per questo, per questa ventata di irrealtà, che la conclusione può
uscire dalla cornice diegetica unificando nel finale il film e il
film-nel-film, per cui nel corteo possono apparire insieme gli
interpreti e le interpreti dei precedenti film di Moretti (ed è
Fellini, naturalmente, il suo manifesto metacinematografico di Otto e
mezzo), e Moretti stesso può salutare sorridendo in macchina.
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