“Voglio
fare film disordinati”, ha detto Imamura Shohei. Dove quel
disordine sta per un
approccio espressivo “forte”, antitradizionale, concitato: un
approccio flessibile, orientato alla centralità della narrazione più
che preoccupato di stabilirsi una rigida forma
come (inevitabile richiamo!) Ozu Yasujiro, di
cui Imamura è stato assistente e con il quale ha avuto un complesso
rapporto, prima rifiutandolo e negandone l’influenza, ma
riconoscendola più tardi (1).
Il
cinema di Imamura Shohei è cinema dell’energia. Anticonformista
radicale, il regista giapponese trova il suo oggetto narrativo nel
mondo degli emarginati perché questi sono l’incarnazione di un
terribile vitalismo, ingordo ed egoista, avido e brutale, un
vitalismo frenetico negato dalla tradizione giapponese, e di cui
invece il cinema di Imamura si nutre. Come i suoi personaggi, Imamura
è fatto di lava. Così, il mondo imamuriano è un mondo di sfrenate
passioni (il sesso, goloso e violento, in primo piano) e di
incontenibile struggle for life.
In
questo mondo giocano la loro esistenza gli attori girovaghi di
Nusumareta Yokujo (Desiderio
rubato, 1958), gli sbandati di Hateshinaki
Yokubo (Desiderio
inappagato, 1958) (2), i teppisti di Buta
to Gunkan (Porci e
corazzate, 1961), i minatori disoccupati di
Nianchan (Il
secondo fratello, 1959). O il pornografo di
Jinruigaku Nyumon (Introduzione
all’antropologia, 1966) o il gelido
assassino di Fukushu Suru Wa Ware ni Ari (La
vendetta è mia, 1979). O gli esponenti di
minoranze etniche o culturali, che ritornano spesso nei film di
Imamura (l’assassino de La vendetta è mia è
cristiano) ma appaiono in particolare in Kamigami
no Fukaki Yokubo (Il
profondo desiderio degli dei, 1968) e
naturalmente nel suo film più noto in Italia, lo stupendo Narayama
Bushi-ko (La ballata
di Narayama, 1983).
O
le donne, cui Imamura ha sempre riservato un’attenzione
particolare: e che non sono le eroine stilizzate di Mizoguchi o le
figure vagamente ieratiche di Ozu, ma creature tenaci, furbe,
vogliose, ingannatrici e sensuali, psicologicamente più forti degli
uomini. Già nello scombinato quartetto di Desiderio
inappagato (un noir
con deliziosi accenni di commedia macabra) la
donna assume la leadership del
gruppo - e fa anche di peggio. Tipica “donna forte” imamuriana,
la Tome di Nippon Konchuki (Cronache
entomologiche del Giappone, 1963) si scava la
strada nella vita con cieca determinazione, da cameriera a tenutaria
di un bordello. Assume toni disperati l’incerta volitività della
protagonista di Akai Satsui (Desiderio
d’omicidio, 1964). Ma anche lo splendido
documentario Nippon Sengoshi – Madamu Omboro
no Seitsaku (La storia
del Giappone del dopo-guerra raccontata da una barista,
1970) (3) approfitta per delineare “dal vero” una figura di donna
affascinante e pericolosa, indimenticabile. E' degno di nota il
ritornare della parola “desiderio” nei titoli imamuriani. La
centralità della pulsione. Anche quando l’autore si pone
preoccupazioni di ordine filosofico - come nel “documentario”
d’impianto pirandelliano Ningen
Johatsu (Evaporazione
dell’uomo, 1967) o più mediatamente in La
vendetta è mia – rimane saldamente
agganciato alle tematiche della passionalità.
Ovviamente,
l’ambientazione spazio-temporale sarà parimenti scelta in modo da
sottolineare la lotta:
cittadine o quartieri che muoiono per abbandono (Il
secondo fratello, Desiderio inappagato),
periferie metropolitane, annoiate città di provincia piene di
desiderio represso. Il Giappone del primo dopoguerra (Porci
e corazzate, aspra commedia sull’occupazione
americana, la prostituzione, la perdita di autorità dei genitori);
il Giappone della ricostruzione (Cronache
entomologiche del Giappone, che abilmente
passa di continuo dalla fiction al
materiale documentario, lo stesso poi usato per La
storia del Giappone del dopoguerra...).
I
“paradisi etnologici” vengono visti da Imamura come luogo
dell’istinto (La ballata di Narayama) (4)
o colti nel momento dell’impatto distruttivo col mondo moderno (Il
profondo desiderio degli dei). Ed anche i due
suoi film “storici” sono ambientati in epoche di transizione:
Eijanaika (Cosa
ce ne importa, 1981) alla fine dello
shogunato Tokugawa, il bellissimo Zegen (Il
mezzano, 1987) nei primi 40 anni del ‘900.
