giovedì 11 settembre 2014

Filmare l'illusione. Don Chisciotte al cinema


Il quattrocentesimo anniversario, nel 2005, della pubblicazione dell’immortale capolavoro di Cervantes, El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha (1) ha fornito l’occasione di vedere o rivedere alcuni esempi della vastissima produzione cinematografica su don Chisciotte (2). Solo alcuni, inevitabilmente, giacché l’hidalgo mancego è stato protagonista di film innumerevoli. Come non ricordare, in epoca muta, un Don Quixote (USA 1915) di Edward Dillon dove a don Chisciotte (DeWolf Hopper) si affiancava come Sancho il sommo comico ebreo Max Davidson! Sempre nel muto, troviamo un Don Quixote britannico del 1923 diretto dall’oggi riscoperto Maurice Elvey. Nel 1947 in Spagna Fernando Gil gira un Don Quijote de la Mancha con Rafael Rivelles e Juan Calvo; messicano-spagnolo è Don Quijote cabalga de nuevo del 1973, di Roberto Gavaldon - e infatti il grande attore spagnolo Fernando Fernán-Gomez interpreta don Chisciotte mentre nei panni di Sancho troviamo il popolare comico messicano Cantinflas. Lo stesso anno, per la tv americana Alvin Rakoff accoppia nei due ruoli Rex Harrison e Frank Finlay in The Adventures of Don Quixote. Recente è, sempre per la tv Usa, un Don Quixote di Peter Yates (2000), interpretato da John Lightgow e Bob Hoskins.
Essendo diventato un archetipo, e in quanto tale quasi svincolato dal romanzo, don Chisciotte non soltanto fa capolino come citazione in mille testi e film (ad esempio, interpretato da Arnoldo Foà, ne I cento cavalieri di Cottafavi), ma si lascia proiettare facilmente sull’autore di un film, tanto più se è dedicato allo stesso hidalgo - esempio, Orson Welles - o addirittura sull’attore: come il Jean Rochefort malato e caparbio di uno straziante passaggio di Lost in La Mancha di Keith Fulton e Louis Pepe, recente documentario sul Quixote mancato di Terry Gilliam.
Questo perché è centrale in tutte le versioni e riscritture contemporanee del don Chisciotte il concetto del “nobile fallimento”. Il quale è legato, più ancora che al testo cervantino, all’interpretazione romantica di don Chisciotte ch’è propria dell’epoca moderna - un’interpretazione che, nella pazzia dell’ingenioso hidalgo, mette in primo piano l’aspetto ribelle e quasi prometeico: la nobiltà del sogno rispetto alla realtà mediocre: ciò che è pienamente legittimo, ma che, merita ricordare, non appartiene (se non come suggestione, implicita possibilità di lettura) al romanzo di Cervantes. Nel quale si enuncia semmai la percezione pre-barocca della mutevolezza e inafferrabilità delle cose nel gran teatro del mondo.
Si potrebbe anche ipotizzare con piena legittimità di ampliamento testuale la versione “nera” di un don Chisciotte integralmente demente, chiuso e degradato nella sua allucinazione e follia. Ma ciò non accade mai: perché la verità è che lo amiamo. Già in Cervantes la nobiltà del personaggio fa premio sul ridicolo: ironia tragicomica che si esprime al massimo nella seconda parte, quando sia don Chisciotte sia Sancho si mettono a inventare: da cui la sublime chiusa del capitolo XLI con la sua proposta di alleanza: “E don Chisciotte avvicinatosi a Sancio gli disse nell’orecchio: - Sancio, se volete che vi si creda per ciò che avete visto in cielo, io voglio che voi crediate me per ciò che vidi nella grotta di Montesinos. E non dico altro” (3).
Se dunque ciò che soprattutto la nostra cultura valorizza del Don Chisciotte è la nobile tensione che emerge nello scarto tra fantasia e realtà, allora il primo aspetto da prendere in esame quando pensiamo ai film di don Chisciotte sarà appunto il rapporto tra la follia del cavaliere e il reale, che questa follia ridipinge coi propri colori fantastici.
