Anna Novion
C’è
un aspetto assai positivo nel piacevole Il teorema di Margherita,
coproduzione franco-svizzera di Anna Novion, ed è di saper destare
l’interesse (non diciamo la comprensione) dello spettatore per
l’alta matematica.
Dimostrare
la congettura di Goldbach è, apprendiamo, il Santo Graal dei
matematici; ed è il sogno di Marguerite, brillantissima dottoranda,
non un tipo semplice con cui trattare. Stimolata da un professore
opportunista – il film rende con intelligenza il sospetto inconscio
di quest’ultimo che la sua allieva sia più brillante di lui – si
produce davanti a una platea di giovani matematici come lei in una
dimostrazione pubblica che crede incontrovertibile, ma che viene
messa in crisi da un’obiezione del collega studente Lucas.
Marguerite abbandona rabbiosamente l’aula; il suo professore
opportunista la molla; lei molla l’università. Giura di non
occuparsi più di matematica, va ad abitare con una ballerina e per
sbarcare il lunario diventa una giocatrice professionista di mahjong
(delizioso: la matematica, uscita dalla porta, rientra dalla
finestra).
Un
punto di forza del film è la splendida interpretazione di Ella
Rumpf, fenomenale fin dalla scena iniziale dell’intervista (in
contrasto, il giovane Lucas, l’attore belga Daniel Frison, sembra un
po’ troppo normale – e con una carineria molto francese – per
essere del tutto credibile nel suo ruolo di vice-genio della
matematica). C’è in questa ragazza occhialuta, chiusa, tetragona,
una caratteristica che evidentemente unisce i grandi matematici ai
grandi artisti: una sorta di lucida monomania. Marguerite si è
chiusa all’esterno – a qualunque stimolo esterno che sia un po’
impegnativo, intendiamo, perché con l’amica Noa, che è il
contrario di lei, sta benissimo; già con la madre è più difficile.
Se poi parliamo del sesso, poi, non ci sono problemi con un giovane
che invero avrebbe dovuto interessarle come specimen, perché potrebbe essere
il peggior attore della storia del cinema francese. Ma non quando si
ipotizzano legami più profondi, e qui entra in gioco Lucas. In
effetti Marguerite è un po’ la valchiria di Wagner, serrata da una
barriera di calcoli invece che di fuoco. Siccome poi i film devono
avere l’happy end, a differenza della vita, alla fine la barriera
cadrà.
Contrariamente
a quel che si potrebbe pensare, è quando il film si allontana dalla
matematica che diventa, non diremo banale, ma meno interessante.
Tuttavia, per lo più è attratto dalla forza di gravità delle
enormi lavagne nere ricoperte di calcoli (grande il modo in cui
Marguerite risistema o devasta, dipende dai punti di vista, il suo
appartamento in affitto). Lavagne che non sono quelle dei fratelli
Coen in A Serious Man, ironica meditazione sull'incomprensibilità
del mondo, ma sono il terreno di un percorso di scoperta e
autoaffermazione.
La
cosa notevole è che questo percorso di autoaffermazione ci
appassiona anche se non comprendiamo lo sviluppo del lavoro (quando a
un certo punto lei ha un’illuminazione, grazie a un foglio
capovolto, la natura di quest’illuminazione ci resta oscura).
Dobbiamo fidarci sulla parola, e dire come il sagrestano portinaio in
Manzoni: “Basta! lei ne sa più di me”. E quando Marguerite alla
fine ottiene un classico trionfo all'americana, tutti noi spettatori
siamo felici – anche quelli fra noi che non distinguono una
sottrazione da una radice quadrata.
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