Davy Chou
Anche
se Davy Chou è un regista franco-cambogiano, vien da pensare che
l’attuale Korean vogue, ossia il successo della Corea del Sud nel
cinema e nelle serie tv, c’entri con l'interesse del pubblico per
il suo film Ritorno a Seoul; che però è piuttosto un film francese,
nonostante l'ambientazione.
Nata
in Corea, Freddie/yeon-hee (Park Ji-min) è stata adottata
piccolissima da una coppia francese. Da grande, vuol conoscere i suoi
veri genitori, ed ha un rancore verso di loro; più verso il padre,
che si è fatto ritrovare, che verso la madre che continua a
sfuggirle. Parlando per metafora, questo film è dal punto di vista
narrativo un grande campo/controcampo che ha da un lato Freddie,
dall’altro la Corea, in primis i suoi familiari coreani ritrovati
(pentiti di averla data in adozione). Fra di essi il padre (Oh
Kwang-rok) è il miglior attore del film. Sta di fatto che il
“controcampo” è più interessante e ricco di realtà umana che
il lato della protagonista. Dispiace quindi che il film sia
focalizzato fortemente su di lei.
Altera
e distaccata (o si potrebbe dire, malmostosa) Freddie attraversa il
film – che si svolge nell’arco di otto anni – con un
atteggiamento ostile verso tutto, con punte di decadentismo un po’
ingenuo (l’assenzio: ombra di Des Esseintes!). Una cosa certa è
che non è portata per le lingue: in sette anni e molti viaggi non
impara il coreano. Dura anche con i genitori adottivi, questa figura
umbratile è più trascinata dalla sceneggiatura che motore di essa:
la sua rabbia si traduce in comportamenti improvvisi, ingiustificati
e bizzarri, che hanno un che di intellettualistico e programmatico –
ove cioè il film ricerca troppo consciamente l'effetto artistico –
e ricordano l'immortale “Mi
fanno male i capelli” di Monica Vitti degli anni Sessanta.
La
narrazione ellittica è poco equilibrata, con personaggi che
spariscono in un soffio. Ci sono anche cose belle nel film; la scena
dell'incontro con la vera madre, poco prima del finale, è molto ben
realizzata. Ben pensata la differenza, che si legge nelle didascalie,
fra quello che dice la malmostosa in francese e la forma attenuata,
per cortesia orientale ma non solo, dell'amica che traduce in
coreano. Una bella fotografia (di Thomas Favel) rende bene le strade
di Seoul. Tuttavia, Ritorno a Seoul non si libera da un’impressione
di concettoso e gonfiato.
Se
i distributori avessero fatto uscire più film coreani nel corso
degli anni, invece che lasciarli nella gabbia dorata dei festival, il
pubblico avrebbe potuto abbeverarsi alla vera tradizione, dura,
dolente, rabbiosa e sfrontata, dei grandi mélo coreani (da A College
Woman’s Confession di Shin Sang-ok, 1958, a The Apartment with Two
Women di Kim Se-in, 2021), senza bisogno di rivolgersi a questa mezza
Corea infranciosata.
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