giovedì 3 settembre 2015

Taxi Teheran

Jafar Panahi


Francesco Casetti nel recente, bellissimo libro La Galassia Lumière parla lungamente del “cinema espanso”, nel quale fa rientrare anche l’uso di media a bassa definizione: webcam, cellulari e iPhone (qui val la pena di menzionare lo splendido Night Fishing di Park Chan-wook, Far East Film 2015), telecamere di sorveglianza e così via. Il regista iraniano Jafar Panahi è stato condannato dal regime degli ayatollah a non poter più girare film per vent’anni. Senza arrendersi, ha realizzato quelli che potremmo chiamare film espansi di resistenza.
Dopo This Is Not a Film e Closed Curtain, felicemente Taxi Teheran, vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino, è uscito nelle sale. Panahi vi compare come se stesso in veste di improbabile tassista (non conosce le strade e non si fa pagare). Il suo taxi è dotato di una mdp digitale (in realtà tre Blackmagic Design Pocket Cinema Camera), e un tetto apribile per la luce. E’ abilmente montato da Panahi stesso, naturalmente, uncredited come tutti giacché il film (informa un cartello finale) è privo dei credits in quanto non è stato approvato dal Ministero per l’Orientamento Islamico. Siccome Panahi non ha il permesso di viaggiare (tranne, è stato precisato, che per cure mediche o per il pellegrinaggio alla Mecca…), il premio a Berlino è stato ritirato dalla nipotina Hana, vera co-protagonista del film.
I passeggeri filmati, in dialogo con Panahi, dipingono allo stesso tempo un quadro vivace della Teheran contemporanea e un’illustrazione fulminante dello strano e del buffo che si celano nella vita quotidiana. Un uomo difende la pena di morte per gli scippatori e poi si rivela un borseggiatore, che disprezza questa specie di semiprofessionisti. La vittima di un incidente, portato all’ospedale mentre la moglie piangente lo tiene in grembo, fa un testamento video su un telefonino in prestoto, a favore di lei che altrimenti non potrebbe ereditare (grande battuta tragicomica: “Basta piangere, se piangi le mie parole non si capiscono”). Due indimenticabili vecchie signore con una vasca di pesci rossi concretizzano da sole un surreale film in nuce. Uno spacciatore di dvd illegali, conoscente del regista, svela subito il gioco: “Crede che non mi sia accorto che tutto quello che è successo in macchina era una messinscena, eh? Grande!”
Perché Taxi Teheran non è registrazione bruta (nel qual caso il suo interesse non andrebbe oltre la solidarietà col regista). Il film di Panahi si basa su un doppio movimento. Da un lato mette in questione lo statuto dello sguardo (chi filma?); dall’altro lo statuto di realtà dell’immagine: sono attori o personaggi? “documentario” o “finzione”? Il film ci gioca sopra, con attori non professionisti (una costante di Panahi, ma qui una necessità sia artistica sia politica) che fanno le “persone normali” e “persone normali” (la nipotina, l’avvocatessa) che recitando se stesse fanno gli attori non professionisti, finché i due status si confondono: il che corrisponde esattamente al progetto dell’autore.
Sembra proprio un incontro per caso quello con l’avvocatessa che difende una ragazza arrestata per aver voluto entrare in uno stadio di pallavolo maschile, cosa illegale in Iran (e qui la realtà ricalca un film di Panahi, Offside). Ci vorrebbe un libro per districare tutte queste contraddizioni ma, a parte il fatto che sarebbe un libro noiosissimo, a Panahi importa appunto che siano inestricabili. Il suo realismo si basa proprio sul muoversi in questa zona intermedia: e Panahi ben conosce (vogliamo far rabbrividire qualche fisico?) quel principio di indeterminazione del cinema per cui la registrazione cambia la natura di ciò che è registrato.
Ecco allora che il film, partendo da questa costruzione “ontologica”, mette in scena un’affascinante riflessione sul concetto di realtà. Intrecciato ad essa c’è un discorso politico – che non è espresso in forma di manifesto bensì anch’esso come riflessione satirica sul filmare. Questo discorso si materializza esplicitamente nel dialogo col personaggio centrale della nipotina Hana, una ragazzina spiritosissima che si autodefinisce “una signorina beneducata e di alto livello culturale”. Cinecamera in mano, Hana deve girare un breve film come compito per la scuola e interroga lo zio illustre regista sul concetto di realtà e sulla censura, ovvero il cinema “distribuibile” e “non distribuibile”. Quando enumera le regole dettate dalla maestra in proposito, ne risulta una pagina degna di uno Swift del XXI secolo (i personaggi positivi non possono portare la cravatta ed è consigliabile usare per loro i nomi dei profeti).
Ma, di nuovo, il divertimento immediato si rovescia in una riflessione seria sul reale, prima attraverso la storia dell’amico di Panahi con la cravatta, poi col fallimento di un episodio edificante che Hana cerca di girare; e il discorso precipita sulla questione che investe tutto il cinema di Panahi: cos’è la realtà, cosa vuol dire filmare? Taxi Teheran è una lezione di moralità cinematografica; e qui si può citare un passaggio che assume un valore metaforico, quando alla nipote che tiene un quaderno in una mano e la mdp nell’altra Panahi sbotta: “Che fai, riprendi o leggi?!” Questa, i critici dei Cahiers du cinéma dell’epoca d’oro, Truffaut, Godard eccetera, l’avrebbero immediatamente capita - e sottoscritta.

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