Si può immaginare che una sanguinosa vicenda storica venga raccontata come una storia d'amore? Si può – ma il rischio è di romanticizzare l’epoca e indebolirne la plausibilità. Non è questo il caso dell'ottimo The Legend & Butterfly di Otomo Keishi (del resto, il regista della saga Rurouni Kenshin non è l’ultimo venuto nel cinema in costume). In un’epopea di quasi tre ore il film, psicologicamente acuto e di sorprendente freschezza, immagina l’amore tra due personaggi storici, il terribile signore della guerra Oda Nobunaga e sua moglie, Lady No, nell'arco di trent’anni nel Giappone del XVI secolo. Non un amore a prima vista: è un matrimonio politico, al quale la sposa arriva con pessime intenzioni; ma prima nasce l’ammirazione di Nobunaga per i suoi consigli e le sue capacità strategiche, poi la simpatia, poi l’amore reciproco. Non manca, chiaramente, la messa in scena sontuosa sia delle cerimonie sia delle battaglie, che è un caposaldo dei film in costume; e c’è un’eco di Kurosawa nel potente finale: non parlo della battaglia ma del dopo, con il protagonista intrappolato da solo nel tempio. In seguito, il desiderio di vivere esplode in una fantasia ingannevolmente narrata come diegesi, ciò che ricorda molto Un avvenimento sul ponte di Owl Creek di Ambrose Bierce (un racconto che ha influenzato davvero profondamente il cinema). In primo luogo nel film emerge, con due eccellenti attori e un dialogo spiritoso, un rapporto vivace e commovente, che trasforma due figure dei libri di storia e dei dipinti su seta rendendole umane e concrete.
Due
film già passati al FEFF, Thermae Romae (nella sua parte giapponese)
e Melancholic, hanno popolarizzato quella peculiare istituzione che è
il sento, il bagno pubblico (mentre invece onsen sono le sorgenti
calde). Al sento rende un caldo omaggio Yudo: The Way of the Bath di
Suzuki Masayuki.
Dopo
la morte del padre, gestore di un sento
in una cittadina, il maggiore
di due fratelli estraniati – un architetto non più di successo a
Tokyo – torna allo
stabilimento, ora gestito dal minore, con
il piano segreto di demolire
l’edificio e vendere il
terreno.
E’
un'illustrazione completa dell’organizzazione dei bagni e del modo
di pensare che vi
è connesso (“Ti bastano poche centinaia di yen per ottenere un
completo reset”). Non
scherzo se parlo di un film laudatorio!
Alcune
scene mostrano un Maestro e i suoi discepoli che intendono la Via del
Bagno in senso filosofico-mistico, come la Via dell’Arco della
tradizione zen. Questo è ironico, certo (in
punto di morte, poi, il Maestro dice “E’ solo un bagno. Perché riverirlo come una
filosofia?”), ma al
fondo del film c’è effettivamente
un concetto generale:
la centralità della natura nel modo di pensare giapponese.
Attorno
al racconto base si disegna tutta una serie di vignette sui clienti
del bagno – o non clienti, come un pomposo critico dei bagni.
Queste figurette, provviste di una backstory agilmente schizzata,
sono molto piacevolmente delineate, e creano un delizioso contraltare
alla storia dei due fratelli. Come non adorare la coppia del
ristorante vicino al sento, con dispute sulla birra che lui non deve
bere, o il gaijin (straniero) per conquistare il severissimo suocero
diventa più giapponese dei giapponesi?
Andando
avanti, questo film un po’ lungo diventa quasi travolgente. Si esce
dalla visione chiedendo (inutilmente perché siamo a Udine): “Dov’è
il sento più vicino?”
Avete
mai pensato ai kombini, o convenience stores, i minimarket diffusi
dappertutto in Giappone, come a luoghi liminali? Se sì, siete in
sintonia con Mark Schilling e Miki Satoshi. Il primo, critico
cinematografico del Japan Times di Tokyo e consulente del FEFF per il
Giappone, ha scritto un soggetto intitolato The Convenience Store; il
secondo lo ha sceneggiato, assai liberamente, e portato sullo schermo
come Convenience Story. Il testo di Schilling è stato pubblicato ed
era in vendita al Festival, per cui possiamo farci un’idea dei
cambiamenti intervenuti tra E ed Y.