Una versione che mira in particolare al realismo satirico è quella di G.W. Pabst (Don Quichotte, Francia 1933). Autore acido e senza compromessi, Pabst mette in scena nel film tutto il suo cinismo anarchico e distruttivo (basti pensare al suo capolavoro Das Tagebuch einer Verlorenen), spietato nel sottolineare la distanza fra il sogno di don Chisciotte (Fëdor Šaljapin) e la materialità del reale. In nessun luogo ciò si vede tanto bene quanto nella definizione del personaggio di Aldonza/Dulcinea, che è una contadina volgare, sessualmente spregiudicata, sprezzantemente estranea al mondo di don Chisciotte e pronta a ridere di lui. Quando il cavaliere e lo scudiero escono dal paese, e don Chisciotte vede una stalla come un nobile palazzo, un superbo tocco di materialismo pabstiano ci mostra all’interno Aldonza addormentata nel fieno assieme al suo amante. Quando più tardi Sancho (Dorville) consegna il messaggio di don Chisciotte per Dulcinea, trova Aldonza che munge (gran risata di Sancho, che nel film rappresenta l’innocente punto di vista materiale, nel comprendere chi è Dulcinea) e lei sghignazzando mette il vecchio elmetto di don Chisciotte in testa alla mucca. In questo cinismo oggettivo il punto di vista di Pabst è simile a quello di Cervantes (vedi nel romanzo il capitolo di Sancho, don Chisciotte e le tre contadine).
Don Chisciotte è naturalmente una figura della libertà (“Per l’umanità!”, grida attaccando il capitano per liberare i forzati) in un mondo di oppressione; Pabst ne dà un’ottima illustrazione sviluppando intelligentemente l’episodio dei mulini a vento. Sancho incontra file di contadini che parlano della guerra e delle tasse che li rovinano; questo è importante perché si lega direttamente ai mulini - che infatti appaiono ora - dando una sorta di significazione realistica all’episodio di Cervantes. Siccome un contadino ha appena detto a Sancho che, una volta macinato il grano che sta portando, della farina a lui non resterà niente, i mulini che don Chisciotte attacca sono effettivamente dei giganti divoratori. Non a caso la scena dell’attacco ai mulini, e della difficoltà di liberare il cavaliere rimasto imprigionato nella pala, è fortemente protratta rispetto alle altre del film.
Il Don Quichotte pabstiano è quasi un film musicale, dove don Chisciotte - Šaljapin era un tenore russo - canta una serie di romanze (ce n’è anche una di Sancho all’osteria, godereccia e picaresca). Il luogo d’elezione massimo della nobiltà di don Chisciotte giace appunto nel canto: l’elemento di speranza non si trova nel reale ma nell’attività intellettuale - vedi la romanza finale, che echeggia dopo la morte dell’hidalgo, e canta dell’isola felice dove tutto è puro e senza menzogna, scorrendo sulle immagini dei suoi libri che bruciano. Del rogo dei libri di don Chisciotte, che conclude il film, si incaricano qui i frati dell’Inquisizione (Pabst introduce anche il personaggio di un vescovo, fisicamente preso da un ritratto di Velazquez, che preferirebbe bruciare il cavaliere anziché i suoi libri). Ma con un trucco ottico - una proiezione a rovescio - dalla cenere dei libri che bruciano vediamo formarsi, come la fenice, proprio il Don Chisciotte di Cervantes: una dichiarazione di speranza (ricordiamo che Pabst nel 1933 è profugo da un paese in cui i roghi di libri sono una realtà attuale) nella sopravvivenza della cultura dalle proprie ceneri.
Ancora l’opposizione tra una nobile fantasia e una realtà ingrata, ma inserita nel quadro dei rapoorti sociali, informa il meraviglioso Don Kichot russo (1957) di Grigorij Kozincev. L’interprete - l’ejzenštejniano Nikolaj Cerkasov - dipinge don Chisciotte secondo una concezione dignificata che lo allontana più che mai dal ridicolo; e Sancho qui è un popolano intelligente, non illuso da don Chisciotte ma suo sodale perché affascinato dal suo linguaggio poetico e dalle sue prospettive avventurose. Se Pabst aveva declinato il rapporto Aldonza/Dulcinea in termini sarcastici, Kozincev inventa un delizioso equivoco romantico: per tutto il film la gentile contadina Aldonza ignora di essere quella Dulcinea che don Chisciotte adora, e anzi invidia questa donna perché è tanto amata.
