Marco Rossitti
Se
è vero che “Una rosa è una rosa è una rosa”, questo varrà
ancor più per l’umile fiore di montagna, come i fiori e le erbe
officinali che la giovane erborista della Val Resia raccoglie, in
Custodi di Marco Rossitti, o come quelli che ammira la donna che fa
ogni giorno una lunga camminata per raggiungere il rifugio dove
lavora, presso la “Buca delle meraviglie” dove crescono fiori che
non si vedono da nessun’altra parte.
All’inizio
della carriera di Marco Rossitti c’è il bel cortometraggio Il
liutâr, i cui due poli erano: il lavoro e il tempo. Molti anni dopo,
sono questi i due poli di Custodi, una serie di ritratti di persone
che lavorano nella natura e nella tradizione – filmate, dice il
regista, solo dopo una lunga frequentazione.
Sono
basilari per la riuscita del film il montaggio di Paolo Cottignola e
la bellissima fotografia di Luciano Gaudenzio, che ci colpisce tanto
nell’aspetto macro dei grandi panorami su cui scivolano le nuvole
quanto nel dettaglio delle piante, negli spazi aperti e negli orti oltre che
negli interni, restituendo una natura di cui fa ritrovare, a occhi
cittadini, la bellezza.
Inizialmente
il film doveva intitolarsi – ha raccontato il regista in una
presentazione – Custodi del territorio; ma giustamente è stato
cambiato in Custodi, perché questi personaggi intervistati non sono
semplicemente testimoni di un luogo, esempi di genius loci, anche se
è vero che nel luogo si iscrive strettamente la loro attività:
bensì di un fare che collegandosi al passato si incardina nel flusso
non individuale della memoria. Se occorre una parola per indicare la
loro attività, è continuità; occupano uno spazio ma si inseriscono
(e la tengono viva) in una linea del tempo.
C’erano
60.000 ovini transumanti nell’Appennino reggiano, apprendiamo, e
negli ultimi cinquant’anni sono scesi a 2000. Una tradizione
millenaria che il giovane pastore in società con suo padre vuole
proseguire e attualizzare. E’ il recupero del passato attraverso il
lavoro che unisce le storie di questi personaggi, che si imprimono
per sé nella memoria, come la donna cinese che si è trasferita da
Shanghai alla montagna friulana (“E’ come una poesia per me”),
o l'esperto di semi di granaglie della Val Venosta che per tutto il
mondo cerca semi antichi per far rinascere le varietà. O magari una
padrona di osteria inevitabilmente “bertolucciana”, che difende
la tradizione del culatello invecchiato per due anni contro le
richieste commerciali per un anno solo (“Finché ci sono io la cosa
non cambia”). O il naturalista che fotografa i magredi del Collio,
e qui il film sembra dilatarsi in un’affascinata digressione su
questo raro biotopo,
con bellissime immagini ravvicinate animali e vegetali (unico caso in
cui Rossitti ha usato materiale di repertorio: ma di prima mano).
Una
cosa che si nota subito in questi ritratti è il riferimento
frequente ai nonni o ai padri: si ha bensì l’impressione che
manchi un elemento mediano nella catena delle età, quello relativo
alle “magnifiche sorti e progressive” del primo Duemila (e
infatti vediamo più bambini che giovani adulti in queste piccole zone
d’utopia). “I giovani non hanno più voglia di continuare questa
cultura”, sentiamo in un’intervista; ed è molto importante, e
morale, nel film il rimando alla fatica come valore da insegnare alle
nuove generazioni – qualcosa che è andato perduto nel disastro
assoluto della scuola.
Ho
usato sopra la parola utopia, e c’è un senso di utopia in queste
vite, senza mai dimenticare la concretezza (“La montagna è un
ambiente che non regala niente”). Si intravede
nel film un ottimismo di fondo rispetto al lavoro umano. La
drammaticità però emerge nel penultimo capitolo sui pescatori della
laguna, che fanno i conti con il declinare del pescato (mentre forme
nuove “stranissime” appaiono nelle reti) e contestualmente
dell’antica scienza dei vecchi, che ponevano le regole e le
facevano rispettare. L'ultimo episodio parla della distruzione di
bosco a causa di un fortunale, con la ripresa in drone che mostra le
lunghe file di alberi distesi e il testimone – “custode” – si
commuove parlando della tragedia. Ci vorranno centinaia di anni,
dice, perché la natura possa recuperare.
E’ decisamente un discorso ecologico quello del film. Ma nel senso del rispetto, amore e difesa della natura, nel quadro della tradizione; non nel senso consumistico, modaiolo e isterico amplificato oggi dai mass media e dalla stampa frufrù. La centralità del lavoro allontana il film da ipotesi di compiacimento bucolico.
Nessun commento:
Posta un commento