venerdì 26 settembre 2014

I Vampiri di Feuillade


Ogni anno le Giornate del Cinema Muto di Pordenone, ora traslocate a Sacile, non ci regalano soltanto un riassetto delle conoscenze storiche, che è importantissimo ma in sé sarebbe roba per specialisti, ma un diluvio di emozioni. Della manifestazione, aperta da “Speedy” con Harold Lloyd (bello, sebbene nettamente inferiore a “The Kid Brother”, con lo stesso, che ha chiuso l’edizione 1999) - faremo un bilancio complessivo nel prossimo numero. Oggi ci preme parlarvi di un grande, ch’è il nume tutelare delle Giornate 2000, e per la qualità e per la quantità delle opere proiettate: il francese Louis Feuillade (1873-1925).
Realizzò circa 800 pellicole. Ma più che per i film “singoli” - fra cui capolavori come “Pierrot Pierrette”, del 1924 (che ricorda Jean Vigo) - Feuillade è famoso per i serial, per lo più del decennio precedente; ad esempio, “Fantômas”, che piaceva ai surrealisti allo stesso titolo per i deliranti romanzi di Allain e Souvestre e per i visionari episodi che Feuillade ne trasse. Feuillade univa due qualità: in primo luogo era un grandissimo visionario, ma sapeva fotografare con massima naturalezza e poesia la realtà. I suoi esterni di Parigi e della Francia tutta sono un vero documento fotografico. Si capisce che i due valori si fondono. L’immagine di un tetto con una nera figura incappucciata che si staglia contro il cielo e l’autentica Nôtre Dame sullo sfondo: ecco Feuillade. Vi troviamo quel “meraviglioso fondato nella realtà” - sur/realtà, appunto - che i surrealisti adoravano: così in “Fantômas” come ne “Les Vampires”, altro serial-capolavoro di Feuillade, che le Giornate hanno presentato nei primi quattro giorni. I Vampiri, che non sono succhiasangue ma una banda di supercriminali incappucciati in calzamaglia nera. La loro musa è Musidora, attrice di straordinaria presenza, che nella calzamaglia della terribile Irma Vep diverrà una icona femminile imperitura del cinema francese.
Quello dei “Vampires” è un mondo in cui dentro un comune appartamento spunta fuori da un nascondiglio un cannone, pronto a bombardare un tabarin; oppure ne arriva uno ancora più grosso in una camera d’albergo smontato a pezzi dentro il bagaglio d’un falso prete, e di lì sparando affonda una nave. Un mondo di botole, cunicoli, passaggi segreti, sparizioni e riapparizioni; un mondo in cui si entra in casa dal caminetto e si esce dalla finestra.
Feuillade inventa e ridefinisce il racconto passo passo. L’attore Jean Ayme che interpreta il Grande Vampiro (ruolo quasi da co-protagonista) un giorno lo offende non presentandosi al lavoro? Ipso facto Feuillade lo fa morire: gli spara la sua complice Irma Vep ipnotizzata da un arcinemico. Ma adesso i Vampiri sono senza capo? Niente paura, si presenta un minaccioso signore rivelando a loro e a noi: “Avete ucciso soltanto un subordinato. Il vero capo dei Vampiri sono io, Satanas!”. La follia anarchica spadroneggia nel racconto. Ma la vena anarchica di Feuillade si svela anche nel modo in cui beffeggia e stravolge la buona società. A un certo punto viene ucciso il Grande Inquisitore dei Vampiri. La polizia smaschera il cadavere e, sorpresa!, costui era il Presidente della Corte di Cassazione. Ovvero, faceva lo stesso lavoro di giorno e di notte, sebbene per padroni differenti.
Notevolissimo, in questi Feuillade dell’epoca della guerra mondiale, il rapporto fra gli attori e la macchina da presa. I personaggi - di più quelli comici, ma tutti - occhieggiano, gesticolano, commentano, scherzano verso la cinepresa. Non è un errore, un’infrazione a una grammatica cinematografica peraltro ancora “in fieri”. In Feuillade la macchina da presa, nella sua veste di autentica rappresentante del pubblico, condivide l’azione. Feuillade vuole che lo stesso pubblico partecipi, come se fosse seduto lì ad assistere (e quanti palcoscenici, teatro, tabarin, cinema, compaiono in “Les Vampires”!). Ora diteci, come si può non adorare un racconto così?

(Il Nuovo Friuli)

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