Il
quattrocentesimo anniversario, nel 2005, della pubblicazione
dell’immortale capolavoro di Cervantes, El ingenioso
hidalgo don Quijote de la Mancha (1) ha fornito l’occasione di
vedere o rivedere alcuni esempi della vastissima produzione
cinematografica su don Chisciotte (2). Solo alcuni, inevitabilmente,
giacché l’hidalgo mancego è stato protagonista di film
innumerevoli. Come non ricordare, in epoca muta, un Don Quixote
(USA 1915) di Edward Dillon dove a don Chisciotte (DeWolf Hopper) si
affiancava come Sancho il sommo comico ebreo Max Davidson! Sempre nel
muto, troviamo un Don Quixote britannico del 1923 diretto
dall’oggi riscoperto Maurice Elvey. Nel 1947 in Spagna Fernando Gil
gira un Don Quijote de la Mancha con Rafael Rivelles e Juan
Calvo; messicano-spagnolo è Don Quijote cabalga de nuevo del
1973, di Roberto Gavaldon - e infatti il grande attore spagnolo
Fernando Fernán-Gomez interpreta don Chisciotte mentre nei panni di
Sancho troviamo il popolare comico messicano Cantinflas. Lo stesso
anno, per la tv americana Alvin Rakoff accoppia nei due ruoli Rex
Harrison e Frank Finlay in The Adventures of Don Quixote.
Recente è, sempre per la tv Usa, un Don Quixote di Peter
Yates (2000), interpretato da John Lightgow e Bob Hoskins.
Essendo
diventato un archetipo, e in quanto tale quasi svincolato dal
romanzo, don Chisciotte non soltanto fa capolino come citazione in
mille testi e film (ad esempio, interpretato da Arnoldo Foà, ne I
cento cavalieri di Cottafavi), ma si lascia proiettare facilmente
sull’autore di un film, tanto più se è dedicato allo stesso
hidalgo - esempio, Orson Welles - o addirittura sull’attore:
come il Jean Rochefort malato e caparbio di uno straziante passaggio
di Lost in La Mancha di Keith Fulton e Louis Pepe, recente
documentario sul Quixote mancato di Terry Gilliam.
Questo
perché è centrale in tutte le versioni e riscritture contemporanee
del don Chisciotte il concetto del “nobile fallimento”. Il
quale è legato, più ancora che al testo cervantino,
all’interpretazione romantica di don Chisciotte ch’è propria
dell’epoca moderna - un’interpretazione che, nella pazzia
dell’ingenioso hidalgo, mette in primo piano l’aspetto
ribelle e quasi prometeico: la nobiltà del sogno rispetto alla
realtà mediocre: ciò che è pienamente legittimo, ma che, merita
ricordare, non appartiene (se non come suggestione, implicita
possibilità di lettura) al romanzo di Cervantes. Nel quale si
enuncia semmai la percezione pre-barocca della mutevolezza e
inafferrabilità delle cose nel gran teatro del mondo.
Si
potrebbe anche ipotizzare con piena legittimità di ampliamento
testuale la versione “nera” di un don Chisciotte integralmente
demente, chiuso e degradato nella sua allucinazione e follia. Ma ciò
non accade mai: perché la verità è che lo amiamo. Già in
Cervantes la nobiltà del personaggio fa premio sul ridicolo: ironia
tragicomica che si esprime al massimo nella seconda parte, quando sia
don Chisciotte sia Sancho si mettono a inventare: da cui la sublime
chiusa del capitolo XLI con la sua proposta di alleanza: “E don
Chisciotte avvicinatosi a Sancio gli disse nell’orecchio: - Sancio,
se volete che vi si creda per ciò che avete visto in cielo, io
voglio che voi crediate me per ciò che vidi nella grotta di
Montesinos. E non dico altro” (3).
Se
dunque ciò che soprattutto la nostra cultura valorizza del Don
Chisciotte è la nobile tensione che emerge nello scarto tra
fantasia e realtà, allora il primo aspetto da prendere in esame
quando pensiamo ai film di don Chisciotte sarà appunto il rapporto
tra la follia del cavaliere e il reale, che questa follia ridipinge
coi propri colori fantastici.