L’attenzione è sempre focalizzata sulla “parte bassa” della
società: il protagonista di Zegen è
un patriottico impresario di bordelli che vede la propria attività
come avamposto della diffusione giapponese nel Pacifico.
I
titoli di testa di Cronache entomologiche
delGiappone ci mostrano un insetto che si
arrampica faticosamente per un declivio. Possiamo assumerlo come
simbolo dell’intero universo di Imamura: tanto più che - ci
informa Audie Bock (5) - Nippon Konkuchi si
tradurrebbe letteralmente Giappone-insetto.
Del resto, Imamura usa largamente gli animali in funzione simbolica,
evocativa di vita istintuale e selvaggia. L’esempio più chiaro ne
è Il profondo desiderio degli dei,
dove richiamano un rapporto uomo/natura che si perde nella
civilizzazione.
Tuttavia,
quello di Imamura non è un cinema sentimentale, commosso o - men che
meno - volgarmente engagé.
Nel suo vitalismo, Imamura non tende all’elegia, e questo spiega la
persistenza del suo terribile humour.
Imamura è acutamente sensibile all’elemento comico insito
nell’essere umano in qualunque situazione, e da ciò il paradosso
che anche nei suoi film più drammatici si ride moltissimo.
In
questo mondo lupesco le psicologie sono dei punti fermi. Con la
possibile eccezione della commovente Sadako di Desiderio
d’omicidio - una casalinga frustrata che
s’innamora del ladro che l’ha violentata e scopre l’utopia di
altre vite possibili in una disperata storiad’amore-odio - i
personaggi imamuriani sono eguali a se stessi,
persi (o perfetti) nelle proprie monomaniache passioni. Ne è un
esempio allucinante il protagonista de La
vendetta è mia, artista del crimine dal
bizzarro humor nero, pieno di cieca aggressività contro se stesso e
gli altri. Gli uomini, come gli animali, non
cambiano: alla fine di Porci
e corazzate l’equiparazione tra uomini e
maiali è buffissima e totale.
Quindi
non può esistere in Imamura la tematica di Ozu della crisi -
comprensione - ricomposizione. Un buon esempio lo troviamo ancora in
La vendetta è mia,
quando il padre tenta un fallimentare colloquio in cella con il
figlio assassino. Le due figure sono inquadrate per un attimo nella
tipica posizione di Ozu “all’altezza del tatami”:
ma immediatamente la composizione si spezza, il figlio si alza e si
muove rabbiosamente per la cella in preda al solito furore: come un
alludere anche sul piano visuale all’impossibilità di
quell’accettazione serenamente
zen che è alla base dell’arte di Ozu.
A
volte Imamura arriva ad instaurare un tempo
circolare entro il quale le stesse situazioni
si ripetono identiche con gli stessi personaggi in ruoli diversi
(Cronache entomologiche del Giappone).
O capita che nei suoi film - segnatamente in Introduzione
all’antropologia, che per chi scrive è il
suo capolavoro - un punto d’arrivo
drammatico, un possibile finale,
anziché dar luogo ai titoli di coda come lo spettatore prevede, si
rovesci in punto di partenza per un nuovo sviluppo: accumulo, non
crisi.
Un’eguale
energia si fa ricordare sul piano formale. Quello di Imamura è un
cinema di movimento, di veloce e sapiente montaggio e di movimenti di
macchina precisi, espressivi, organici: dai primi piani veloci e
impauriti, alla scoperta dell’assassinio, in Desiderio
inappagato alla commovente panoramica a
destra che chiude Il secondo fratello legando
le figure dei due bambini alla città in crisi, al virtuosismo della
tragicomica presentazione della fidanzata alla madre in Introduzione
all’antropologia: lunghissima soggettiva in
piano sequenza mentre la ragazza s’avvicina per un corridoio che
sembra interminabile, attraversando vari campi intersecati di ombra e
di luce finché la mdp si abbassa lentamente perché la madre è
svenuta alla vista della volgare spogliarellista: dissolvenza e
seconda soggettiva dal basso in alto: “Lei ti saluta” (6).
Imamura
ama accumulare le componenti nell’inquadratura; ma riesce a farlo
senza dare un’idea di sovraccarico grazie all’estrema eleganza
espositiva. Di questa salgono in mente mille esempi, dalla bellissima
sequenza dei titoli di testa di Porci
e corazzate (con
le due linee divergenti delle navi alla fonda e dei camion sulla
riva) alle belle partizioni dello spazio ottenute con gli alberi ne
Il profondo
desiderio degli dei,
dal drammatico gioco in bianco e nero alla fine di Desiderio
d’omicidio alle
sublimi composizioni, quasi espressioniste, di Introduzione
all’antropologia.
