Saverio Costanzo
“La solitudine dei numeri primi” è francamente un film fallito; ma si tratta di un nobile fallimento. Vale a dire che nel concretizzare questo progetto ambizioso il regista-sceneggiatore Saverio Costanzo ha percorso un lungo tratto di strada, con coraggio e capacità; anche se il risultato finale non convince, non fa sfigurare Costanzo come uno dei migliori giovani registi italiani.
Tratto dal romanzo di Paolo Giordano, che ha anche contribuito alla sceneggiatura, il film esplora l'universo dolente di due giovani traumatizzati in età infantile. Mattia da bambino ha abbandonato su una panchina la sorella handicappata psichica, vergognandosi di portarla con sé a una festa, e poi non l'ha mai più ritrovata; Alice da bambina è stata costretta dal padre stupido e ambizioso a sciare su una pista pericolosa ed ha avuto un incidente rimanendo zoppa. Ferite dell'anima e ferite del corpo che si scambiano: Mattia trasferisce il suo dolore nel corpo mediante l'autolesionismo; Alice ha sviluppato la sua lesione fisica come una ferita interiore; entrambi vivono una vita di disadattamento e solitudine. Costanzo non rifugge dal naturalismo: la magrezza anoressica del corpo di Alba Rohrwacher (Alice), il moccio che cola dal naso di lei (nel film c'è uno strano doppio registro dei fluidi corporei: il moccio si mostra, il sangue no; la scena della ferita alla mano lo nasconde fuori campo, quella – ben disturbante – del taglio della pelle tatuata va subito in ellissi).
La trama consta di quattro linee temporali: un “racconto primo” nel 2001, interlineato con una doppia serie di flashback dei protagonisti bambini (1984) e adolescenti (1991), più un epilogo nel 2008. Il paradiso del montatore: e infatti il montaggio del film è efficace nel saltare da un tempo all'altro, con rime, incastri temporali, falsi raccordi.
C'è molto di bello ne “La solitudine dei numeri primi”. La regia di Costanzo è raffinata, ben sorretta dalla fotografia di Fabio Cianchetti (foto elegante e imperativa, ottima costruzione dell'inquadratura) e appunto dal montaggio della “bellocchiana” Francesca Calvelli. Meno forse da una musica a volte troppo presente. Diverse pagine sono vigorose e persuasive. Vedi l'apertura con la recita dei bambini in costume, e la mdp che procede, intenta, e rivela l'espressione selvaggiamente impaurita della bambina-albero; poi quando ella rovina lo spettacolo mettendosi a urlare, e il fratello la prende per mano, vediamo gli sguardi smarriti di entrambi davanti alla platea di spettatori. Oppure, più tardi, le cupe scene del disastro che sta per abbattersi sulla vita dei due bambini - ovviamente in montaggio parallelo, con un uso drammatico della macchina a mano - realizzano un'atmosfera di orrore che è impressionante e coinvolgente. Una notevole specialità di Saverio Costanzo è l'intensità dei visi. Nella bella sequenza del matrimonio di Viola, mentre risuona un lugubre valzer (appropriatamente Costanzo ha scelto il “Valse triste” di Sibelius), osserviamo i protagonisti e gli invitati: è dai tempi di Fellini, oserei dire, che non si vedeva nel nostro cinema un simile lavoro sui volti. Memorabili qui Mattia e Alice, adulti, che – dopo la confessione del primo alla seconda e il bacio – entrano nella stanza tenendosi per mano e sembrano loro gli sposi (non per niente loro, che sono i fotografi, vengono fotografati!).
Queste scene, o altre parimenti riuscite, compongono indubbiamente un'opera notevole. Purtroppo ciò non vuol dire coerente. A pagine convincenti si contrappongono altre assai inferiori per riuscita estetica e forza narrativa. Basta citare il goffo dialogo fra Alice e la voce dell'ex marito Fabio nella segreteria telefonica (dove si ricade nel peggio del cinema italiano) o la sciocchezza immediatamente seguente dell'entrata di Fabio in casa con lei nascosta sotto il tavolo. Una cosa strana del film è la sua involuzione progressiva: peggiora a seconda che il tempo narrativo si avvicina al nostro: la parte 1984 è meglio di quella 1991 che è meglio di quella 2001 che è meglio di quella 2008. In linea generale la terza sezione in ordine cronologico sembra meno consistente rispetto alle altre due, mentre quella 2008 è francamente brutta.
Perché accade questo? Si deve mettere in rilievo, nel film, l'opposizione fra il buon lavoro di regia e il livello talvolta mediocre della sceneggiatura (è una tradizione italiana, purtroppo). Le psicologie dei personaggi secondari nel film non emergono chiaramente (l'amica-nemica Viola) oppure sono caricaturali (il padre di Alice); anche una figura importante come il medico Fabio, poi marito di Alice, rimane un personaggio anodino. Il dialogo appare a volte forzato, poco credibile, troppo evidentemente funzionale allo sviluppo del plot. Per esempio una buona scena in cui Mattia bambino gioca al chirurgo con un giocattolo di moda in quegli anni, e arriva la sorella, viene danneggiata dall'irruzione della madre descritta in modo troppo didattico. Capita così spesso nel nostro cinema che un personaggio sembri un cretino o un pazzo non perché lo sia a livello diegetico ma perché la sceneggiatura non ha saputo dare veridicità al suo agire o al suo dire.
In alcuni casi Costanzo regista risolleva l'opera di Costanzo e Giordano sceneggiatori: la scena di bullismo femminile contro Alice è banale, ma viene nobilitata dall'efficace gioco di espressioni e di sguardi. Fatto sta, questa spirale dialettica comporta un ulteriore avvitamento, in quanto i limiti della sceneggiatura portano a volte la regia a soluzioni corrive, come quella del clown interpretato da Filippo Timi: l'idea di inserire in una sequenza d'angoscia infantile (che si regge bene da sola) un clown maligno squadernato sullo schermo con la più banale delle scelte di inquadratura e illuminazione è un'ingenuità che non ci si aspetterebbe da Costanzo, un momento di perdita di autocontrollo artistico.
Così “La solitudine dei numeri primi” risulta un film alterno. Ma in una cinematografia che considera importante robetta di infimo ordine come “La Passione” di Mazzacurati, avercene di film così.
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