domenica 31 agosto 2014

Robert Bresson: La sventura e la grazia


Nel cinema centripeto di Robert Bresson tutto precipita verso un elemento centrale. Intorno all’occhio mite dell’asino Balthazar ruota Au hasard Balthazar; se il suo raglio è un elemento di sviluppo del racconto, cioè parla (indica metonimicamente i colpi alle bestie, dichiara la paura alla vista del padrone), il suo occhio - la sinestesia si impone - è muto. E’ un elemento giudicante (non nel senso attivo umano) al quale l’intero racconto viene riportato. Del pari in Une femme douce bruschi stacchi riportano ossessivamente i flashback alla testa fracassata (brutale evidenza fisica inconsueta in Bresson) di Dominique Sanda suicida stesa sul letto. La vana liturgia delle parole di rimpianto/comprensione/autogiustificazione del marito viene contraddetta dal precipitare dei flashback contro questo testimonio muto che è il cadavere.
L’elemento del testimonio muto è centrale in Bresson (il silenzio scontroso di Mouchette...). Possiamo legare questo concetto all’importanza del silenzio, e al correlato svilimento della parola, nel suo cinema. I santi tacciono (come Balthazar, dichiarato esplicitamente santo nel film). Giovanna d’Arco contrappone alla propria dialettica nel processo il silenzio nella sua cella. Bresson crede ai suoni, non alle parole; crede alla risonanza del silenzio (le sue celebri lacrime). Insiste sulla fallacia della parola: ama mostrare la falsità di vanaglorie, proponimenti e auguri. Voce narrante del protagonista in Pickpocket: “Ero pieno di me stesso, mi sentivo il padrone del mondo” - stacco su lui che sallontana e due che lo seguono - “Un minuto dopo venivo prelevato dalla polizia”. Stesso film: il borseggiatore dice alla madre che guarirà, “Io ne sono sicuro” - stacco sul funerale della donna. In Au hasard Balthazar la moglie prega Dio di non portarle via il marito malato - l’inquadratura seguente le reca la notizia della sua morte. E si potrebbe continuare (in Une femme douce è un’autentica gag l’episodio della frenata).
Questa risposta negativa ritornante nel cinema di Bresson ricorda per ironica immediatezza (non sembri irriverente l’accostamento) le famose correzioni di Lubitsch. Ecco lironia di cui Jean Sémolué - in una delle relazioni più stimolanti del convegno udinese su Robert Bresson di dicembre - ha segnalato la presenza nella cinematografia di quest’autore severo: negli scherzi del destino, nei rovesciamenti, nella “demolizione di qualsiasi sicurezza e volontà” (e qui va menzionata la carica di antipatia che nei film di Bresson spetta ai vari consiglieri), in questo immediato rispondere del racconto ai personaggi.
Ma la risposta delle cose è la risposta di Dio; ciò che in Au hasard Balthazar è ancor più evidente perché risponde a una preghiera. Potremmo parafrasare così: “Chiedete e non vi sarà dato”. Dunque questautomatica, costante assicurazione della sventura si lega alla questione del male nell’opera di Bresson, dove diviene sempre più forte e pervasivo, fino a incarnarsi nell’agente per eccellenza dello scambio nella società umana, il denaro, ne L’argent.
Non è questione del silenzio di Dio - che nei film di Bresson non ha parlato mai, lascia anche santa Giovanna nel dubbio, e affidata all’alea dei consigli umani (se pure le ha parlato in precedenza, è fuori del film). Non è una sopravvenuta assenza del polo positivo, è l’affermarsi del polo negativo, la presenza trionfante del male. Parlando di Bresson, bisogna sempre richiamare il Libro di Giobbe: “La terra è data in mano a chi fa il male / La faccia dei suoi giudici è coperta”; “Le tende dei distruttori sono in pace”; “[Dio] tiene gli occhi su di loro [i malvagi] / Fa che si appoggino in lui sicuri” (trad. Guido Ceronetti, che chiosa: “Non si tratta di equidistanza. E’ vero amore per il male”).
Forse l’eroe di Dio in Au hasard Balthazar non è la vittima Balthazar ma il carnefice Gérard, imperscrutabile incarnazione del male (il cui volto impassibile ritorna in quello tranquillo dei due liceali de L’argent). Questa variante demoniaca della scommessa pascaliana è la forma più radicale dell’ironia nel cinema di Bresson. Supponiamo che Dio non esista affatto o (per noi è lo stesso) che ami il male. Il destino più profondamente ironico non sarebbe quello dei santi, che hanno fatto tutto per niente?
I personaggi di Bresson, creature imprigionate, cercano la liberazione, la fuga fisica e metafisica (Un condamné à mort s’est échappé); dalla prigione della vita la liberazione è nella morte (i “suicidi dolci” di Une femme douce e Mouchette). Ma non dimentichiamo che sinonimo di liberazione è salvezza: la grazia. Certo, sotto l’ironia tragica dell’ipotesi negativa la liberazione offusca la salvezza. Ma dovremmo negare la salvezza solo perché è ambigua e nascosta?
Al centro del cinema di Bresson sta la sventura: non descrizione naturalistica di uno stato esistenziale - neppure nell’inferno zoliano di Mouchette - ma processo per stazioni, Via Crucis. Ebbene, la grazia non è nei cieli, che non rispondono a nessuno. Come sa il curato del Journal d’un curé de campagne, la grazia è nella Via Crucis stessa.
Bresson si rispecchia in Dostoevskij. Non lo testimoniano solo i due adattamenti ufficiali (Une femme douce e Quatre nuits d’un rêveur). Anche Pickpocket è una specie di parafrasi di Delitto e castigo; ne fanno fede non solo il fatto ovvio che la morale superomistica di Raskol’nikov modella i discorsi del pickpocket ma la stessa conclusione, nonché il fatto che nel commissario del film ritroviamo il poliziotto Porfirij Petrovic del romanzo (fino alla citazione: “Ma voi...”). Riandiamo ora al grande discorso di Marmeladov nello stesso romanzo sulla salvezza degli abietti. E a Yvon, vittima e assassino de L’argent. Se è difficile parlare di martirio e di Via Crucis per gli umbratili protagonisti de Le diable probablement (il più negativo, ma anche il meno riuscito dei film bressoniani), possiamo ritrovare nel film che cronologicamente lo segue la figura dostoevskiana del colpevole/innocente. Incosciente come l’asino Balthazar, il sonnambulistico Yvon ha una sorta di innocenza nel male.
Se questo è vero, e dunque il suo quieto consegnarsi alla polizia dopo l’ultimo delitto contiene la salvezza, allora L’argent, che rappresenta il massimo di pervasività del male, è tuttavia anche il film di una risalita. Teste di curiosi guardano la vuota porta illuminata nell’ultima inquadratura: per quella porta stretta è passata la grazia. Come ha messo Bresson per sottotitolo al paradigmatico Un condamné à mort s’est échappé, “il vento soffia dove vuole”.

(Nickelodeon, febbraio 1999)

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