Devo
dire sinceramente che il soggetto di Schilling è migliore della
sceneggiatura di Miki. Eterno problema di questo regista interessante
e a tratti geniale: non è che non abbia idee, è che ne ha troppe.
Ha una sorta di generosità che lo porta ad affastellarle dentro il
film, a valanga, col risultato di costellarlo di momenti/figure
memorabili, ma spesso a scapito della composizione nel suo complesso.
E’ il caso del presente film, che si fa apprezzare più come
collezione di scene che come intero. Ha dei momenti assolutamente
affascinanti, disposti su una linea narrativa volutamente ambigua e
contraddittoria, in ultima analisi un po’ umbratile (come il suo
protagonista), relativa a un grumo tematico che comprende il
desiderio, la scrittura (è la storia di uno sceneggiatore) e in
primo luogo la morte.
Non
è solo il minimarket a porsi come luogo, o figura, liminale. Dopo aver
abbandonato il cane Cerberus, il protagonista Kato col suo camioncino
urta e rompe una statuetta di Jizo (non per nulla gli chiede di non
maledirlo): una divinità del transito fra il mondo e l’aldilà. Abbiamo già sentito il nome Cerbero, ma di riferimenti all’aldilà è piena la dimensione ultraterrena in cui
finisce Kato (con al centro un convenience store): dalla Cavalcata delle Valchirie all’avvertimento di Euridice a Orfeo
(“Qualunque cosa succeda, non voltarti”); soprattutto, nella luce
rossa e verde che bagna i personaggi in certe scene, non è difficile
riconoscere la luce d’oltretomba di Tokaido Yotsuya Kaidan di
Nakagawa Nobuo. Non per nulla questa luce trionfa nella bella
sequenza dello stabilimento termale, dal quale i morti partono con
maschere di volpe per raggiungere l’aldilà. Il finale
semi-circolare con il fiore nel vasetto concretizza l’idea che Kato
sia morto nell’incidente che vediamo a inizio film.
Tutto
questo che s’è cercato confusamente di esporre riguarda solo una
parte di Convenience Story (l’abbiamo detto, Miki non è un regista
del restraint!). Questo film non è un’opera perfetta in termini di
composizione aristotelica – o del suo equivalente giapponese. Ma
certamente, come gli altri film dell’autore, offre un'esperienza
che resta nella memoria.
Il
bellissimo You’ve Got a Friend ha tutte le caratteristiche delle
migliori opere di Hiroki Ryuichi: narrazione meditabonda e dai tempi
lenti, autenticità e intensità psicologica dei personaggi,
eccellenti interpretazioni, bizzarro umorismo. Qui – lavorando su
una sceneggiatura di Kurosawa Hisako da un manga – Hiroki attinge
ai ricordi della sua carriera nel cinema pink per portarci
nel mondo del sadomasochismo a pagamento, e sottolinea abilmente la
sua doppia natura di rito e di finzione. C’è uno splendido
episodio proprio all’inizio, quando la “dominatrix” Miho
(un’ottima interpretazione di Nahana) sottopone il cliente Yoshida
(Murakami Jun) a una tortura impressionante, lui perde conoscenza per
un attimo – e lei cambia immediatamente atteggiamento, passando dal
rapporto finzionale “padrona/schiavo” a quello reale “fornitrice
di servizi/cliente”: “Yoshida-san? Sta bene? Mio Dio, mi ha
spaventata”.
Se
Miho è una volonterosa donna d’affari di buon cuore, il
protagonista Yoshida Yoshio (l'allitterazione gli dà qualcosa di
comune e di ridicolo allo stesso tempo) è lo schiavo perfetto, fino
al sacrificio ultimo. Tuttavia, mentre noi saremmo istintivamente
portati a ritenere ridicolo (o tragico) uno che paga per farsi colare
cera bollente sul petto e sulla lingua, invece Yoshida emerge dal
film come un personaggio a tutto tondo, che ottiene una comprensione
simpatetica. I tocchi di comedy (grande quando al ristorante
Miho, in un momento di distrazione, gli versa la birra in testa
tornando automaticamente ai rituali di umiliazione – oppure quando
fantasizzano su una nazionale olimpica di masochismo alle Olimpiadi)
non sono concepiti per abbassare il personaggio ai nostri occhi ma
per accompagnarlo con un sorriso complice. Lo stesso vale per
l’episodio di una ragazza innamorata che gli si offre prima come
schiava (non ha capito) poi, dopo una spiegazione, come “domina”
ma all’idea di urinare sull’amante non ce la fa e scappa. I guai
sorgono quando riappare la “dominatrix” precedente, Yukiko (Azumi), di cui
Yoshida è rimasto innamorato.