Una
versione che mira in particolare al realismo satirico è quella di
G.W. Pabst (Don Quichotte, Francia 1933). Autore acido e senza
compromessi, Pabst mette in scena nel film tutto il suo cinismo
anarchico e distruttivo (basti pensare al suo capolavoro Das
Tagebuch einer Verlorenen), spietato nel sottolineare la distanza
fra il sogno di don Chisciotte (Fëdor Šaljapin) e la materialità
del reale. In nessun luogo ciò si vede tanto bene quanto nella
definizione del personaggio di Aldonza/Dulcinea, che è una contadina
volgare, sessualmente spregiudicata, sprezzantemente estranea al
mondo di don Chisciotte e pronta a ridere di lui. Quando il cavaliere
e lo scudiero escono dal paese, e don Chisciotte vede una stalla come
un nobile palazzo, un superbo tocco di materialismo pabstiano ci
mostra all’interno Aldonza addormentata nel fieno assieme al suo
amante. Quando più tardi Sancho (Dorville) consegna il messaggio di
don Chisciotte per Dulcinea, trova Aldonza che munge (gran risata di
Sancho, che nel film rappresenta l’innocente punto di vista
materiale, nel comprendere chi è Dulcinea) e lei sghignazzando mette
il vecchio elmetto di don Chisciotte in testa alla mucca. In questo
cinismo oggettivo il punto di vista di Pabst è simile a quello di
Cervantes (vedi nel romanzo il capitolo di Sancho, don Chisciotte e
le tre contadine).
Don
Chisciotte è naturalmente una figura della libertà (“Per
l’umanità!”, grida attaccando il capitano per liberare i
forzati) in un mondo di oppressione; Pabst ne dà un’ottima
illustrazione sviluppando intelligentemente l’episodio dei mulini a
vento. Sancho incontra file di contadini che parlano della guerra e
delle tasse che li rovinano; questo è importante perché si lega
direttamente ai mulini - che infatti appaiono ora - dando una sorta
di significazione realistica all’episodio di
Cervantes. Siccome un contadino ha appena detto a Sancho che, una
volta macinato il grano che sta portando, della farina a lui non
resterà niente, i mulini che don Chisciotte attacca sono
effettivamente dei giganti divoratori. Non a caso la scena
dell’attacco ai mulini, e della difficoltà di liberare il
cavaliere rimasto imprigionato nella pala, è fortemente protratta
rispetto alle altre del film.
Il
Don Quichotte pabstiano è quasi un film musicale, dove don
Chisciotte - Šaljapin era un tenore russo - canta una serie di
romanze (ce n’è anche una di Sancho all’osteria, godereccia e
picaresca). Il luogo d’elezione massimo della nobiltà di don
Chisciotte giace appunto nel canto: l’elemento di speranza non si
trova nel reale ma nell’attività intellettuale - vedi la romanza
finale, che echeggia dopo la morte dell’hidalgo, e canta
dell’isola felice dove tutto è puro e senza menzogna, scorrendo
sulle immagini dei suoi libri che bruciano. Del rogo dei libri di don
Chisciotte, che conclude il film, si incaricano qui i frati
dell’Inquisizione (Pabst introduce anche il personaggio di un
vescovo, fisicamente preso da un ritratto di Velazquez, che
preferirebbe bruciare il cavaliere anziché i suoi libri). Ma con un
trucco ottico - una proiezione a rovescio - dalla cenere dei libri
che bruciano vediamo formarsi, come la fenice, proprio il Don
Chisciotte di Cervantes: una dichiarazione di speranza
(ricordiamo che Pabst nel 1933 è profugo da un paese in cui i roghi
di libri sono una realtà attuale) nella sopravvivenza della cultura
dalle proprie ceneri.
Ancora
l’opposizione tra una nobile fantasia e una realtà ingrata, ma
inserita nel quadro dei rapoorti sociali, informa il meraviglioso Don
Kichot russo (1957) di Grigorij Kozincev. L’interprete -
l’ejzenštejniano Nikolaj Cerkasov - dipinge don Chisciotte secondo
una concezione dignificata che lo allontana più che mai dal
ridicolo; e Sancho qui è un popolano intelligente, non illuso da don
Chisciotte ma suo sodale perché affascinato dal suo linguaggio
poetico e dalle sue prospettive avventurose. Se Pabst aveva declinato
il rapporto Aldonza/Dulcinea in termini sarcastici, Kozincev inventa
un delizioso equivoco romantico: per tutto il film la gentile
contadina Aldonza ignora di essere quella Dulcinea che don Chisciotte
adora, e anzi invidia questa donna perché è tanto amata.
