“Ecce
homo”, canta il coro nella sigla dei filmati di Mr. Bean, di cui
Canale 5 ogni giorno alle 13.45 ripropone opportunamente i primi
classici. Ecco l’uomo, nella sua carne e nella sua miseria. Bean è
tutti noi. Lo stesso orrore comico che ci coglie di fronte a certe
sue nefandezze fisiche ci viene dal senso di questa parentela sotto
la lente dell’esagerazione. Se si sviluppa l’atto diffuso di chi
furtivamente si toglie con l’unghia dai denti un frammento di cibo,
si ottiene Bean che rassettandosi prima di una cerimonia ruba un
capello a una donna e lo usa di nascosto come filo interdentale.
Sorretta dal
meraviglioso lavoro mimico di Rowan Atkinson, la comicità di Mr.
Bean si basa sulla coerenza: sviluppo geometrico, violenta
radicalità; che sul piano fisico tocca vertici oltraggiosi (si
toglie un calzino e lo usa da cestello asciuga-insalata; durante un
film che gli fa paura trasforma i popcorn in tappi per le orecchie, e
alla fine se li mangia). C’è l’eco, in Mr. Bean, dei comici
dell’epoca d’oro del muto, i quali lo riconoscerebbero a prima
vista come uno dei loro. In particolare il grande e dimenticato
Fatty.
Tutto ciò che è
gli negato, questo personaggio infinitamente solitario se lo ricrea
da zero con una folle genialità nella fabbricazione di surrogati,
esilaranti e quasi tragici. La sua concezione del mondo è
ingegneristica. Così, rispetto alla prima delle due classi di
questioni che lo affliggono - come risolvere un problema meccanico e
come evitare un’umiliazione - Bean riesce a ottenere un sudato
pareggio; dove perde regolarmente è con i suoi simili.
Il rapporto
Bean/umanità è un match impietoso, perché Bean non accetta le
regole dello scambio sociale, né d’altro canto le rifiuta (non è
né un criminale né un rivoluzionario): piuttosto, le aggira. E’
un anarchico ma non lo sa. La sua aria santimoniosa attesta quanto si
consideri un membro regolare del mondo che sconvolge: la
contrapposizione fra lui e la società è oggettiva, non soggettiva.
Di qui il suo imperativo di non perdere mai la faccia. Pur di
nascondere che teneva un costume da bagno in tasca, finge che sia un
fazzoletto e ci si soffia il naso. Se qualcuno osserva i suoi
maneggi, si ricompone freneticamente e controbatte con un finto
sguardo incuriosito pieno di educata superiorità.
E’ capace di
crudeltà e di vigliaccherie inenarrabili, ma non c’è cattiveria
in lui. Non è più imputabile di un bambino di quattro anni, per lo
stesso motivo. Mr.Bean è un bambino nel corpo di un uomo, come
testimonia la sua cameretta con l’orsacchiotto. L’egoismo estremo
che lo muove è puro solipsismo infantile.
Per
questo il tentativo di trasformarlo in una figura morale - come nel
recente, modesto film che lo ha trasferito sul grande schermo - è
destinato a fallire. Lasciamo che l’umanità di Mr. Bean emerga in
modi più semplici e naturali. In certi sguardi feriti, con cui passa
all’istante da incosciente persecutore a vittima. Nel suo amore per
l’orsacchiotto Teddy, che ha qualcosa di straziante perché è
l’unico amore che Bean proietta fuori di sé, quello che non
riserva a nessun altro e che nessun altro riserva a lui. Nella sua
indefettibile sfortuna. Perché con tutta la sua ingegneria e la sua
ridicolaggine, l’epopea di Mr. Bean è una descrizione eroica della
sventura.
(Il Piccolo,
agosto 1998)
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