Don Kichot è costellato di dettagli freschi (come il bambino nudo dall’enorme cappello che attraversa di corsa la strada del villaggio con un cagnolino al guinzaglio) e la bellezza della messa in scena procede da un gusto pittorico, non estrinseco ma costitutivo, tipicamente russo. Vedi le scene visualmente ricchissime della locanda (dove chiaramente il regista tiene presente anche Goya). Al pari delle opere shakespeariane di Kozincev, il film traduce il testo cervantino secondo una lettura marxista. Come già accennato, la vicenda è riletta alla luce dei rapporti di classe e il dialogo è calibrato sul concetto marxiano di ideologia (all’aria dubbiosa di Sancho circa il giuramento del cattivo padrone di pagare il suo apprendista imbrogliato e frustato, don Chisciotte replica che l’uomo non oserà mettere a repentaglio la sua anima immortale / stacco a un primo piano del padrone che agita la frusta). Alla base del film, evidenziato anche in allucinazioni visive o auditive, sta il discorso sull’ingiustizia: la missione di don Chisciotte è di difendere gli afflitti; quando Dulcinea/Aldonza gli appare in punto di morte, lo implora “Non abbandonateci”. Un aspetto vivace di questo approccio è la descrizione distesa e umorosa del governatorato di Sancho, allegro manifesto populista del buon senso contadino, con Sancho che dopo i suoi giudizi viene portato in trionfo dai popolani (del resto, già Cervantes ci dice che anche dopo la fine della beffa del governatorato gli abitanti dell’“isola” mantennero in vigore i saggi “statuti del gran governatore Sancho Panza”).
In un film impostato sui rapporti di classe, è particolarmente attenta la rappresentazione del Duca (il grande beffatore dell’hidalgo nel romanzo) e della sua corte. La tavolozza ricca di ocra e di marroni dello svolgimento precedente qui si impoverisce: colori neri, bianchi e cinerini, abiti neri, scenografia nuda del palazzo, cupi dipinti monocromatici alle pareti. Circa l’allucinante scena dell’uscita dei cortigiani in corteo con gelida solennità da morti viventi, vien da pensare che è impossibile che il polacco Roman Polanski non abbia visto questo film e non ne avverta una reminiscenza in Per favore non mordermi sul collo. E in tutta questa sezione v’è, interna alla messa in scena corposa del realismo russo, una sorta di recupero del fantastico, sia a livello scenografico sia nell’inquietante beffa, fatta a don Chisciotte, della morta che si muove.
E in un mondo determinato dai rapporti di classe si rivela inefficace il volontarismo eroico di don Chisciotte sotto la forma della cavalleria errante. Don Chisciotte muore, pentito e rinsavito, cioè sconfitto, dopo la risoluzione dell’episodio del garzone sfruttato (che credeva di difendere, laddove invece ha solo peggiorato la sua condizione). Ma la dialettica fra reale e fantastico si esalta nell’inquadratura finale. Dopo che abbiamo assistito alla morte di don Chisciotte, uno stacco ci porta a un solenne campo lungo della pianura spagnola in un’inquadratura vuota - segue una panoramica a scoprire a destra - ed ecco don Chisciotte con la sua lunga lancia e Sancho sull’asino (il campo lungo serve non soltanto a riprodurre l’elemento iconografico principe ma a evitare un contraccolpo legato alla leggibilità del viso, che riporterebbe contraddittoriamente l’immagine sul piano narrativo): don Chisciotte e Sancho cavalcano ancora, trasformati in figure immortali.
Ma non lasceremo il film di Kozincev senza menzionare un dettaglio molto interessante, e coraggioso, del suo discorso politico. Ci riferiamo alla classica scena di don Chisciotte che libera i forzati, i quali per tutto ringraziamento lo lapidano. In questa sequenza lo chiamano spia, e Sancho protesta “Ma se vi ha liberati!”, e loro: “Questo è successo prima - poi si è venduto”. Non è chi non veda che il comico paradosso della battuta si riferisce satiricamente alle purghe staliniane (quando gli artefici stessi della rivoluzione erano stati costretti a confessare di essere traditori e spie). Così il film di Kozincev (1957!) si inserisce nella battaglia politico-culturale sovietica popolarizzando - “in linguaggio esopico”, come si diceva in URSS - il discorso della destalinizzazione.