Don
Kichot è costellato di dettagli freschi (come il bambino nudo
dall’enorme cappello che attraversa di corsa la strada del
villaggio con un cagnolino al guinzaglio) e la bellezza della messa
in scena procede da un gusto pittorico, non estrinseco ma
costitutivo, tipicamente russo. Vedi le scene visualmente ricchissime
della locanda (dove chiaramente il regista tiene presente anche
Goya). Al pari delle opere shakespeariane di Kozincev, il film
traduce il testo cervantino secondo una lettura marxista. Come già
accennato, la vicenda è riletta alla luce dei rapporti di classe e
il dialogo è calibrato sul concetto marxiano di ideologia
(all’aria dubbiosa di Sancho circa il giuramento del cattivo
padrone di pagare il suo apprendista imbrogliato e frustato, don
Chisciotte replica che l’uomo non oserà mettere a repentaglio la
sua anima immortale / stacco a un primo piano del padrone che agita
la frusta). Alla base del film, evidenziato anche in allucinazioni
visive o auditive, sta il discorso sull’ingiustizia: la missione di
don Chisciotte è di difendere gli afflitti; quando Dulcinea/Aldonza
gli appare in punto di morte, lo implora “Non abbandonateci”. Un
aspetto vivace di questo approccio è la descrizione distesa e
umorosa del governatorato di Sancho, allegro manifesto populista del
buon senso contadino, con Sancho che dopo i suoi giudizi viene
portato in trionfo dai popolani (del resto, già Cervantes ci dice
che anche dopo la fine della beffa del governatorato gli abitanti
dell’“isola” mantennero in vigore i saggi “statuti del gran
governatore Sancho Panza”).
In
un film impostato sui rapporti di classe, è particolarmente attenta
la rappresentazione del Duca (il grande beffatore dell’hidalgo
nel romanzo) e della sua corte. La tavolozza ricca di ocra e di
marroni dello svolgimento precedente qui si impoverisce: colori neri,
bianchi e cinerini, abiti neri, scenografia nuda del palazzo, cupi
dipinti monocromatici alle pareti. Circa l’allucinante scena
dell’uscita dei cortigiani in corteo con gelida solennità da morti
viventi, vien da pensare che è impossibile che il polacco Roman
Polanski non abbia visto questo film e non ne avverta una
reminiscenza in Per favore non mordermi sul collo. E in tutta
questa sezione v’è, interna alla messa in scena corposa del
realismo russo, una sorta di recupero del fantastico, sia a livello
scenografico sia nell’inquietante beffa, fatta a don Chisciotte,
della morta che si muove.
E
in un mondo determinato dai rapporti di classe si rivela inefficace
il volontarismo eroico di don Chisciotte sotto la forma della
cavalleria errante. Don Chisciotte muore, pentito e rinsavito, cioè
sconfitto, dopo la risoluzione dell’episodio del garzone sfruttato
(che credeva di difendere, laddove invece ha solo peggiorato la sua
condizione). Ma la dialettica fra reale e fantastico si esalta
nell’inquadratura finale. Dopo che abbiamo assistito alla morte di
don Chisciotte, uno stacco ci porta a un solenne campo lungo della
pianura spagnola in un’inquadratura vuota - segue una panoramica a
scoprire a destra - ed ecco don Chisciotte con la sua lunga lancia e
Sancho sull’asino (il campo lungo serve non soltanto a riprodurre
l’elemento iconografico principe ma a evitare un contraccolpo
legato alla leggibilità del viso, che riporterebbe
contraddittoriamente l’immagine sul piano narrativo): don
Chisciotte e Sancho cavalcano ancora, trasformati in figure
immortali.
Ma
non lasceremo il film di Kozincev senza menzionare un dettaglio molto
interessante, e coraggioso, del suo discorso politico. Ci riferiamo
alla classica scena di don Chisciotte che libera i forzati, i quali
per tutto ringraziamento lo lapidano. In questa sequenza lo chiamano
spia, e Sancho protesta “Ma se vi ha liberati!”, e loro: “Questo
è successo prima - poi si è venduto”. Non è chi non veda che il
comico paradosso della battuta si riferisce satiricamente alle purghe
staliniane (quando gli artefici stessi della rivoluzione erano stati
costretti a confessare di essere traditori e spie). Così il film di
Kozincev (1957!) si inserisce nella battaglia politico-culturale
sovietica popolarizzando - “in linguaggio esopico”, come si
diceva in URSS - il discorso della destalinizzazione.
