venerdì 12 maggio 2023

Far East Film Festival 2023: Thailandia, Filippine e altri


Sul piano della realizzazione You & Me & Me (Thailandia) di Wanweaw e Weawwan Hongvivatana è un gioco di specchi. Due registe gemelle, dai nomi propri a chiasmo, scrivono e dirigono un film su due gemelle, interpretate da una sola attrice in doppia parte, la brava esordiente Thitiya Jirapornsilp. You e Me sono due gemelle identiche (si accenna all’elemento della telepatia emotiva dei gemelli), praticamente due anime in un (doppio) corpo. Sono abituate a scambiarsi l’una con l’altra a scuola, quando serve per gli esami, e non solo. In una distesa vacanza dalla nonna in campagna – è il 1999 – giocano a confondersi anche con il ragazzo che piace a entrambe, e questo rischia di avere conseguenze gravi. 
Anche sul piano del racconto il film è un gioco di specchi, basato su una costellazione di aspetti correlati del passaggio del tempo e sul concetto di fine. C’è l’anno 2000 che sta per arrivare e terminare il millennio; c’è il Millennium Bug (ricordate?) con la paura sul mass media di una “fine del mondo” digitale, che nella fantasia delle gemelle diventa la fine del mondo e basta; c’è una fine del loro mondo perché la famiglia si sta spaccando e se così sarà You e Me dovranno dividersi andando a stare una col padre e una con la madre; c’è, più insidiosa e profonda, la fine della preadolescenza, col primo amore, che significa la scissione di quella unità gemellare per cui erano sempre insieme e condividevano tutto.
Siamo nate insieme… ma alla fine si muore da soli”, sentiamo nel film; e anche se la situazione non diventa tragica (intanto una trasmissione tv dà notizia del suicidio di massa di una setta), devono ammettere malinconicamente l’esistenza di una differenza di personalità tra loro, e accettare fraternamente di essere due persone separata. L’uno è diventato due. Così la divisione viene ricomposta nell’accettazione della crescita, e una nuova unità si forma a livello superiore, in un sentimento agrodolce di speranza per il futuro e rimpianto per un passato che non tornerà più. E’ il significato del conto alla rovescia per l’anno 2000 nella scena poetica dell’attesa insieme – "Pensi che il mondo finirà?"- "Non so... ma non ho più paura" 
  allo scoccare del 2000 non finisce il mondo ma finisce il film. 

Meno interessante The Sales Girl, una rara entrée della Mongolia (solo la seconda nei 25 anni del festival) diretta da Janchivdorj Sengedorj, una commedia di coming of age (una ragazza si trova a lavorare in un pornoshop per sostituire temporaneamente un’amica, e l’anticonformista padrona del negozio la guida sulla vita della maturità): piuttosto verbosa ma non priva di momenti di verve, fra cui uno senz’altro divertente alla Tutti pazzi per Mary. Mi spiace di avere perso il film d’inaugurazione, il singaporese/coreano Ajoomma (è l’equivalente dell’inglese Auntie: una formula amichevolmente rispettosa verso le donne di mezza età). Ma spostiamoci alle Filippine.

Nell’intelligente commedia Where Is the Lie? di Quark Henares, Janzen (Ed Jallorina) è un trans, di aspetto femminile ma non ancora operato. Come tutti/tutte noi, ha i suoi problemi amorosi, e se ne lamenta sui social. Beanie (Maris Racal) è una regista pubblicitaria che odia i trans e fa a Janzen, che non conosce di persona, uno scherzo crudelissimo di catfishing (costruzione di un’identità immaginaria online): finge di essere un giovane, di nome Theo, innamorato di lui. Questo gioco malvagio la prende sempre di più; insieme alla sua aiutante Dina (sono una coppia in confronto alla quale Crudelia De Mon sembra il Dalai Lama) dà una realtà fisica a Theo nel corpo di un muscoloso aspirante attore stupidotto (Royce Cabrera) e lo fa incontrare con Janzen. Si crea così il classico gioco della menzogna che si sviluppa “a valanga”, in questo caso manovrato dalla malvagità di Beanie, e lo svolgimento è perfidamente spiritoso. Bravi tutti gli interpreti, ma eccellente Maris Racal, che dà un’interpretazione variegatissima sul piano psicologico, al punto che durante il film non capiremo mai Beanie fino in fondo (ha momenti di pietà che si rovesciano in malvagità ulteriori). Basta questo accenno per capire che, come tutte le buone commedie, questo film filippino sotto la risata parla del dolore umano.