E’
un film pieno di ironia e di scherzi nascosti – ambientato in una
società che, ironizza Hiroki, vuole decidere quali vizi siano da
tollerare e quali no (es. il fumo), ma le pratiche sadomaso si
situano nella zona in mezzo. Nella città immaginaria dove si svolge
la storia siamo in campagna elettorale fra due candidati (uno
corrotto e uno ipocrita) e la sopravvivenza del club dove Miho
pratica è incerta. Comunque lo sviluppo, buffo e insieme logico, del
film risolverà da sé la questione. La conclusione è un happy ending
artificioso, quasi una presa in giro, ma anch’esso rientra in
quell’ironia sottile che innerva il film.
Anche nell’antologico She Is Me, I Am Her di Nakamura Mayu sono in mostra le grandi capacità attoriali di Nahana. Il film la presenta in quattro episodi indipendenti, legati in modo più o meno stretto al Covid e all’isolamento che ha portato. Sono quattro versioni della solitudine, in cui Nahana è eccezionale; confermano la versatilità di quest’attrice che il pubblico del FEFF ha visto anche l’anno scorso in Noise, e precedentemente nello splendido River di Hiroki Ryuichi. She Is Me, I Am Her è un film indubbiamente riuscito, che giunge a segno e colpisce e commuove. C’è solo un aspetto che lascia perplessi (o almeno apre un problema): il film è estremamente dipendente dalle opere di Hamaguchi Ryusuke, non dico per la presenza della sua attrice Urabe Fusako ma per un’analogia di tono e atmosfera – evidentissima nel primo episodio – che arriva fino a inserire dettagli come la musica di Schumann o il riferimento al teatro di Čechov. Potremmo vederlo come un sentito omaggio al maestro.
Di
Plan 75 di Hayakawa Chie – appena interpretato da Baisho Chieko (nata nel 1941), che
ha ricevuto il Gelso d’Oro alla carriera a 84 anni – vorrei
scrivere fra poco, quando il film uscirà in Italia, distribuito
dalla Tucker Film. Ho perso, e conto di recuperare, altri film della
selezione giapponese. Ma certamente non ho perso altri due film
interpretati da Baisho Chieko e scelti proprio da lei per un piccolo
omaggio retrospettivo. Entrambi diretti da Yamada Yoji, un regista
assolutamente da studiare, presentano questa eccellente attrice e
cantante ai tempi della gioventù. Tora-san, Our Lovable Tramp (1969)
è il primo film della serie cinematografica su Tora-san,
interpretato da Atsumi Kiyoshi, che consta di ben 48 episodi
nell'arco di trent’anni – salvo errore, la serie di film più
longeva del mondo. Tora-san, venditore ambulante grezzo ma di buon
cuore, gira per il Giappone, invariabilmente si innamora,
invariabilmente gli va male; ma, come Chaplin, ricaccia le lacrime e
riprende la sua strada. Nel suo sobborgo di Tokyo, lo attende la
gentile sorellastra (Baisho) sempre preoccupata per lui. Per inciso,
un’altra figura fissa della serie è l’“ozuiano” Ryu Chishu.
Il
capolavoro Where Spring Comes Late, visto al FEFF in una bella
copia su pellicola, uscì nel 1970 dopo il primo Tora-san, col quale
non ha rapporto se non a livello di cast (con Baisho c’è anche Ryu
Chishu, e in una parte minore Atsumi). Racconta il viaggio di una
famiglia povera dal sud del Giappone fino a Hokkaido, nel nord, dove
il capofamiglia vuole trasferirsi. Protagonista non è il marito,
autoritario fuori e debole dentro; è la moglie Tamiko, cui dà corpo
Baisho Chieko in una delle interpretazioni più belle che si possano
immaginare, degna di Hara Setsuko o Tanaka Kinuyo. In questo viaggio con aspetti semi-documentari, raccontato con commovente partecipazione umana, la famiglia passa per gravi drammi e fratture: ma che si sanano nella tarda primavera di Hokkaido in una nuova speranza.
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