A
un livello di realizzazione artistica assai minore, ma non indegno,
merita citare qui il Don Chisciotte e Sancio Panza di Gianni
Grimaldi (1968) con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Il gustoso
gioco comico fra i due (Franco ammiccante, Ciccio allucinato) si
svolge tutto all’interno della logica plebea della loro personale
commedia dell’arte, “alte pratiche basse” della comicità. E’
purissimo Franco e Ciccio il gioco sulle allucinazioni (che, con
materialismo rigoroso, non sono mai visualizzate in senso fantastico
- anche evidentemente per ragioni di budget), dove Franco/Sancho,
cosciente fin dall’inizio che il suo padrone è pazzo, usa tutta la
sua mimica per venire incontro alle stravaganze dell’altro: vedi la
scena nel “castello” abbandonato che don Chisciotte vede pieno di
gente.
Il
Duca e la Duchessa qui sono dei corrotti che vogliono un
governatore-fantoccio per aumentare le tasse; Sancho, contadino dal
cervello fino, come governatore prima mostra il suo buon senso (il
film recupera l’episodio cervantino del bastone cavo coi soldi
dentro) e poi fa arrestare tutta la combriccola. Infine in una
conclusione aperta raggiunge don Chisciotte che si batte contro il
vento; il film si chiude sulla loro carica.
Menzioniamo
en passant un’altra esaltazione romantica di don Chisciotte
in Man of La Mancha di Arthur Hiller (1968), versione filmica
(forse eccessivamente maltrattata dai critici) del musical di
Broadway, che incrocia il personaggio Chisciotte con l’autore
Cervantes. Pensiamo all’esaltata canzone a tre, lode del sogno
contro tutti e tutto, di don Chisciotte, Sancho e Aldonza/Dulcinea
(Peter O’Toole, James Coco e Sofia Loren).
Esiste
però un altro aspetto fondamentale del testo di Cervantes, che di
solito le versioni cinematografiche omettono di restituire. Si tratta
dell’aspetto metanarrativo, che è già presente nella prima parte
del romanzo, ma fondamentale nella seconda: quando don Chisciotte
gira per una Spagna dove molti hanno letto le sue avventure (nella
prima parte di Cervantes e nella continuazione apocrifa di
Avellaneda), per cui lui e Sancho sono già conosciuti, ed entrano in
un vertiginoso corto circuito con la propria stessa leggenda.
O,
per essere più precisi: dell’aspetto metanarrativo le versioni
cinematografiche mantengono volentieri solo l’aspetto più
estrinseco, i riferimenti al teatro. Che Pabst per esempio usa per
mettere in scena l’opposizione fra l’illusione di don Chisciotte
e il grassoccio, robusto, volgare vitalismo “bruegeliano” del
pubblico, dei comici e di Aldonza. Annotiamo di passaggio che
l’elemento teatrale cervantino è centrale nel Don Chisciotte
di Maurizio Scaparro (Italia 1984), ipotesi di trasposizione di uno
spettacolo teatrale sul piano cinematografico, in un progetto di
fusione tra teatro e film. Don Chisciotte ha gli occhi febbrili di
pino Micol; Sancho è un Peppe Barra che controlla troppo anziché
liberare la sua napoletanità. Il problema del rapporto fra cinema e
teatro è però posto male: ambiguo e irrisolto, appare nel film
un’incerta giustapposizione più che una sintesi; si ricade
nell’equivoco del teatro filmato, che la mobilità della mdp in
montaggio amplifica anziché escludere.
Orson
Welles fa dell’elemento metanarrativo il cuore del suo,
incompiuto don Quixote. Com’è noto, Welles cercò di girare
il film (con Francisco Reiguera e Akim Tamiroff) dal 1955 al 1973,
senza riuscire a completarlo. In seguito (1992) il regista spagnolo
Jesus Franco, già collaboratore di Welles, ha proposto un proprio
restauro, o meglio una versione ipotetica, del film wellesiano, col
titolo Don Quijote de Orson Welles.
