domenica 19 maggio 2024

Custodi

Marco Rossitti

Se è vero che “Una rosa è una rosa è una rosa”, questo varrà ancor più per l’umile fiore di montagna, come i fiori e le erbe officinali che la giovane erborista della Val Resia raccoglie, in Custodi di Marco Rossitti, o come quelli che ammira la donna che fa ogni giorno una lunga camminata per raggiungere il rifugio dove lavora, presso la “Buca delle meraviglie” dove crescono fiori che non si vedono da nessun’altra parte.
All’inizio della carriera di Marco Rossitti c’è il bel cortometraggio Il liutâr, i cui due poli erano: il lavoro e il tempo. Molti anni dopo, sono questi i due poli di Custodi, una serie di ritratti di persone che lavorano nella natura e nella tradizione – filmate, dice il regista, solo dopo una lunga frequentazione.
Sono basilari per la riuscita del film il montaggio di Paolo Cottignola e la bellissima fotografia di Luciano Gaudenzio, che ci colpisce tanto nell’aspetto macro dei grandi panorami su cui scivolano le nuvole quanto nel dettaglio delle piante, negli spazi aperti e negli orti oltre che negli interni, restituendo una natura di cui fa ritrovare, a occhi cittadini, la bellezza. 
Inizialmente il film doveva intitolarsi – ha raccontato il regista in una presentazione – Custodi del territorio; ma giustamente è stato cambiato in Custodi, perché questi personaggi intervistati non sono semplicemente testimoni di un luogo, esempi di genius loci, anche se è vero che nel luogo si iscrive strettamente la loro attività: bensì di un fare che collegandosi al passato si incardina nel flusso non individuale della memoria. Se occorre una parola per indicare la loro attività, è continuità; occupano uno spazio ma si inseriscono (e la tengono viva) in una linea del tempo.
C’erano 60.000 ovini transumanti nell’Appennino reggiano, apprendiamo, e negli ultimi cinquant’anni sono scesi a 2000. Una tradizione millenaria che il giovane pastore in società con suo padre vuole proseguire e attualizzare. E’ il recupero del passato attraverso il lavoro che unisce le storie di questi personaggi, che si imprimono per sé nella memoria, come la donna cinese che si è trasferita da Shanghai alla montagna friulana (“E’ come una poesia per me”), o l'esperto di semi di granaglie della Val Venosta che per tutto il mondo cerca semi antichi per far rinascere le varietà. O magari una padrona di osteria inevitabilmente “bertolucciana”, che difende la tradizione del culatello invecchiato per due anni contro le richieste commerciali per un anno solo (“Finché ci sono io la cosa non cambia”). O il naturalista che fotografa i magredi del Collio, e qui il film sembra dilatarsi in un’affascinata digressione su questo raro biotopo, con bellissime immagini ravvicinate animali e vegetali (unico caso in cui Rossitti ha usato materiale di repertorio: ma di prima mano).
Una cosa che si nota subito in questi ritratti è il riferimento frequente ai nonni o ai padri: si ha bensì l’impressione che manchi un elemento mediano nella catena delle età, quello relativo alle “magnifiche sorti e progressive” del primo Duemila (e infatti vediamo più bambini che giovani adulti in queste piccole zone d’utopia). “I giovani non hanno più voglia di continuare questa cultura”, sentiamo in un’intervista; ed è molto importante, e morale, nel film il rimando alla fatica come valore da insegnare alle nuove generazioni – qualcosa che è andato perduto nel disastro assoluto della scuola.
Ho usato sopra la parola utopia, e c’è un senso di utopia in queste vite, senza mai dimenticare la concretezza (“La montagna è un ambiente che non regala niente”). Si intravede nel film un ottimismo di fondo rispetto al lavoro umano. La drammaticità però emerge nel penultimo capitolo sui pescatori della laguna, che fanno i conti con il declinare del pescato (mentre forme nuove “stranissime” appaiono nelle reti) e contestualmente dell’antica scienza dei vecchi, che ponevano le regole e le facevano rispettare. L'ultimo episodio parla della distruzione di bosco a causa di un fortunale, con la ripresa in drone che mostra le lunghe file di alberi distesi e il testimone – “custode” – si commuove parlando della tragedia. Ci vorranno centinaia di anni, dice, perché la natura possa recuperare. 
E’ decisamente un discorso ecologico quello del film. Ma nel senso del rispetto, amore e difesa della natura, nel quadro della tradizione; non nel senso consumistico, modaiolo e isterico amplificato oggi dai mass media e dalla stampa frufrù. La centralità del lavoro allontana il film da ipotesi di compiacimento bucolico.

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