giovedì 20 agosto 2015

Tokyo Tribe

Sono Sion


Uno dei grandi del cinema giapponese d’oggi è Sono Sion – ben noto ai frequentatori del Far East Film di Udine, che nel 2009 ha presentato in un pomeriggio il suo capolavoro di quattro ore, vera enciclopedia cinematografica dell’amore, Love Exposure (un tocco di gossip: l’anno prima il festival udinese aveva cercato fino all’ultimo di invitare il suo magnifico horror Exte: Hair Extensions, che nonostante le insistenze non fu concesso dalla casa produttrice).
Sono Sion, di cui non si può certo dire che non ami le sfide, si è cimentato l’anno scorso con la mission impossible del primo musical hip hop. E ora la Tucker Film ha acquistato Tokyo Tribe, in vista della distribuzione televisiva e home video, sottotitolato in italiano, e lo presenta in anteprima sul grande schermo in alcune situazioni festivaliere (e al Visionario di Udine il 15 agosto). Per inciso, la presente recensione si basa su una precedente visione nella versione internazionale coi sottotitoli inglesi, in una traduzione che non è semplicemente bella: è poesia.
Epica della lotta fra bande in una Tokyo futuristica, Tokyo Tribe è la confluenza di due direttrici. Da un lato Sono (anche sceneggiatore) riprende la classica formula della guerra per il territorio, amata nel cinema orientale anche più che in quello occidentale (ricordiamo il recente film taiwanese Monga), utilizzando il cinema di arti marziali e il chanbara, e riproducendo tutta la costruzione retorica del sottogenere (non a caso una delle prime parole che sentiamo nel film è loneliness). Naturalmente esistono già esempi di versione musicale del tema. Dall'altro lato, Sono vi porta l'hip hop (costellato di citazioni musicali che si allargano fino a Beethoven e al valzer): l'idea innovativa è di impiegarlo nella forma “operistica” del musical assoluto – e non solo come componente musicale di un sviluppo drammatico. E’ un azzardo, ma risulta vincente. Il suo ritmo sincopato, con la sua caratteristica discorsiva, provvede un tessuto sonoro sorprendentemente continuo.
C'è una figura di cantante rap che fa da coro greco con interpellazione agli spettatori (poi vediamo che partecipa anche all'azione battendosi), ma tutto l'impianto del film mira a instaurare un contatto diretto. L'elemento aggressivo presente nell'hip hop (il battling di cui è un esempio famoso 8 Mile) si collega assai bene al tema della rivalità che attraversa il film. Nella sequenza iniziale, il primo colpo nella rissa che scoppia è, come movimento, già coreografia di breakdance, e infatti ne anticipa l’evoluzione. Il terremoto, che ritorna più volte, ha un senso sia reale sia simbolico (enunciato nei testi: “Tokyo shakes”); e questa identificazione delle forze cosmiche e telluriche con i fatti umani si può fare pressoché solo nel musical, che sottomette l'intero ordine delle cose al balletto; quindi il musical è la massima espressione (più che il fantastico o il catastrofico) della volontà di potenza della narrazione cinematografica.
Tokyo Tribe si svolge in quel panorama post-apocalittico (dove l’apocalissi è il crollo della civiltà, quale che ne sia la causa) che è nato da Blade Runner e Mad Max ma è diventato uno degli scenari base del manga e dell’anime (il film è appunto tratto da un manga). Il super-Kitsch degli oggetti (l'auto coi candelabri, l'elmo da samurai coi lustrini) e il feticismo dei costumi nel film rientrano in quella forma di “barocco malato” che caratterizza questi mondi con la presenza dei simulacri di una raffinatezza mezzo evocata mezzo parodiata (che ritorna anche nell’ultimo, importante Mad Max del 2015).
Connessa a questa temperie apocalittica è la caratterizzazione dei villains in termini di bizzarria mostruosa. Qui è memorabile Lord Buppa, interpretato da Takeuchi Riki nella tradizione “eccessiva” del cinema giapponese (e dei manga e degli anime, naturalmente); rispetto alla quale salta in mente il nome di Miike Takashi: un personaggio come Ichi the Killer potrebbe ben appartenere a questo film per la sua carica di follia - sebbene non per una sua certa sgradevolezza che qui non può esistere, perché siamo in un musical e tutto dev'essere glossy, anche le figure più crudeli e le peggiori azioni.
Dunque il principio ispiratore a livello figurativo è quello del bizzarro, di cui un'incarnazione memorabile sono gli uomini-mobili (che fanno pensare a una reminiscenza del grande scrittore giapponese Edogawa Rampo): non solo per il concetto in sé ma per l'idea geniale di farli passare, a un certo punto, da mobilio a combattenti al servizio del loro padrone, in una nuvola di cipria. In questo universo che potremmo definire di “degrado scintillante”, il feticismo erotico e il sadomasochismo giocano per forza un ruolo fondamentale. In una sequenza fra le più belle del film, la lista (vien da dire, l'illustrazione turistica) dei territori delle bande di Tokyo a ritmo di hip hop viene enunciata da un gangster toccando con la punta del coltello il corpo nudo di una poliziotta prigioniera – e per lei diventa quasi un orgasmo.
E' un mondo nichilista, dove il simbolo del Tao diventa la porta di un bordello, la polizia si fa complice per quieto vivere e i politici sono sbeffeggiati più di tutti (il Literal Demagogic Party del film ovviamente è un'allusione al Liberal Democratic Party, che attualmente esprime il primo ministro Abe Shinzo). Questo tocco di satira politica è solo un aspetto dell'umorismo perverso che attraversa il film. Superbo lo High Priest che appare (in videomessaggio) solenne, coi classici paramenti cinesi che conosciamo dai wuxiapian – e appena comincia a parlare si butta in un gangsta rap del tipo più brutale. Superba la masturbazione di Lord Buppa con un cazzo finto, che in un'altra scena si fa accarezzare da una bellona. Buffissima la controversia finale sulla grandezza dell’uccello, che fa discendere tutta o quasi tutta la guerra da quel concetto che in occidente definiamo con l’espressione “Chi ce l'ha più lungo?” – né manca nel finale la contrapposizione retorica fra dick e heart, che col suo riferirsi esplicitamente alle dimensioni cala un tocco di ironia (appunto per il suo parallelismo azzardato) sulla classica teorizzazione moralistica finale. 

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