Questa
versione è uno dei possibili percorsi nel Don Quixote di
Welles, che forse non vedremo mai. Il film non è però accettato
dalla critica wellesiana come appartenente al corpus del
maestro. E’ chiaro che - stante che per Welles il vero luogo di
realizzazione di un film è la sala di montaggio - un montaggio
interamente arbitrario come risulta essere quello di Jesus Franco è
la negazione stessa dello spirito filologico. Così il presente film
appare più che altro un’antologia di riprese; per inciso, vi manca
la più famosa delle sequenze girate, quella di don Chisciotte al
cinema, custodita in Italia dal montatore Mauro Bonanni. In alcuni
luoghi l’intento narrativo si attenua fino a scomparire (le lunghe
immagini pittoriche di don Chisciotte e Sancho a cavallo: quasi alla
Daumier, schizzi in un paesaggio). Altre sequenze, come quelle della
parte finale in città, sembrano possedere se non altro una logica
narrativa dove si può intravedere in filigrana qualcosa
dell’intenzione wellesiana. La seconda parte è più strutturata
della prima e certamente ci dà un’idea di quello che Welles voleva
fare. Altrimenti il montaggio, sia quello interno alle sequenze sia
il macromontaggio fra le stesse, sembra totalmente guesswork.
Fra l’altro, considerando il grande lavoro di doppiaggio progettato
e realizzato da Welles per i personaggi, è assurdo vederli con un
ri-doppiaggio spagnolo appositamente realizzato.
Dilatando
il corto circuito narrativo della seconda parte del romanzo, Welles
si getta audacemente nell’anacronismo di presentare don Chisciotte
e Sancho che girano per la Spagna contemporanea, dove si vede perfino
la pubblicità della Birra don Chisciotte. Caratteristicamente, il
Don Quixote wellesiano è anche un saggio sull’amatissima
Spagna. In questo senso (sempre fatte salve le riserve filologiche
sull’operazione di Franco, a cui appartiene) è indicativa la
sequenza dei mulini a vento. Dopo che sono stati resi “vivi” con
un semplice effetto di distorsione, vediamo dettagli delle pale e
sovrimpressioni, con visi mostruosi che appaiono a don Chisciotte e
gli si precipitano contro. Ma è Goya, e questo dà al segno una
doppia valenza: visualizza l’allucinazione di don Chisciotte ma
allo stesso tempo ci riconduce a un elemento culturale spagnolo: la
contestualizza indicandone l’appartenenza a una forma del carattere
nazionale spagnolo, un umore nero o fantastico. Non una messa in
scena mostruosa quanto un’osservazione sulla cultura da cui questi
mostri sorgono.
Osservazioni
simili si potrebbero fare per l’attacco di don Chisciotte alla
processione degli incappucciati, realizzata - come spesso in Welles
(cfr. Mr. Arkadin) - con riprese documentarie “rubate”
alternate a controcampi di don Chisciotte; nota che, coerentemente
con l’impostazione irrealistica dell’intero film, la luce non
corrisponde.
Don
Quixote è una lucida tappa dell’eterna riflessione di Welles
sulla riproduzione e l’illusione. Di qui la ricchezza di
significati della sequenza famosa di don Chisciotte che va al cinema,
vede una donna in pericolo nel film, sguaina la spada e si avventa
contro i nemici sullo schermo lacerandolo (tra lo sconcerto degli
spettatori adulti e la gioia divertita dei bambini). Ciò deriva
direttamente dal testo di Cervantes in cui don Chisciotte si scaglia
contro le marionette, ma Welles lo amplia a una riflessione critica
sul dispositivo cinematografico (riecheggiata nel dialogo in un altro
passaggio del film).
Welles
inserisce più volte riprese di se stesso che filma per le strade con
una piccola macchina a mano. Ma c’è di più. A un certo punto
Sancho si decide - e ne scrive alla moglie - a comparire in un film
che si sta girando, per raggranellare qualche soldo durante la
separazione da don Chisciotte. E che film è? Ma è quello di Welles!
“C’è un uomo che vuol fare un film sul mio padrone e su di me -
scvrive Sancho - [...] Come dire, diventeremo famosi”. Il Don
Quixote e il rodage del Don Quixote si confondono e
s’identificano: il film diventa la messa in scena della propria
realizzazione. Anche sotto questo aspetto Don Quixote anticipa
i grandi film-saggio dell’ultimo periodo di Welles, F for Fake
e Filming Othello.
Contestuale
a tutto ciò è l’identificazione tra don Chisciotte e Welles
stesso, implicita come suggestione ma anche vivacemente esplicitata
nel dialogo. Per esempio Sancho, mentre vaga alla ricerca del suo
padrone, orecchiando i discorsi della troupe del film sente
descrivere la personalità di Welles ed esclama: “Està hablando de
don Quijote!”.
