Francesco Casetti nel recente,
bellissimo libro La Galassia Lumière
parla lungamente del “cinema espanso”, nel quale fa rientrare anche l’uso di
media a bassa definizione: webcam, cellulari e iPhone (qui val la pena di
menzionare lo splendido Night Fishing
di Park Chan-wook, Far East Film 2015), telecamere di sorveglianza e così via. Il
regista iraniano Jafar Panahi è stato condannato dal regime degli ayatollah a
non poter più girare film per vent’anni. Senza arrendersi, ha realizzato quelli
che potremmo chiamare film espansi di resistenza.
Dopo This Is Not a Film e Closed
Curtain, felicemente Taxi Teheran,
vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino, è uscito nelle sale. Panahi vi compare
come se stesso in veste di improbabile tassista (non conosce le strade e non si
fa pagare). Il suo taxi è dotato di una mdp digitale (in realtà tre Blackmagic
Design Pocket Cinema Camera), e un tetto apribile per la luce. E’ abilmente
montato da Panahi stesso, naturalmente, uncredited
come tutti giacché il film (informa un cartello finale) è privo dei credits in quanto non è stato approvato
dal Ministero per l’Orientamento Islamico. Siccome Panahi non ha il permesso di
viaggiare (tranne, è stato precisato, che per cure mediche o per il
pellegrinaggio alla Mecca…), il premio a Berlino è stato ritirato dalla
nipotina Hana, vera co-protagonista del film.
I passeggeri filmati, in
dialogo con Panahi, dipingono allo stesso tempo un quadro vivace della Teheran
contemporanea e un’illustrazione fulminante dello strano e del buffo che si
celano nella vita quotidiana. Un uomo difende la pena di morte per gli
scippatori e poi si rivela un borseggiatore, che disprezza questa specie di
semiprofessionisti. La vittima di un incidente, portato all’ospedale mentre la
moglie piangente lo tiene in grembo, fa un testamento video su un telefonino in
prestoto, a favore di lei che altrimenti non potrebbe ereditare (grande battuta
tragicomica: “Basta piangere, se piangi le mie parole non si capiscono”). Due indimenticabili
vecchie signore con una vasca di pesci rossi concretizzano da sole un surreale film
in nuce. Uno spacciatore di dvd
illegali, conoscente del regista, svela subito il gioco: “Crede che non mi sia
accorto che tutto quello che è successo in macchina era una messinscena, eh?
Grande!”
Perché Taxi Teheran non è registrazione bruta
(nel qual caso il suo interesse non andrebbe oltre la solidarietà col regista).
Il film di Panahi si basa su un doppio movimento. Da un lato mette in questione
lo statuto dello sguardo (chi filma?); dall’altro lo statuto di realtà
dell’immagine: sono attori o personaggi? “documentario” o “finzione”? Il film
ci gioca sopra, con attori non professionisti (una costante di Panahi, ma qui
una necessità sia artistica sia politica) che fanno le “persone normali” e “persone
normali” (la nipotina, l’avvocatessa) che recitando se stesse fanno gli attori
non professionisti, finché i due status si confondono: il che corrisponde
esattamente al progetto dell’autore.
Sembra proprio un
incontro per caso quello con l’avvocatessa che difende una ragazza arrestata
per aver voluto entrare in uno stadio di pallavolo maschile, cosa illegale in
Iran (e qui la realtà ricalca un film di Panahi, Offside). Ci vorrebbe un libro per districare tutte queste
contraddizioni ma, a parte il fatto che sarebbe un libro noiosissimo, a Panahi
importa appunto che siano inestricabili. Il suo realismo si basa proprio sul
muoversi in questa zona intermedia: e Panahi ben conosce (vogliamo far rabbrividire
qualche fisico?) quel principio di indeterminazione del cinema per cui la
registrazione cambia la natura di ciò che è registrato.
Ecco allora che il film,
partendo da questa costruzione “ontologica”, mette in scena un’affascinante
riflessione sul concetto di realtà. Intrecciato ad essa c’è un discorso
politico – che non è espresso in forma di manifesto bensì anch’esso come
riflessione satirica sul filmare. Questo discorso si materializza
esplicitamente nel dialogo col personaggio centrale della nipotina Hana, una
ragazzina spiritosissima che si autodefinisce “una signorina beneducata e di
alto livello culturale”. Cinecamera in mano, Hana deve girare un breve film come
compito per la scuola e interroga lo zio illustre regista sul concetto di
realtà e sulla censura, ovvero il cinema “distribuibile” e “non distribuibile”.
Quando enumera le regole dettate dalla maestra in proposito, ne risulta una pagina
degna di uno Swift del XXI secolo (i personaggi positivi non possono portare la
cravatta ed è consigliabile usare per loro i nomi dei profeti).
Ma, di nuovo, il
divertimento immediato si rovescia in una riflessione seria sul reale, prima
attraverso la storia dell’amico di Panahi con la cravatta, poi col fallimento
di un episodio edificante che Hana cerca di girare; e il discorso precipita
sulla questione che investe tutto il cinema di Panahi: cos’è la realtà, cosa
vuol dire filmare? Taxi Teheran è una
lezione di moralità cinematografica; e qui si può citare un passaggio che
assume un valore metaforico, quando alla nipote che tiene un quaderno in una
mano e la mdp nell’altra Panahi sbotta: “Che fai, riprendi o leggi?!” Questa, i
critici dei Cahiers du cinéma dell’epoca
d’oro, Truffaut, Godard eccetera, l’avrebbero immediatamente capita - e
sottoscritta.
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