A un livello di realizzazione artistica assai minore, ma non indegno, merita citare qui il Don Chisciotte e Sancio Panza di Gianni Grimaldi (1968) con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Il gustoso gioco comico fra i due (Franco ammiccante, Ciccio allucinato) si svolge tutto all’interno della logica plebea della loro personale commedia dell’arte, “alte pratiche basse” della comicità. E’ purissimo Franco e Ciccio il gioco sulle allucinazioni (che, con materialismo rigoroso, non sono mai visualizzate in senso fantastico - anche evidentemente per ragioni di budget), dove Franco/Sancho, cosciente fin dall’inizio che il suo padrone è pazzo, usa tutta la sua mimica per venire incontro alle stravaganze dell’altro: vedi la scena nel “castello” abbandonato che don Chisciotte vede pieno di gente.
Il Duca e la Duchessa qui sono dei corrotti che vogliono un governatore-fantoccio per aumentare le tasse; Sancho, contadino dal cervello fino, come governatore prima mostra il suo buon senso (il film recupera l’episodio cervantino del bastone cavo coi soldi dentro) e poi fa arrestare tutta la combriccola. Infine in una conclusione aperta raggiunge don Chisciotte che si batte contro il vento; il film si chiude sulla loro carica.
Menzioniamo en passant un’altra esaltazione romantica di don Chisciotte in Man of La Mancha di Arthur Hiller (1968), versione filmica (forse eccessivamente maltrattata dai critici) del musical di Broadway, che incrocia il personaggio Chisciotte con l’autore Cervantes. Pensiamo all’esaltata canzone a tre, lode del sogno contro tutti e tutto, di don Chisciotte, Sancho e Aldonza/Dulcinea (Peter O’Toole, James Coco e Sofia Loren).
Esiste però un altro aspetto fondamentale del testo di Cervantes, che di solito le versioni cinematografiche omettono di restituire. Si tratta dell’aspetto metanarrativo, che è già presente nella prima parte del romanzo, ma fondamentale nella seconda: quando don Chisciotte gira per una Spagna dove molti hanno letto le sue avventure (nella prima parte di Cervantes e nella continuazione apocrifa di Avellaneda), per cui lui e Sancho sono già conosciuti, ed entrano in un vertiginoso corto circuito con la propria stessa leggenda.
O, per essere più precisi: dell’aspetto metanarrativo le versioni cinematografiche mantengono volentieri solo l’aspetto più estrinseco, i riferimenti al teatro. Che Pabst per esempio usa per mettere in scena l’opposizione fra l’illusione di don Chisciotte e il grassoccio, robusto, volgare vitalismo “bruegeliano” del pubblico, dei comici e di Aldonza. Annotiamo di passaggio che l’elemento teatrale cervantino è centrale nel Don Chisciotte di Maurizio Scaparro (Italia 1984), ipotesi di trasposizione di uno spettacolo teatrale sul piano cinematografico, in un progetto di fusione tra teatro e film. Don Chisciotte ha gli occhi febbrili di pino Micol; Sancho è un Peppe Barra che controlla troppo anziché liberare la sua napoletanità. Il problema del rapporto fra cinema e teatro è però posto male: ambiguo e irrisolto, appare nel film un’incerta giustapposizione più che una sintesi; si ricade nell’equivoco del teatro filmato, che la mobilità della mdp in montaggio amplifica anziché escludere.
Orson Welles fa dell’elemento metanarrativo il cuore del suo, incompiuto don Quixote. Com’è noto, Welles cercò di girare il film (con Francisco Reiguera e Akim Tamiroff) dal 1955 al 1973, senza riuscire a completarlo. In seguito (1992) il regista spagnolo Jesus Franco, già collaboratore di Welles, ha proposto un proprio restauro, o meglio una versione ipotetica, del film wellesiano, col titolo Don Quijote de Orson Welles.
