Chiudono
la porta del taxi a Jean Harlow che scende davanti all'albergo e
non si accorgono di prenderle dentro la gonna, strappandogliela.
Ignara, lei firma il registro esibendo una minigonna ante
litteram
e calze nere con la cucitura che danno il famoso tonfetto al cuore...
Salvano
Mae Busch dal suicidio nel fiume e lei, tutt'altro che riconoscente,
sbotta: “Adesso che mi avete salvato vi tocca avere cura di me!”.
Per celarla alle mogli la nascondono nel bagno, Ma lei si consola
delle delusioni della vita mettendoli sempre più nei guai...
Inseguiti
dalla polizia si rifugiano nella casa vuota del ricco James
Finlayson. Arrivano i nuovi affittuari e i due devono fingere di
essere Hardy il padrone, in giacca da camera e papalina, Laurel la
cameriera, con boccoli biondi e mossette assassine. Il guaio è che
Finlayson torna indietro, perché ha dimenticato qualcosa...
Laurel
& Hardy, miriade di specchi che si riflettono uno nell'altro.
Laurel, marziano in visita sulla Terra, concentrato di alienità;
Hardy il suo medium
(Marco Giusti), l'essere volonteroso che cerca di porsi come tramite
fra il mondo e l'antimondo, e non ci riesce, e brucia in disperati
camera-look.
Sono una coppia di giramondo per struttura molecolare: non hanno un
appiglio, le cose sfuggono loro di mano; e che queste non siano
metafore lo illustrano i loro film.
La
loro logica seriale li fa porsi e ricomporsi in una serie infinita,
non di sfaccettature, ma di ripetizioni di un movimento, continui
esercizi nell'arte della distruzione. E forse qui – nella
centralità della ripetizione
nel loro cinema – troviamo il trait
d'union fra
le loro due poetiche, del disastro e della frustrazione.
Circa
la prima, non occorre citare titoli. Come l'incredibile Hulk, Stanlio
e Ollio partono sfasciando i loro abiti, e poi tutto quello che li
circonda. Per la seconda, vedi A
Perfect Day,
partenza sempre interrotta sulla macchina completa di zio
gambaingessato, scandita da risonanti “Arrivedoorci” lanciati ai
vicini, verso un picnic che non si farà mai. Oppure il terribile Me
and My Pal,
tanto irritante da non far neanche ridere, col matrimonio di Ollio
impedito da un puzzle che calamita, a uno a uno, tutti gli
intervenuti.
La
loro inconscia frenesia distruttiva parte dai loro corpi e dilaga a
sconvolgere il quadro esterno. Sono infrangibili e indistruttibili
portatori di caos (se si deformano
in The
Bohemian Girl o
Ollio muore
in The
Flying Deuces
si ride, perché è un paradosso). Keaton, Chaplin, Langdon, Fatty
inscenano una lotta, Laurel & Hardy una sconfitta. Il vento
maligno che esce dalle loro teste vuote non rimodella la scena nel
senso dell'ingegneria chapliniana (la camera da letto di The
Kid:
il positivismo del tramp!)
ma in quello dell'invivibilità.
Che
è
come dire che manca loro ogni sprazzo di
progettualità:
se Keaton vince la guerra (The
General),
loro la rendono impossibile minandone il contesto, il mondo reale.
Quindi
le loro
guerre saranno meri rituali di autodistruzione. Sono dei kamikaze; il
loro solo trionfo è di avere l'ultima parola su un mare di rovine
(il “sigaro della pace” di Big
Business
che scoppia in faccia al piangente James Finlayson). Nelle contese
con Finn o con Charlie Hall, ambo le parti buttano tutti i loro averi
sulla bilancia delle vendette e li bruciano reciprocamente in uno
scambio
totale.
Spero che Reagan e Cernienko non prendano esempio da loro
(fisicamente ce l'avrebbero una vaga somiglianza, senile e
involgarita) perché l'illogica logica di Stan e Ollio è esattamente
quella della guerra atomica, del
no-win game.
Pertanto,
sono totalmente amorali. Troppo stupidi. Le loro trovate e sotterfugi
(“è un'ottíma
idea!”) si rovesciano in sconfitta, e non è il Fato a
perseguitarli, ma loro stessi che, essendo incarnazioni roteanti di
distruzione, sono fabbri della propria (cattiva) fortuna. Nel fatto
che contribuiscano a salvare orfanelle e fidanzati vedremo non un
loro merito reale, quanto il provvidenzialismo di Hollywood, o forse
l'eterogenesi dei fini.
Vivono
in una costante duplicazione senza cambiamento. In Twice
Two
compaiono perfino in veste femminile, la grassa sposata al magro e
viceversa. In Brats
si sdoppiano in genitori e bambini, loro mini-sosia incredibilmente
piccoli e più pestiferi di Qui Quo e Qua.
Del
resto, bambini Stanlio e Ollio lo sono sempre, e questo spiega perché
non li troviamo mai chaplinianamente inquietanti (pensate per
converso al terribile Charlot, che sa baciare Edna Purviance e
intanto sferrare un calcio all'indietro verso il rivale sconfitto).
Laurel & Hardy non fanno paura perché, realizzando la figura
dell'uomo-bambino,
rimangono al
di sotto di
chi li guarda. Ollio materializza nel suo faccione lo schema
infantile
di cui ci parlano gli etologi (testa grossa, guance tonde, che ci
dispongono favorevolmente perché fanno scattare meccanismi innati).
Quanto a Stanlio... avete mai visto uno scimmiottino, un cucciolo di
scimpanzé? Eccolo, con quella fronte aggrottata, quegli occhietti
neri e lucidi.
Anche le loro
marachelle sono infantili. Di fronte ai guai, la loro risposta è la
regressione: il piantino di Stan, l'ipocrita aria mesta (da primo
della classe colto in fallo) di Ollio. E anche è del bambino il loro
eterno presente in cui tutto viene rotto e nascosto sotto il tappeto:
perché il bambino è anche lui un Dio distruttore (lo aveva già
capito Sant'Agostino, che a Cartagine andava a vedere ogni film dei
nostri due).
È
buona usanza delle cose umane essere tanto più complesse quanto più
sono semplici. La comicità di Laurel & Hardy è cristallina,
mozartiana,
ma cerchi di definirla e t'accorgi di aver appena graffiato la
superficie di una lastra di ghiaccio. È la loro enorme stupidità a
batterti: ossia l'enorme potere del Nulla che sta dietro a tutte le
cose.
Così,
dopo aver visto uno dei loro “2 rulli”, arrivi finalmente a
intuire perché
i sublimi maestri Zen si appellavano l'un l'altro “vecchio sacco di
riso”.
(Nickelodeon,
1985)
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