Zegen
si chiude con
l’immagine del vecchio ruffiano ormai semipazzo che arranca in
bicicletta dietro alle incuranti truppe del Sol Levante... Ma il
cinema di Imamura non è cinema della sconfitta. E' aspra, ironica,
tumultuosa dichiarazione d’amore per la vita: di sconfitte
quest’ultima è distributrice generosa, d’accordo, ma come
l’insetto del film gli uomini e le donne di Imamura, disperatamente
umani,
continuano ciecamente ad arrampicarsi per la salita.
(Nickelodeon,
dicembre 1987)
POSTILLA
2006
Purtroppo
l’ultimo ventennio ha coinciso con un rallentamento dell’attività
di Imaura Shohei (solo 4 film, più un corto, dopo Zegen);
tuttavia, in età avanzata il regista ha continuato a stupirci con
film rari ma poderosi, che mostrano una ricchezza artistica da grande
vecchio saggio.
Imamura
continua con i suoi personaggi di irregolari e outcast.
In Kuroi ame
(Black
Rain, 1989) -
con cui eleva un memorabile monumento alle vittime di Hiroshima, e
chiude alfine i suoi conti con l’eredità di Ozu - la protagonista
Yasuko è donna (il film è anche un’ulteriore riflessione sul
ruolo della donna giapponese) ed è contaminata dalle radiazioni,
situazione vissuta socialmente come una vergogna. Il “dottor
Fegato” di Kanzo
sensei (Dr.
Akagi,1998) è
un discusso pioniere della medicina nel Giappone 1945, dai metodi
artigianali (utilizza per le sue ricerche un microscopio ricavato dal
proiettore di un cinema!) e non privo di buffi tratti monomaniaci. I
protagonisti di Unagi
(The
Eel, 1997) e
Akai hashi no
shita no nurui mizu (Acqua
tiepida sotto un ponte rosso,
2001) - non a caso interpretati dallo stesso attore, Yakusho Koji -
sono due “colletti bianchi” espulsi dal processo produttivo (uno
è stato licenziato, uno esce di galera per aver ucciso la moglie).
Ambedue incontrano una donna (sempre col volto di Shimizu Misa) come
catalizzatore della rinascita. E la centralità della donna in tutto
il cinema imamuriano esplode in Acqua
tiepida sotto un ponte rosso,
il film dove culmina la continua riflessione del regista sul
desiderio e la passione, col personaggio di Keiko, la cui energia
erotica si materializza durante l’orgasmo in rivoli di acqua
tiepida e feconda che scorrendo in mare attirano i pesci. Imamura ci
parla sempre della pienezza maestosa dello svolgersi della vita -
metaforizzata in The
Eel nel lungo
viaggio oceanico delle anguille per riprodursi.
E
c’è sempre la dimensione della bellezza della vita nei film di
Imamura anche i più tragici. Ne è un simbolo fugace la carpa che
salta dall’acqua del laghetto osservata da Yasuko in Black
Rain. Imamura ha
sempre mantenuto la bellezza dell’inquadratura, il framing,
le belle partizioni dello spazio, e le stupefacenti inquadrature
della natura (forse le più belle, simili a stampe, ce le offre la
prodigiosa fotografia di Komatsubara Shigeru in The
Eel).
Il
segmento girato da Imamura per il film collettivo 11
settembre 2001 -
coll’agghiacciante apologo del soldato giapponese che è diventato
un serpente perché ha visto cose che gli hanno fatto passare la
voglia di esser uomo - resta il suo testamento. Imamura si è spento
quasi ottantenne il
30 maggio 2006.
(Nickelodeon,
dicembre 2006, ripubblicando l'articolo)
1.
Su Imamura (nato a Tokyo nel 1926)
cfr. Shohei Imamura,
a cura di Adriano Piccardi e Angelo Signorelli, catalogo della
personale dedicatagli dal Bergamo Film Meeting 1987. E' grazie al
Bergamo Film Meeting che finalmente il pubblico italiano può
conoscere la grandezza dell’autore.
2.
Noto anche come Desiderio
infinito. Fra gli altri film, Il
secondo fratello circola anche come
Il diario di Sueko;
di Porci e corazzate uscì
a suo tempo una versione tradotta e tagliata col titolo di Porci,
geishe e marinai.
3.
Imamura è anche autore di una
importante produzione documentaria in cui -come nei film di fiction
– riesce a dare una visione
assolutamente eterodossa della storia recente giapponese.
4.
La versione precedente girata nel
1958 da Kinoshita Keisuke aveva invece scelto raffinati moduli
narrativi debitori del teatro Kabuki.
5.
Shohei Imamura,
cit., p. 24.
6.
Merita qui ricordare che
Introduzione all’antropologia -
storia di un mistero venditore/autore di film porno - è pieno di
ironici riferimenti metacinematografici, arrivando a chiudersi con un
inaspettato e scherzoso “corto
circuito” fra i film del film, il film stesso e naturalmente la
vita.
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