Questa versione è uno dei possibili percorsi nel Don Quixote di Welles, che forse non vedremo mai. Il film non è però accettato dalla critica wellesiana come appartenente al corpus del maestro. E’ chiaro che - stante che per Welles il vero luogo di realizzazione di un film è la sala di montaggio - un montaggio interamente arbitrario come risulta essere quello di Jesus Franco è la negazione stessa dello spirito filologico. Così il presente film appare più che altro un’antologia di riprese; per inciso, vi manca la più famosa delle sequenze girate, quella di don Chisciotte al cinema, custodita in Italia dal montatore Mauro Bonanni. In alcuni luoghi l’intento narrativo si attenua fino a scomparire (le lunghe immagini pittoriche di don Chisciotte e Sancho a cavallo: quasi alla Daumier, schizzi in un paesaggio). Altre sequenze, come quelle della parte finale in città, sembrano possedere se non altro una logica narrativa dove si può intravedere in filigrana qualcosa dell’intenzione wellesiana. La seconda parte è più strutturata della prima e certamente ci dà un’idea di quello che Welles voleva fare. Altrimenti il montaggio, sia quello interno alle sequenze sia il macromontaggio fra le stesse, sembra totalmente guesswork. Fra l’altro, considerando il grande lavoro di doppiaggio progettato e realizzato da Welles per i personaggi, è assurdo vederli con un ri-doppiaggio spagnolo appositamente realizzato.
Dilatando il corto circuito narrativo della seconda parte del romanzo, Welles si getta audacemente nell’anacronismo di presentare don Chisciotte e Sancho che girano per la Spagna contemporanea, dove si vede perfino la pubblicità della Birra don Chisciotte. Caratteristicamente, il Don Quixote wellesiano è anche un saggio sull’amatissima Spagna. In questo senso (sempre fatte salve le riserve filologiche sull’operazione di Franco, a cui appartiene) è indicativa la sequenza dei mulini a vento. Dopo che sono stati resi “vivi” con un semplice effetto di distorsione, vediamo dettagli delle pale e sovrimpressioni, con visi mostruosi che appaiono a don Chisciotte e gli si precipitano contro. Ma è Goya, e questo dà al segno una doppia valenza: visualizza l’allucinazione di don Chisciotte ma allo stesso tempo ci riconduce a un elemento culturale spagnolo: la contestualizza indicandone l’appartenenza a una forma del carattere nazionale spagnolo, un umore nero o fantastico. Non una messa in scena mostruosa quanto un’osservazione sulla cultura da cui questi mostri sorgono.
Osservazioni simili si potrebbero fare per l’attacco di don Chisciotte alla processione degli incappucciati, realizzata - come spesso in Welles (cfr. Mr. Arkadin) - con riprese documentarie “rubate” alternate a controcampi di don Chisciotte; nota che, coerentemente con l’impostazione irrealistica dell’intero film, la luce non corrisponde.
Don Quixote è una lucida tappa dell’eterna riflessione di Welles sulla riproduzione e l’illusione. Di qui la ricchezza di significati della sequenza famosa di don Chisciotte che va al cinema, vede una donna in pericolo nel film, sguaina la spada e si avventa contro i nemici sullo schermo lacerandolo (tra lo sconcerto degli spettatori adulti e la gioia divertita dei bambini). Ciò deriva direttamente dal testo di Cervantes in cui don Chisciotte si scaglia contro le marionette, ma Welles lo amplia a una riflessione critica sul dispositivo cinematografico (riecheggiata nel dialogo in un altro passaggio del film).
Welles inserisce più volte riprese di se stesso che filma per le strade con una piccola macchina a mano. Ma c’è di più. A un certo punto Sancho si decide - e ne scrive alla moglie - a comparire in un film che si sta girando, per raggranellare qualche soldo durante la separazione da don Chisciotte. E che film è? Ma è quello di Welles! “C’è un uomo che vuol fare un film sul mio padrone e su di me - scvrive Sancho - [...] Come dire, diventeremo famosi”. Il Don Quixote e il rodage del Don Quixote si confondono e s’identificano: il film diventa la messa in scena della propria realizzazione. Anche sotto questo aspetto Don Quixote anticipa i grandi film-saggio dell’ultimo periodo di Welles, F for Fake e Filming Othello.
Contestuale a tutto ciò è l’identificazione tra don Chisciotte e Welles stesso, implicita come suggestione ma anche vivacemente esplicitata nel dialogo. Per esempio Sancho, mentre vaga alla ricerca del suo padrone, orecchiando i discorsi della troupe del film sente descrivere la personalità di Welles ed esclama: “Està hablando de don Quijote!”.
L’aspetto metaletterario è tenuto presente nei due Quijote spagnoli di Manuel Gutiérrez Aragón: la miniserie televisiva El Quijote de Miguel de Cervantes (1991), con Fernando Rey (4) e Alfredo Landa, e il lungometraggio del 2002 El caballero Don Quijote - che mi scuso di non conoscere. Tutto il cinema di Gutiérrez Aragón (Demonios en el jardin, La mitad del cielo, Feroz) si basa su un raffinato gioco fra realismo e riflessi fantastici, una continua dialettica fra realtà e finzione. Nella miniserie tv - scritta da Camilo José Cela - il regista, per esempio, interrompe la visione di un duello per introdurre Cervantes stesso (José Luis Pellicena) col manoscritto che descrive lo stesso duello: il cineasta “si impegna a mettere in scena quei suggestivi andirivieni fra la finzione e meta-finzione, tra la storia raccontata e l’autore del romanzo, Cervantes, in maniera che tali giochi intertestuali passano dalla letteratura al cinema - in questo caso - con puntuale e squisita fedeltà alla narrazione originale del libro” (5). Il film mette in scena la seconda parte del romanzo con un don Chisciotte (Juan Luis Gallardo) differente dal solito, un “cavaliere autunnale, stanco e scettico”, preceduto dalla propria fama, che “insegue meravigliato la propria leggenda” (6).
Il film di Gutiérrez Aragón è inedito in Italia. Dove ha avuto invece un certo successo il già citato Lost in La Mancha, un documentario dedicato nel 2002 da Keith Fulton e Louis Pepe alla sfortunata lavorazione del costosissimo e mai terminato The Man Who Killed Don Quixote di Terry Gilliam. Lost in La Mancha si riferisce direttamente a Welles, nel tentativo di suggerire una sorta d’identificazione Welles-Gilliam, (oltre che, naturalmente, don Chisciotte-Gilliam) sotto il segno del sognatore geniale sconfitto dalla forza della realtà. Il suo film è un tentativo di fare “Hollywood without Hollywood”. Ma, ben distante da Welles, Gilliam sembra cadere - quando le cose cominciano ad andare disastrosamente male - in una sorta di languore organizzativo: sembra che l’intera produzione si avvolga in un cupio dissolvi fatto di incertezza e incapacità di riorganizzare la produzione.
Non è facile evincere dal documentario quale fosse il “progetto Chisciotte” di Terry Gilliam. Ma Gilliam è un regista eminentemente visuale (che anzi dà il meglio quando la sua immaginazione grafica e fantastica non è appesantita da preoccupazioni ideologiche o filosofiche), e la scena che vediamo dei tre giganti mostra una tendenza a spaziare sfrenatamente nella dimensione fantastica e allucinatoria del Don Chisciotte. La bellissima chiusa del documentario, dopo i titoli di coda, mostra i tre giganti che avanzano verso la mdp terra, e quello centrale allunga ferocemente le mani; sul che - doveva essere il trailer - compare la scritta “Coming soon”. Ha un doppio valore questa immagine: in primo luogo l’autoironia rispetto a questo “prossimamente sui vostri schermi”, promessa non realizzato; ma c’è anche l’orgogliosa rivendicazione dell’immagine filmato, del potere della fantasia, di ciò che il film avrebbe potuto essere. Di sfida al destino avverso. In questo secondo senso, inserire in chiusura quelle immagini è un gesto donchisciottesco.

(Nickelodeon, febbraio 2006)
  1. La prima parte del Don Quijote esce nel 1605, mentre nel 1615 Cervantes (che morirà l’anno dopo) pubblica la seconda parte; nel frattempo era uscita una continuazione apocrifa del non identificato Fernandez de Avellaneda, contro cui l’autore si scaglia vivacemente.
  2. Fra le manifestazioni cervantine dell’anno, da menzionare l’omaggio che gli ha rivolto Pordenonelegge 2005.
  3. Trad. Vittorio Bodini, Einaudi, Torino, 1957.
  4. Il grande attore spagnolo era comparso anche nel Don Quijote de la Mancha del 1947 di Gil, nel ruolo del baccelliere Carrasco.
  5. Carlos F. Heredero, La simiente cervantina, in Manuel Gutiérrez Aragón. Las fábulas del cronista, a cura di C.F. Heredero, SGAE-Ocho y medio, Madrid, 2004.
  6. Ibidem.

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