domenica 31 agosto 2014

L'innocenza e la catastrofe


Chiudono la porta del taxi a Jean Harlow che scende davanti all'albergo e non si accorgono di prenderle dentro la gonna, strappandogliela. Ignara, lei firma il registro esibendo una minigonna ante litteram e calze nere con la cucitura che danno il famoso tonfetto al cuore...
Salvano Mae Busch dal suicidio nel fiume e lei, tutt'altro che riconoscente, sbotta: “Adesso che mi avete salvato vi tocca avere cura di me!”. Per celarla alle mogli la nascondono nel bagno, Ma lei si consola delle delusioni della vita mettendoli sempre più nei guai...
Inseguiti dalla polizia si rifugiano nella casa vuota del ricco James Finlayson. Arrivano i nuovi affittuari e i due devono fingere di essere Hardy il padrone, in giacca da camera e papalina, Laurel la cameriera, con boccoli biondi e mossette assassine. Il guaio è che Finlayson torna indietro, perché ha dimenticato qualcosa...
Laurel & Hardy, miriade di specchi che si riflettono uno nell'altro. Laurel, marziano in visita sulla Terra, concentrato di alienità; Hardy il suo medium (Marco Giusti), l'essere volonteroso che cerca di porsi come tramite fra il mondo e l'antimondo, e non ci riesce, e brucia in disperati camera-look. Sono una coppia di giramondo per struttura molecolare: non hanno un appiglio, le cose sfuggono loro di mano; e che queste non siano metafore lo illustrano i loro film.
La loro logica seriale li fa porsi e ricomporsi in una serie infinita, non di sfaccettature, ma di ripetizioni di un movimento, continui esercizi nell'arte della distruzione. E forse qui – nella centralità della ripetizione nel loro cinema – troviamo il trait d'union fra le loro due poetiche, del disastro e della frustrazione.
Circa la prima, non occorre citare titoli. Come l'incredibile Hulk, Stanlio e Ollio partono sfasciando i loro abiti, e poi tutto quello che li circonda. Per la seconda, vedi A Perfect Day, partenza sempre interrotta sulla macchina completa di zio gambaingessato, scandita da risonanti “Arrivedoorci” lanciati ai vicini, verso un picnic che non si farà mai. Oppure il terribile Me and My Pal, tanto irritante da non far neanche ridere, col matrimonio di Ollio impedito da un puzzle che calamita, a uno a uno, tutti gli intervenuti.
La loro inconscia frenesia distruttiva parte dai loro corpi e dilaga a sconvolgere il quadro esterno. Sono infrangibili e indistruttibili portatori di caos (se si deformano in The Bohemian Girl o Ollio muore in The Flying Deuces si ride, perché è un paradosso). Keaton, Chaplin, Langdon, Fatty inscenano una lotta, Laurel & Hardy una sconfitta. Il vento maligno che esce dalle loro teste vuote non rimodella la scena nel senso dell'ingegneria chapliniana (la camera da letto di The Kid: il positivismo del tramp!) ma in quello dell'invivibilità. Che è come dire che manca loro ogni sprazzo di progettualità: se Keaton vince la guerra (The General), loro la rendono impossibile minandone il contesto, il mondo reale.
Quindi le loro guerre saranno meri rituali di autodistruzione. Sono dei kamikaze; il loro solo trionfo è di avere l'ultima parola su un mare di rovine (il “sigaro della pace” di Big Business che scoppia in faccia al piangente James Finlayson). Nelle contese con Finn o con Charlie Hall, ambo le parti buttano tutti i loro averi sulla bilancia delle vendette e li bruciano reciprocamente in uno scambio totale. Spero che Reagan e Cernienko non prendano esempio da loro (fisicamente ce l'avrebbero una vaga somiglianza, senile e involgarita) perché l'illogica logica di Stan e Ollio è esattamente quella della guerra atomica, del no-win game.
Pertanto, sono totalmente amorali. Troppo stupidi. Le loro trovate e sotterfugi (“è un'ottíma idea!”) si rovesciano in sconfitta, e non è il Fato a perseguitarli, ma loro stessi che, essendo incarnazioni roteanti di distruzione, sono fabbri della propria (cattiva) fortuna. Nel fatto che contribuiscano a salvare orfanelle e fidanzati vedremo non un loro merito reale, quanto il provvidenzialismo di Hollywood, o forse l'eterogenesi dei fini.
Vivono in una costante duplicazione senza cambiamento. In Twice Two compaiono perfino in veste femminile, la grassa sposata al magro e viceversa. In Brats si sdoppiano in genitori e bambini, loro mini-sosia incredibilmente piccoli e più pestiferi di Qui Quo e Qua.
Del resto, bambini Stanlio e Ollio lo sono sempre, e questo spiega perché non li troviamo mai chaplinianamente inquietanti (pensate per converso al terribile Charlot, che sa baciare Edna Purviance e intanto sferrare un calcio all'indietro verso il rivale sconfitto). Laurel & Hardy non fanno paura perché, realizzando la figura dell'uomo-bambino, rimangono al di sotto di chi li guarda. Ollio materializza nel suo faccione lo schema infantile di cui ci parlano gli etologi (testa grossa, guance tonde, che ci dispongono favorevolmente perché fanno scattare meccanismi innati). Quanto a Stanlio... avete mai visto uno scimmiottino, un cucciolo di scimpanzé? Eccolo, con quella fronte aggrottata, quegli occhietti neri e lucidi.
Anche le loro marachelle sono infantili. Di fronte ai guai, la loro risposta è la regressione: il piantino di Stan, l'ipocrita aria mesta (da primo della classe colto in fallo) di Ollio. E anche è del bambino il loro eterno presente in cui tutto viene rotto e nascosto sotto il tappeto: perché il bambino è anche lui un Dio distruttore (lo aveva già capito Sant'Agostino, che a Cartagine andava a vedere ogni film dei nostri due).
È buona usanza delle cose umane essere tanto più complesse quanto più sono semplici. La comicità di Laurel & Hardy è cristallina, mozartiana, ma cerchi di definirla e t'accorgi di aver appena graffiato la superficie di una lastra di ghiaccio. È la loro enorme stupidità a batterti: ossia l'enorme potere del Nulla che sta dietro a tutte le cose.
Così, dopo aver visto uno dei loro “2 rulli”, arrivi finalmente a intuire perché i sublimi maestri Zen si appellavano l'un l'altro “vecchio sacco di riso”.

(Nickelodeon, 1985)

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