martedì 9 aprile 2024

Il teorema di Margherita

Anna Novion

C’è un aspetto assai positivo nel piacevole Il teorema di Margherita, coproduzione franco-svizzera di Anna Novion, ed è di saper destare l’interesse (non diciamo la comprensione) dello spettatore per l’alta matematica.
Dimostrare la congettura di Goldbach è, apprendiamo, il Santo Graal dei matematici; ed è il sogno di Marguerite, brillantissima dottoranda, non un tipo semplice con cui trattare. Stimolata da un professore opportunista – il film rende con intelligenza il sospetto inconscio di quest’ultimo che la sua allieva sia più brillante di lui – si produce davanti a una platea di giovani matematici come lei in una dimostrazione pubblica che crede incontrovertibile, ma che viene messa in crisi da un’obiezione del collega studente Lucas. Marguerite abbandona rabbiosamente l’aula; il suo professore opportunista la molla; lei molla l’università. Giura di non occuparsi più di matematica, va ad abitare con una ballerina e per sbarcare il lunario diventa una giocatrice professionista di mahjong (delizioso: la matematica, uscita dalla porta, rientra dalla finestra).
Un punto di forza del film è la splendida interpretazione di Ella Rumpf, fenomenale fin dalla scena iniziale dell’intervista (in contrasto, il giovane Lucas, l’attore belga Daniel Frison, sembra un po’ troppo normale – e con una carineria molto francese – per essere del tutto credibile nel suo ruolo di vice-genio della matematica). C’è in questa ragazza occhialuta, chiusa, tetragona, una caratteristica che evidentemente unisce i grandi matematici ai grandi artisti: una sorta di lucida monomania. Marguerite si è chiusa all’esterno – a qualunque stimolo esterno che sia un po’ impegnativo, intendiamo, perché con l’amica Noa, che è il contrario di lei, sta benissimo; già con la madre è più difficile. Se poi parliamo del sesso, poi, non ci sono problemi con un giovane che invero avrebbe dovuto interessarle come specimen, perché potrebbe essere il peggior attore della storia del cinema francese. Ma non quando si ipotizzano legami più profondi, e qui entra in gioco Lucas. In effetti Marguerite è un po’ la valchiria di Wagner, serrata da una barriera di calcoli invece che di fuoco. Siccome poi i film devono avere l’happy end, a differenza della vita, alla fine la barriera cadrà.
Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, è quando il film si allontana dalla matematica che diventa, non diremo banale, ma meno interessante. Tuttavia, per lo più è attratto dalla forza di gravità delle enormi lavagne nere ricoperte di calcoli (grande il modo in cui Marguerite risistema o devasta, dipende dai punti di vista, il suo appartamento in affitto). Lavagne che non sono quelle dei fratelli Coen in A Serious Man, ironica meditazione sull'incomprensibilità del mondo, ma sono il terreno di un percorso di scoperta e autoaffermazione.
La cosa notevole è che questo percorso di autoaffermazione ci appassiona anche se non comprendiamo lo sviluppo del lavoro (quando a un certo punto lei ha un’illuminazione, grazie a un foglio capovolto, la natura di quest’illuminazione ci resta oscura). Dobbiamo fidarci sulla parola, e dire come il sagrestano portinaio in Manzoni: “Basta! lei ne sa più di me”. E quando Marguerite alla fine ottiene un classico trionfo all'americana, tutti noi spettatori siamo felici – anche quelli fra noi che non distinguono una sottrazione da una radice quadrata.

Nessun commento: