Ogni
anno le Giornate del Cinema Muto di Pordenone, ora traslocate a
Sacile, non ci regalano soltanto un riassetto delle conoscenze
storiche, che è importantissimo ma in sé sarebbe roba per
specialisti, ma un diluvio di emozioni. Della manifestazione, aperta
da “Speedy” con Harold Lloyd (bello, sebbene nettamente inferiore
a “The Kid Brother”, con lo stesso, che ha chiuso l’edizione
1999) - faremo un bilancio complessivo nel prossimo numero. Oggi ci
preme parlarvi di un grande, ch’è il nume tutelare delle Giornate
2000, e per la qualità e per la quantità delle opere proiettate: il
francese Louis Feuillade (1873-1925).
Realizzò
circa 800 pellicole. Ma più che per i film “singoli” - fra cui
capolavori come “Pierrot Pierrette”, del 1924 (che ricorda Jean
Vigo) - Feuillade è famoso per i serial, per lo più del decennio
precedente; ad esempio, “Fantômas”, che piaceva ai surrealisti
allo stesso titolo per i deliranti romanzi di Allain e Souvestre e
per i visionari episodi che Feuillade ne trasse. Feuillade univa due
qualità: in primo luogo era un grandissimo visionario, ma sapeva
fotografare con massima naturalezza e poesia la realtà. I suoi
esterni di Parigi e della Francia tutta sono un vero documento
fotografico. Si capisce che i due valori si fondono. L’immagine di
un tetto con una nera figura incappucciata che si staglia contro il
cielo e l’autentica Nôtre Dame sullo sfondo: ecco Feuillade. Vi
troviamo quel “meraviglioso fondato nella realtà” - sur/realtà,
appunto - che i surrealisti adoravano: così in “Fantômas” come
ne “Les Vampires”, altro serial-capolavoro di Feuillade, che le
Giornate hanno presentato nei primi quattro giorni. I Vampiri, che
non sono succhiasangue ma una banda di supercriminali incappucciati
in calzamaglia nera. La loro musa è Musidora, attrice di
straordinaria presenza, che nella calzamaglia della terribile Irma
Vep diverrà una icona femminile imperitura del cinema francese.
Quello
dei “Vampires” è un mondo in cui dentro un comune appartamento
spunta fuori da un nascondiglio un cannone, pronto a bombardare un
tabarin; oppure ne arriva uno ancora più grosso in una camera
d’albergo smontato a pezzi dentro il bagaglio d’un falso prete, e
di lì sparando affonda una nave. Un mondo di botole, cunicoli,
passaggi segreti, sparizioni e riapparizioni; un mondo in cui si
entra in casa dal caminetto e si esce dalla finestra.
Feuillade
inventa e ridefinisce il racconto passo passo. L’attore Jean Ayme
che interpreta il Grande Vampiro (ruolo quasi da co-protagonista) un
giorno lo offende non presentandosi al lavoro? Ipso facto Feuillade
lo fa morire: gli spara la sua complice Irma Vep ipnotizzata da un
arcinemico. Ma adesso i Vampiri sono senza capo? Niente paura, si
presenta un minaccioso signore rivelando a loro e a noi: “Avete
ucciso soltanto un subordinato. Il vero capo dei Vampiri sono io,
Satanas!”. La follia anarchica spadroneggia nel racconto. Ma la
vena anarchica di Feuillade si svela anche nel modo in cui beffeggia
e stravolge la buona società. A un certo punto viene ucciso il
Grande Inquisitore dei Vampiri. La polizia smaschera il cadavere e,
sorpresa!, costui era il Presidente della Corte di Cassazione.
Ovvero, faceva lo stesso lavoro di giorno e di notte, sebbene per
padroni differenti.
Notevolissimo,
in questi Feuillade dell’epoca della guerra mondiale, il rapporto
fra gli attori e la macchina da presa. I personaggi - di più quelli
comici, ma tutti - occhieggiano, gesticolano, commentano, scherzano
verso la cinepresa. Non è un errore, un’infrazione a una
grammatica cinematografica peraltro ancora “in fieri”. In
Feuillade la macchina da presa, nella sua veste di autentica
rappresentante del pubblico, condivide l’azione. Feuillade vuole
che lo stesso pubblico partecipi, come se fosse seduto lì ad
assistere (e quanti palcoscenici, teatro, tabarin, cinema, compaiono
in “Les Vampires”!). Ora diteci, come si può non adorare un
racconto così?
(Il
Nuovo Friuli)
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