Werner Herzog
Sul masochismo dei distributori italiani rispetto ai titoli, si può sempre contare. Però aver voluto mantenere il titolo originale “My Son, My Son, What Have Ye Done” per l'ultimo (bellissimo) film di Werner Herzog sa di vera pervicacia nel farsi del male. Non che “Figlio mio, figlio mio, che cosa hai fatto” sarebbe stato un titolo da attrarre le folle (almeno nell'originale l'arcaico “Ye” annuncia il riferimento del film alla tragedia greca); nei panni del distributore, chi scrive si sarebbe inventato qualcosa sulla “casa dei fenicotteri”. E' qui che si matura la tragedia del film (un matricidio opera di un folle), raccontata in flashback mentre i poliziotti assediano la casa; quello dei fenicotteri è un motivo ossessivo che informa di sé tutta la casa di madre e figlio, fra statue, disegni, bicchieri, soprammobili, porte dipinte del garage, nonché due animali vivi – è come una versione pop/kitsch della casa di “Psycho”.
“My Son, My Son...” rappresenta il ritorno di Herzog a un cinema di fiction di alto livello dopo i deludenti “Invincibile” e “Il cattivo tenente”. Prodotto da David Lynch, aperto dal castello “David Lynch presents”, è il matrimonio fra l'aspirazione all'assoluto herzoghiana e la sospensione onirica lynchana. Un matrimonio singolarmente riuscito! Invero erano già lynchani ne “Il cattivo tenente” alcuni particolari, come il coccodrillo sulla strada: parente di molte ossessioni figurative herzoghiana, come le rane rosse che invadono il terreno in più di un suo film, ma fotografato in modo “splendente” alla Lynch. Però “My Son, My Son...” è molto di più; è una trasposizione di motivi narrativi e figurativi lynchani nelle vene di Herzog, come una trasfusione di sangue rivivificante. Da un lato si possono distinguere agevolmente nel film “momenti herzoghiani” e “momenti lynchani”; dall'altro essi si amalgamano in un arricchimento reciproco: verrebbe voglia di pensare ai due cineasti come coautori.
Il viso gelato di Brad (Michael Shannon in un'interpretazione monumentale) dà ai suoi deliri durante il viaggio in Perù una sfumatura epica – nota che il film è attraversato da una vena di perverso umorismo – e quando lui parla come un veggente sullo sfondo delle montagne realizza un'ennesima figura della galleria di pazzi di Herzog. Nella sua scena in un mercato peruviano (“Perché tutto il mondo mi sta guardando? Perché le montagne mi stanno guardando?”) la mdp lo abbandona per passare a riprendere con una sorta di fascino i volti rugosi vecchi peruviani sdentati - ma anche a nutrirsi vampirescamente della loro reazione all'essere filmati: ecco che il racconto si è trasformato in un autentico frammento di documentarismo herzoghiano.
Tornato Brad in America, la sua follia si sviluppa nel rapporto con una madre castratrice (non è un caso se nel ruolo della madre è stata scelta Grace Zabriskie), da cui non riesce a distoglierlo la sua ragazza (Chloë Sevigny). A chiusura dell'episodio della gelatina – un momento di grande imbarazzo a tre durante una cena in famiglia - c'è un momento assolutamente lynchano: sul filo dell'inquietante score musicale Brad, la madre e la fidanzata si immobilizzano in una posa classicamente centrata, come l'imitazione umana di un fermo immagine; ed è allo stesso tempo un commento metaforico alla loro situazione bloccata e un tableau astratto che sembra compendiare la scena congelandola nella dimensione dell'assoluto. E' purissimo Lynch la discussione fra i due poliziotti in macchina (Willem Dafoe e Michael Peña) in apertura; lo stesso si può dire della sublime inquadratura, più tardi, degli stessi due che avanzano cautamente verso il garage dove si è barricato Brad con gli “ostaggi”, mentre la mdp passa davanti a loro in un bizzarro carrello laterale.
Ma soprattutto il delirante racconto di un nano montato sul cavallo più piccolo del mondo, sconfitti entrambi da un gallo gigante più grande di loro, esprime appieno la sua natura lynchana quando si accompagna a un'inquadratura di tre personaggi immobili, un altro freeze frame umano; qui la centratura tipica di Lynch è decuplicata dall'incongrua presenza del nano del racconto (un nano è una figura anche herzoghiana, e basta ricordare il suo capolavoro “Anche i nani hanno cominciato da piccoli”; ma qui siamo in vero territorio Lynch). Tuttavia discutere le attribuzioni ideali di una scena o l'altra, benché interessante, non è un voler spartire le spoglie: perché il film rappresenta una felicissima congiunzione di autorialità il cui risultato è sempre unitario.
Questo tuffo in flashback nella follia - impagabile il viaggio all'allevamento di struzzi di zio Ted (Brad Dourif) - comprende il fallito tentativo di Brad come attore dilettante nella messa in scena di una tragedia greca (il regista è Udo Kier): questa naturalmente è un pastiche da Eschilo (“Coefore” ed “Eumenidi”) sull'uccisione di Clitemnestra da parte del figlio Oreste. La risonanza del testo classico instaura uno strano dialogo col carattere delirante e coll'ambientazione pop della tragedia americana; quando la follia di Brad incontra il mito greco si crea una serie di risonanze che, oltre ad ampliare il quadro sul piano diegetico, ne potenziano la drammaticità.
Giustamente l'atto concreto del matricidio che si compie nella villetta californiana delle vicine non è visto “in scena” ma arriva a noi narrato dalla vecchia vicina, esattamente come l'avvenimento sanguinoso avviene sempre fuori scena nella tragedia greca.
Ben servito da una score musicale eccezionale, nella quale ha parte importante la musica mariachi, “My Son, My Son...” è una tragedia della follia - e di un dolore universale e diffuso - che si dipana sullo schermo con allucinata convinzione e sconvolta, temeraria originalità.
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