A molti spettatori non è piaciuto; ma In My Mother’s Skin di Kenneth Dagatan è un eccellente horror, che mette in scena con intelligenza un dramma “chiuso” con pochi personaggi. Una famiglia filippina, padre, madre e due figli, vive in una casa nella giungla, alla fine della seconda guerra mondiale, quando i giapponesi sono in ritirata. Il padre (un tipo alquanto losco) lascia gli altri, promettendo di tornare. La madre è malata e non hanno quasi niente da mangiare. Nella disperazione, la figlia maggiore, la preadolescente Tala, si avventura nella foresta. In una capanna dove c’è un cadavere coperto di insetti, trova su un piatto una caramella; fa l’errore di mangiarla…
Suona fiabesco? In effetti il film è una versione ultranera delle fiabe. Infatti, in una capanna che è anche una specie di cappella blasfema, Tala incontra una fata, anche lei a metà fra una divinità della giungla e una Madonna cristiana, con un volto giovane e fresco ma non privo di ambiguità. Da lei implora e riceve aiuto. Ecco qui un aspetto interessante del film: le sue connotazioni sinistre passano al di sopra della comprensione della bambina disperata, e questo doppio livello dà alla storia un elemento tragico. Il film diventa via via più crudele man mano che l’aiuto di questa “fata” – connessa agli insetti – si rivela un patto faustiano. La fotografia di Russell Morton è abile nel bilanciare attentamente la natura della luce in relazione alle apparizione della “fata” (mentre il montaggio, specie nella prima parte del film, si diletta un po’ troppo di stacchi ellittici). Senza fare spoiler sul finale, basta dire che ha nettezza e logicità di soluzione.
E’ anche interessante, per la cultura filippina che è molto cattolica, la mancanza di qualsiasi contraltare cristiano alle forze del male. Si prega molto ma inutilmente; e l’altare di famiglia risulta utile solo come nascondiglio.

Altro horror, ma stavolta non riuscito, del solitamente migliore Mikhail Red, Deleter unisce due due idee, la prima delle quali è interessante, ma con uno svolgimento letargico e banale. L’idea interessante è quella di usare per il ruolo della protagonista Lyra una deleter, impiegata in una ditta col compito di cancellare (delete) dalla rete video violenti, sessuali eccetera, prima che possano diffondersi sui social. Ne vediamo diversi (fra cui c’è un cretino che mangia vermi, ma di solito sono crudeli), e all’inizio ci si può chiedere per un attimo se alcuni non possano essere reali, ma probabilmente no. Il lavoro che svolgono questi impiegati – al servizio del viscido Sir Simon – naturalmente pesa sulla loro psiche, e infatti una collega di Lyra, Eileen, si suicida. Qui entra il secondo tema: il fantasma di Eileen infesta l’edificio e perseguita Lyra. Una sorpresa finale mostra che c’è dietro anche di più del peso del lavoro.
Il lato “lavoro del deleter” non è male come idea, come già detto, ma la sceneggiatura è strascicata (fra l’altro la recitazione della protagonista non è un gran che), mentre l’aspetto horror spettrale non solo si sviluppa tardi ma è la più piatta e noiosa imitazione del J-Horror che si possa immaginare.