L’aspetto
metaletterario è tenuto presente nei due Quijote spagnoli di
Manuel Gutiérrez Aragón: la miniserie televisiva El Quijote de
Miguel de Cervantes (1991), con Fernando Rey (4) e Alfredo Landa,
e il lungometraggio del 2002 El caballero Don Quijote - che mi
scuso di non conoscere. Tutto il cinema di Gutiérrez Aragón
(Demonios en el jardin, La mitad del cielo, Feroz)
si basa su un raffinato gioco fra realismo e riflessi fantastici, una
continua dialettica fra realtà e finzione. Nella miniserie tv -
scritta da Camilo José Cela - il regista, per esempio, interrompe la
visione di un duello per introdurre Cervantes stesso (José Luis
Pellicena) col manoscritto che descrive lo stesso duello: il cineasta
“si impegna a mettere in scena quei suggestivi andirivieni fra la
finzione e meta-finzione, tra la storia raccontata e l’autore del
romanzo, Cervantes, in maniera che tali giochi intertestuali passano
dalla letteratura al cinema - in questo caso - con puntuale e
squisita fedeltà alla narrazione originale del libro” (5). Il film
mette in scena la seconda parte del romanzo con un don Chisciotte
(Juan Luis Gallardo) differente dal solito, un “cavaliere
autunnale, stanco e scettico”, preceduto dalla propria fama, che
“insegue meravigliato la propria leggenda” (6).
Il
film di Gutiérrez Aragón è inedito in Italia. Dove ha avuto invece
un certo successo il già citato Lost in La Mancha, un
documentario dedicato nel 2002 da Keith Fulton e Louis Pepe alla
sfortunata lavorazione del costosissimo e mai terminato The Man
Who Killed Don Quixote di Terry Gilliam. Lost in La Mancha si
riferisce direttamente a Welles, nel tentativo di suggerire una sorta
d’identificazione Welles-Gilliam, (oltre che, naturalmente, don
Chisciotte-Gilliam) sotto il segno del sognatore geniale sconfitto
dalla forza della realtà. Il suo film è un tentativo di fare
“Hollywood without Hollywood”. Ma, ben distante da Welles,
Gilliam sembra cadere - quando le cose cominciano ad andare
disastrosamente male - in una sorta di languore organizzativo: sembra
che l’intera produzione si avvolga in un cupio dissolvi
fatto di incertezza e incapacità di riorganizzare la produzione.
Non
è facile evincere dal documentario quale fosse il “progetto
Chisciotte” di Terry Gilliam. Ma Gilliam è un regista
eminentemente visuale (che anzi dà il meglio quando la sua
immaginazione grafica e fantastica non è appesantita da
preoccupazioni ideologiche o filosofiche), e la scena che vediamo dei
tre giganti mostra una tendenza a spaziare sfrenatamente nella
dimensione fantastica e allucinatoria del Don Chisciotte. La
bellissima chiusa del documentario, dopo i titoli di coda, mostra i
tre giganti che avanzano verso la mdp terra, e quello centrale
allunga ferocemente le mani; sul che - doveva essere il trailer -
compare la scritta “Coming soon”. Ha un doppio valore questa
immagine: in primo luogo l’autoironia rispetto a questo
“prossimamente sui vostri schermi”, promessa non realizzato; ma
c’è anche l’orgogliosa rivendicazione dell’immagine filmato,
del potere della fantasia, di ciò che il film avrebbe potuto essere.
Di sfida al destino avverso. In questo secondo senso, inserire in
chiusura quelle immagini è un gesto donchisciottesco.
(Nickelodeon,
febbraio 2006)
- La prima parte del Don Quijote esce nel 1605, mentre nel 1615 Cervantes (che morirà l’anno dopo) pubblica la seconda parte; nel frattempo era uscita una continuazione apocrifa del non identificato Fernandez de Avellaneda, contro cui l’autore si scaglia vivacemente.
- Fra le manifestazioni cervantine dell’anno, da menzionare l’omaggio che gli ha rivolto Pordenonelegge 2005.
- Trad. Vittorio Bodini, Einaudi, Torino, 1957.
- Il grande attore spagnolo era comparso anche nel Don Quijote de la Mancha del 1947 di Gil, nel ruolo del baccelliere Carrasco.
- Carlos F. Heredero, La simiente cervantina, in Manuel Gutiérrez Aragón. Las fábulas del cronista, a cura di C.F. Heredero, SGAE-Ocho y medio, Madrid, 2004.
- Ibidem.
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