domenica 24 novembre 2024

Giurato numero 2

Clint Eastwood

Fa male a vedersi”, lo splendido e terribile Giurato numero 2 di Clint Eastwood – per la potenza con cui ci parla del dolore umano e di scelte che sono comunque perdenti; e per il modo in cui (contro le antiche e onorate regole hollywoodiane) lascia il giudizio morale interamente a noi spettatori. Non è un film testamentario (semmai lo era Cry Macho), è un dramma morale basato su un’ipotesi, che pone un problema, impone una riflessione.
Si tratta di un courtroom drama, un dramma giudiziario, su un processo magnificato dal bellissimo montaggio di di David S. Cox e Joel Cox: nota come vengono alternate velocemente, contro l’ordine temporale oggettivo, le arringhe finali dell’accusa e della difesa, mettendole in parallelo come se fosse un dialogo. Per l’omicidio di una donna, trovata morta in un burrone mesi prima, viene processato il suo fidanzato, un pregiudicato che era stato visto litigare furiosamente con lei. Un courtroom drama e non un thriller ma una tensione da thriller lo attraversa. Bisogna aggiungere che tale tensione dapprima è legata allo sviluppo narrativo (cosa accadrà?); poi, senza abbandonare questo, si allarga al piano morale (cosa è giusto fare?).
La prima votazione vede undici giurati contro uno, come nel famoso Twelve Angry Men (La parola ai giurati) di Sidney Lumet (1957). In quel film l’unico innocentista, Henry Fonda, si batteva per rovesciare il verdetto in una tesa memorabile discussione. Ma Henry Fonda serviva imparzialmente la verità. Qui – attenzione, seguono spoiler: la lettura è per chi ha già visto il film – il giurato numero 2 (Nicholas Hoult), Justin, ex alcoolizzato guarito, la cui moglie aspetta un bambino, ha un motivo personale. Eastwood (su sceneggiatura di Jonathan Abrams) mette le carte in tavola già all’inizio. All’inizio del processo, nell’illustrazione preliminare del caso da parte dell’accusa, gli ossessivi primissimi piani di Justin (laddove ordinariamente ci si aspetterebbero i controcampi dell’imputato) sono un modo abile per dirci senza bisogno di dialogo che il vero imputato è lui, non davanti alla legge ma alla coscienza, e alla sua paura. Infatti, per un perfido gioco del destino, Justin è moralmente innocente ma tecnicamente colpevole proprio della morte della ragazza. L’aveva investita lui in quella lontana notte di pioggia battente, e credeva di aver colpito un cervo poi fuggito; in realtà la donna era stata scagliata nel burrone oltre il parapetto. Ma se Justin lo dicesse adesso, nessuno crederebbe a un ex bevitore (che per di più quella notte aveva ordinato al bar un whisky senza poi berlo), e lo aspetterebbero molti anni di carcere. Di qui il suo tentativo di far sì che l’imputato sia assolto, giocando sulla tenuità delle prove, però senza autodenunciarsi – ma anche il suo doppio gioco quando un altro giurato, un ex poliziotto (J.K. Simmons), si avvicina troppo alla verità.
Il film si apre con l’immagine della moglie di Justin con una benda sugli occhi: è per farle trovare una sorpresa in casa, ma anticipa in modo geniale e impressionante il grande tema del film, che è la giustizia. Il che fare della giustizia quando ogni scelta a disposizione è distruttiva – e, in una parola, ingiusta. Il protagonista è innocente come l’imputato; confessare salverebbe l’accusato dall’ergastolo ma distruggerebbe, oltre che lui stesso, la sua famiglia. Il dilemma si duplica nell’ambiziosa, ma onesta, pubblica accusatrice Faith (una Toni Collette da Oscar), che ha investito molto su questo processo per la sua carriera, e viene a scoprire con orrore la verità.
Con un finale aperto (non è detto che Faith sia venuta per arrestare Justin, benché questa sia l’interpretazione più probabile) che si chiude sul campo/controcampo dei due, Eastwood e Abrams rinunciano a ogni sorta di soluzione che metta un punto fermo in positivo o in negativo (esempi immaginari, l’imputato muore in cella, Justin si consegna con nobili parole, Justin si uccide, Faith decide di lasciarlo andare, salta fuori un testimone deus ex machina, un pazzo confessa di avere ucciso lui la donna anche se non è vero). Siamo lasciati soli a decidere.
Se ci prendiamo la responsabilità di rispondere che Justin deve cadere, tutto diventa un Fiat Iustitia, pereat mundus inumano. Ma se ci prendiamo la responsabilità di rispondere – come chi scrive queste righe – che è giusto che Justin si salvi a spese dell’imputato (che è stato uno spacciatore), in una sorta di bilancia dei mali… non solo il concetto base del giusto processo è tradito, ma non possiamo chiudere gli occhi davanti al fatto che Justin se la cava personalmente assai bene (nessuno è innocente!), e ci torna in mente il rassegnato cinismo di Martin Landau alla fine di Crimini e misfatti di Woody Allen, altro capolavoro sulla questione morale.
Non è un quiz. Eastwood in questo film ci pone di fronte all’essenza della tragedia, dove non c’è soluzione rispetto alle forze contrastanti che lacerano la vita del protagonista. Non c’è composizione, non c’è possibilità di battersi come Richard Jewell, altro protagonista di una situazione kafkiana; c’è solo il male dell’esistenza, con la spietatezza di un Cornell Woolrich. In tutta la sua carriera, prima nelle forme del cinema di genere, poi andando oltre il cinema di genere senza rinnegarlo, Clint Eastwood ha dibattuto gli stessi temi: la responsabilità, il pentimento, la scelta, la giustizia sostanziale, il destino, cosa significa essere un uomo. Ora novantaquattrenne, con una perfetta regia di sobrietà classica
riprende la sua riflessione in questo film non solo profondamente ma anche dolorosamente umano.

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