lunedì 27 maggio 2024

I dannati

Roberto Minervini

Il cinema di Roberto Minervini vuole sempre tracciare un ponte tra il documentario e la fiction, partendo ora da un capo, ora dall’altro: I dannati (The Damned: nel senso di condannati) è un film di fiction in costume, basicamente un western, girato in inglese. Tuttavia Minervini vi porta dentro tutta l’esperienza documentaristica: non solo nel senso dell’immediatezza del quotidiano, e dei visi, ma nella dimensione del tempo: che nel documentario, lo sappiamo, assume un valore particolare rispetto alla narratività.

Durante la guerra civile americana, una pattuglia dell’esercito nordista ha l’incarico (oscuro, come tutto è indefinito nel film al di là della quotidianità) di spingersi avanti nelle zone inesplorate del Nordovest. Facile vedere come questo ricalchi in piccolo una spinta, un drive, che sta alla base dell’intera civiltà americana. C’è una sorta di malinconica solennità nei gesti quotidiani della spedizione (il fuoco, il cibo, le tende, i turni di guardia), una solennità che nasce dalle cose di ogni giorno e che si eleva man mano che questo film partito dallo stretto realismo assume un tono metafisico. Le inquadrature, esasperando una modalità del cinema classico, spesso si concentrano sul primo piano tenendo lo sfondo fuori fuoco.

Nella narrazione ellittica del film, che si apre sull'immagine di lupi attorno a una carogna, entrano accenni misteriosi: “Dobbiamo tener duro... I nostri ci raggiungeranno, ci troveranno”. C'è un senso di attesa e di serpeggiante desolazione. Un nemico senza volto (tutto quel che capiamo è che sono uomini bianchi a cavallo, non inquadrati o non messi a fuoco) minaccia la pattuglia. La splendida scena del loro attacco è interamente focalizzata sui soldati: dei nemici si vedono solo i lampi delle fucilate. Minervini costruisce nel film immagini di memorabile drammaticità, come la silenziosa “sfilata” dei nemici intorno al soldato con le mani alzate, oppure il cavallo legato che cerca di liberarsi dopo il massacro.

L’unità si divide in segmenti quando dal grosso della pattuglia si staccano quattro esploratori che poi si dividono in due e due. Nella solitudine e nella disperazione, è naturale che gli uomini vogliano parlare di se stessi e di Dio, discutere in cupi dialoghi sulla guerra e il peccato (la religione è sempre stata un importante elemento di osservazione per Minervini). C’è un’ossessione dell’andare avanti (“Dove ci stai portando? - Non lo so”): un Moby Dick in cui i protagonisti non sanno più cosa cercano. Finisce con due sguardi fissati su un paesaggio gelato, una radura innevata tra gli alberi, e il bianco della neve sembra riportare quel concetto del bianco legato all’annientamento che è un’ossessione della cultura americana.








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