Andiamo in Indonesia, dove ritroviamo una regista che è quasi una regular del festival, la brava Upi. Sri Asih è un altro tassello (dopo Gundala di Joko Anwar, già passato al FEFF) nella costruzione di un universo cine-fumettistico indonesiano che fa concorrenza locale al MCU, ed è già più piacevole e divertente. Il film è una piacevole versione cinematografica del fumetto di R.A. Kosasih su una supereroina, incarnazione della dea Asih, apparso negli anni Cinquanta. Siccome sono passati tanti anni, la sceneggiatura (di Upi e Joko Anwar) ha l’intelligente trovata di non fare un reboot ma inserire la storia della prima Sri Asih, che aveva un altro nome, nella narrazione, come precedente incarnazione (anche con citazione cinematografica). Alla fine si realizza anche l’incontro di Sri Asih con Gundala, già visto nel film omonimo.
Alana, nata da genitori morti nell’eruzione di un vulcano (che imprigiona la malvagia Fire Goddess), ha una carriera di lottatrice professionista sotto la guida della madre adottiva che ha una palestra. Si scontra con il giovane Mateo (un esempio di jerk se mai ne ho visto uno) e con suo padre, uno degli uomini più potenti del paese. Da notare il sottotesto politico con la polizia totalmente corrotta e asservita ai ricchi.
Questo potrebbe essere il difetto del film: Alana è una super-picchiatrice sul ring, ma l’elemento supereroico e soprannaturale in pratica viene fuori dopo cinquanta minuti. Va detto però che la regia di Upi ha un’energia per cui il film non è mai noioso. Un paio di ellissi sfacciate servono a tenere in ombra certi sviluppi per tenerli come sorpresa (una si prolunga anche fino al prossimo film!, sebbene non sia troppo difficile indovinare il mistero nascosto). Dopo la rivelazione soprannaturale il film fila liscio, con una mitologia (creature maligne contro la dea Asih) bastante per una serie di film, e un’avventura vivace e piacevole, dove Alana/Sri Asih ha dei superpoteri che le permettono di stendere qualsiasi figlio di puttana le si faccia incontro – finché non deve battersi con un demone capace di dissolversi in fumo nel finale. Molto bella la scena dell’iniziazione di Alana come Sri Asih, un misto di rito religioso e di danza da parte della protagonista Pevita Pearce.

Anni fa il FEFF ha presentato l’ottimo (e molto inquietante) horror Satan’s Slaves di Joko Anwar. Satan’s Slaves: Communion è il sequel, ed è il secondo di una trilogia. Dico subito che Joko Anwar (anche sceneggiatore) ha un’ottima capacità sul piano visuale, e il film qui ha buone carte da giocare. Però, mentre nel primo film le immagini horror si inserivano in un continuum (indimenticabile quella casa col ritratto che guarda dall’alto!), qui alcune immagini memorabili emergono dal flusso come scogli isolati: Satan’s Slaves: Communion colpisce più per le sue parti – ottimo ad esempio l’incidente dell’ascensore – che per l’intero. Sul piano narrativo infatti il film è alquanto faticoso, e dopo un ottimo prologo perde spinta. Forse c’entra anche la moltiplicazione dei personaggi attivi (qui un gruppo di giovani e un trio di bambini). Ritornano i personaggi del primo Satan’s Slaves, e il problema del presente film è che riposa pesantemente sul primo – ovvero sulla conoscenza di esso da parte dello spettatore. 
Alla villetta isolata del primo film, questo oppone un enorme palazzone di alloggi popolari, dai tetri corridoi, che ricorda molto il J-Horror. Vero che esso consente a Joko Anwar un'inquadratura assai bella nel finale, con la zattera che si allontana nella pianura allagata e il palazzone sul fondo che si staglia contro il cielo tempestoso. L’aspetto più interessante sul piano horror sono i morti nelle case: ce ne sono molti in seguito all’incidente dell’ascensore. Naturalmente, da un lato l’horror capitalizza sempre sulla paura del cadavere, dall’altro questa paura per noi occidentali è aumentata da modalità che per i musulmani sono normali (lasciare i morti in casa col viso scoperto e cotone nelle narici prima del funerale), e quindi deriva dall’esotismo più che dal fatto intrinseco. Beninteso, il film li usa comunque in chiave horror. Senza sorpresa, questi morti risorgeranno come pocong (morti viventi nei loro sudari) – ma in modo stranamente moderato sul piano visivo: insomma, fanno più paura da morti che da morti-vivi.

