Clint Eastwood
“Fa
male a vedersi”, lo
splendido
e terribile Giurato numero 2 di Clint Eastwood – per
la potenza con cui ci parla
del
dolore umano e di scelte che sono comunque perdenti; e per il modo in
cui (contro le antiche e onorate regole hollywoodiane) lascia il
giudizio morale interamente a noi spettatori. Non è un film testamentario (semmai lo era Cry Macho), è un dramma morale basato su un’ipotesi, che pone un problema, impone una riflessione.
Si
tratta di un courtroom drama, un dramma giudiziario, su un processo magnificato dal bellissimo montaggio di di David S. Cox e Joel Cox:
nota come vengono alternate velocemente, contro l’ordine
temporale oggettivo, le arringhe finali dell’accusa e della difesa,
mettendole in parallelo come se fosse un dialogo. Per l’omicidio di
una donna, trovata morta in un burrone mesi prima, viene processato
il suo fidanzato, un
pregiudicato che era stato visto litigare furiosamente con lei.
Un
courtroom drama e non un
thriller –
ma una tensione da thriller lo
attraversa. Bisogna aggiungere che tale tensione dapprima è legata
allo sviluppo narrativo (cosa accadrà?); poi, senza abbandonare
questo, si allarga al piano morale (cosa è giusto fare?).
La
prima votazione vede undici giurati contro uno, come nel famoso
Twelve Angry Men (La parola ai giurati) di Sidney Lumet (1957). In
quel film l’unico innocentista, Henry Fonda, si batteva per
rovesciare il verdetto in una tesa memorabile discussione. Ma Henry
Fonda serviva imparzialmente la verità. Qui – attenzione, seguono
spoiler: la lettura è per chi ha già visto il film – il giurato
numero 2 (Nicholas
Hoult), Justin, ex
alcoolizzato
guarito, la cui moglie
aspetta un bambino, ha
un motivo personale. Eastwood (su sceneggiatura di Jonathan Abrams)
mette le carte in tavola già all’inizio. All’inizio del
processo, nell’illustrazione preliminare del caso da parte
dell’accusa, gli ossessivi primissimi piani di Justin (laddove
ordinariamente ci si aspetterebbero i controcampi dell’imputato)
sono un modo abile per dirci senza bisogno di dialogo che il vero
imputato è lui, non davanti alla legge ma alla coscienza, e alla sua
paura. Infatti, per un perfido gioco del destino, Justin è
moralmente innocente ma tecnicamente colpevole proprio della morte
della ragazza. L’aveva investita lui in quella
lontana notte di pioggia
battente, e
credeva di aver colpito
un cervo poi fuggito;
in realtà la donna era
stata scagliata nel burrone
oltre il parapetto. Ma se
Justin lo
dicesse adesso, nessuno crederebbe a
un ex bevitore (che
per di più quella notte
aveva ordinato al bar un
whisky senza
poi berlo),
e lo aspetterebbero
molti anni di carcere. Di qui il suo tentativo di
far sì che l’imputato sia
assolto, giocando sulla tenuità delle prove, però
senza autodenunciarsi – ma
anche
il suo doppio gioco quando
un altro giurato, un ex poliziotto (J.K. Simmons), si avvicina troppo
alla verità.
Il
film si apre con l’immagine della moglie di Justin con una benda
sugli occhi: è per farle trovare una sorpresa in casa, ma anticipa
in modo geniale e impressionante il grande tema del film, che è la
giustizia. Il
che fare della giustizia quando ogni scelta a disposizione è
distruttiva – e,
in una parola, ingiusta. Il
protagonista è innocente come l’imputato; confessare salverebbe
l’accusato dall’ergastolo ma distruggerebbe, oltre che lui
stesso, la sua famiglia. Il
dilemma si duplica nell’ambiziosa, ma onesta, pubblica
accusatrice Faith
(una Toni Collette da Oscar), che
ha investito molto su questo processo per la sua carriera, e viene a
scoprire con orrore la verità.
Con
un finale aperto (non è
detto che Faith sia
venuta per arrestare Justin, benché
questa sia l’interpretazione più probabile) che
si chiude sul campo/controcampo dei due,
Eastwood e Abrams rinunciano
a ogni
sorta di soluzione che metta
un punto
fermo in positivo o in
negativo (esempi immaginari,
l’imputato muore in cella,
Justin si consegna
con nobili parole, Justin si
uccide, Faith decide di lasciarlo andare, salta fuori un testimone
deus ex machina, un pazzo confessa di avere ucciso lui la donna anche
se non è vero). Siamo
lasciati soli a decidere.
Se
ci prendiamo la responsabilità di rispondere che Justin deve cadere,
tutto diventa
un Fiat Iustitia, pereat mundus inumano. Ma se ci prendiamo la
responsabilità di rispondere – come chi scrive queste righe –
che è giusto che Justin si salvi a spese dell’imputato (che è
stato uno spacciatore), in
una sorta di bilancia dei mali… non solo
il concetto base del giusto processo è tradito, ma
non possiamo
chiudere gli occhi davanti al fatto che Justin se la cava
personalmente assai bene (nessuno è innocente!), e ci
torna in mente il rassegnato
cinismo di Martin Landau
alla fine di
Crimini e misfatti di Woody Allen, altro capolavoro sulla questione
morale.
Non
è un quiz. Eastwood in
questo film ci pone di fronte all’essenza della tragedia, dove
non c’è soluzione rispetto alle forze contrastanti che lacerano
la vita del protagonista.
Non c’è composizione, non
c’è possibilità di battersi come Richard Jewell, altro
protagonista di una situazione kafkiana; c’è solo il male
dell’esistenza, con la
spietatezza di un Cornell Woolrich.
In tutta la sua carriera, prima nelle forme del cinema di
genere, poi andando oltre il cinema di genere senza rinnegarlo, Clint
Eastwood ha dibattuto gli stessi temi: la responsabilità, il
pentimento, la scelta, la giustizia sostanziale, il destino, cosa
significa essere un uomo. Ora novantaquattrenne, con
una
perfetta regia di
sobrietà classica riprende la sua
riflessione in questo film non solo profondamente ma anche
dolorosamente umano.
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