Il film malaysiano Abang Adik ha vinto il Premio del Pubblico, nonché altri due premi, ed ha entusiasmato gli spettatori. Opinione personalissima, e magari errata, di uno dei pochi che non è rimasto conquistato dal film: esordio registico di Jin Ong (già noto come produttore: Miss Andy e altri film), da lui scritto e diretto, questo film mi è sembrato una strana mescolanza di pregi e difetti.
Abang e Adik significano fratello maggiore e fratello minore. Questi due fratelli (non di sangue) vivono nella società povera di Kuala Lumpur senza casta d’identità. Sono malaysiani di origini cinesi – una comunità malaysiana inferiore sul piano politico a quella malese (Malay). Il minore, Adik, è uno stronzetto che vive di espedienti; il maggiore, Abang, che lo protegge, è sordomuto. Un’assistente sociale cerca di proteggerli – e per tutto ringraziamento viene uccisa (sia pure in modo preterintenzionale durante un’esplosione di violenza) da Adik, il quale dà di matto quando sente parlare di suo padre che lo ha abbandonato.
Questa svolta avviene circa a metà del film, ed è un peccato perché è da qui che Abang Adik assume un suo interesse. Abang fugge col fratello e poi si autoaccusa dell’omicidio. In prigione cerca di lasciarsi morire di fame ma poi accetta il suo destino (la condanna a morte). Adik mette la testa a posto e nell’ultima inquadratura va a incontrare suo padre. Il film è melodrammatico (non nel senso più alto del mélo), con un paio di trovate forse troppo “poetiche” (Abang che “vede” in cella suo fratello piccolo). In ogni modo, c’è un elemento decisamente intenso nella recitazione muta di Kang Ren Wu (Abang) e il suo discorso finale è potente. E’ interessante notare come negli ultimi anni la lingua dei segni usata dai sordomuti, che per forza di cose deve affidarsi all’aspetto gestuale, per il potere della sua evidenza fisica ritorna sempre più spesso nel cinema orientale (Drive My Car di Hamaguchi Ruysuke, Love Life di Fukada Koji). La bella fotografia è di Kartic Vijay (The Soul).

E’ puro divertimento, ma è vero divertimento, il malaysiano Coast Guard: Ops Helang (Operazione Aquila). I membri della Guardia Costiera contro pirati crudelissimi, che sono anche riusciti a infiltrare le loro fila. Gli eroi sono un uomo, il tenente Hafiz, e una donna, il tenente Melati – che nel bel mezzo dell’assalto finale depongono le armi da fuoco per fare a pugni o a coltellate con i rispettivi nemici personali (un po’ troppo cavalleresco a mio parere). Dapprima i pirati, per vendicare un vecchio conto, prendono prigionieri Hafiz e un gruppo di invitati alla sua festa di fidanzamento, massacrando gli altri. Poi succede molto altro, ma mi fermo per non fare spoiler.
La realizzazione tecnica è molto buona (il film è uno spottone per la Coast Guard, che ha evidentemente collaborato coi suoi mezzi); si nota una vera professionalità di regia, montaggio e fotografia, con un buon uso del drone fin dalla prima immagine. Com’è prevedibile in un film volutamente iper-popolare, si pigia sul pedale dell’esagerazione, con i nemici che sono sadici e ghignanti, e il loro vice-capo (Adlin Aman Ramlee) che cerca di stabilire un record di overacting: ma visto il clima generale ci sta. Devo dire che l’infiltrato dei pirati a bordo della nave della Coast Guard si indovina subito, ma non importa: il film, veloce come ritmo, è comunque uno spasso. Mi spiace aggiungere che il regista Pitt Hanif è morto in un incidente dopo la fine delle riprese.

Come mi è già capitato di scrivere in questi resoconti, quest’anno il FEFF ha superato se stesso sul piano delle retrospettive, con quattro tributes (Baisho Chieko, Johnnie To, Po-Chih Leong e Jang Sun-woo), un classico del 1982 restaurato in “prima” internazionale (Nomad di Patrick Tam) e una mega-retrospettiva su grandi film degli Ottanta e Novanta, in pratica “il FEFF prima del FEFF”. E non ho parlato degli interessantissimi documentari… Mai come quest’anno uno ha desiderato di possedere il dono dell'ubiquità.


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