In
Romania il parastas è il rito funebre
cristiano ortodosso, che vediamo in Sieranevada
di Cristi Puiu. Su questo rito la famiglia del film innesta una tradizione
valacca: a quaranta giorni dalla morte – a sancire la fine del periodo
traumatico della perdita e il momento del “congedo” – il più giovane della famiglia indossa un vestito simbolicamente appartenente al morto (anche se
comprato apposta) e benedetto dal pope; si siede al banchetto funebre accolto
con solenni espressioni di benvenuto; è insieme il rappresentante del defunto e,
come se stesso, il pegno della continuità.
Nel
superbo film di Puiu, una sorta di acida commedia drammatica che dura quasi tre
ore (ma passano come un lampo), il defunto è il capofamiglia Emil, e la madre,
le zie, i figli, i generi e le nuore, i nipoti si riuniscono per il rito e per
il pranzo. Il protagonista, il barbuto e quieto Lary, uno dei figli, va alla riunione familiare con la sua nervosa moglie. Ma questo pranzo solenne è
atteso e rimandato per tutto il film. In primo luogo, il pope non arriva mai, e
nell’attesa di questo prete-Godot si sviluppa il nervosismo (e anche la fame,
come ben sa chi si sia trovato in situazioni simili). Poi il vestito per il giovane è grottescamente sbagliato di misura, e va aggiustato. Sul tutto si
abbatte un vortice di litigi, recriminazioni, isterismo e pianti. Non aiutano, anzi!,
un paio di intromissioni: il marito prepotente e cornificatore di una delle
zie, che piomba in casa (esilarante quando la rabbia spinge la moglie a un
linguaggio che scandalizza tutti), e una straniera sconosciuta, ubriaca
fradicia o drogata, che viene portata dalla nipote più squinternata e rimane
come un cadavere vivente in una camera, inondandola regolarmente di vomito. Il
caos familiare si sviluppa a velocità incredibile: è la vita accelerata, come
una comica muta proiettata al passo sbagliato d’un tempo. Tutti i personaggi
sono concreti come se stessero per uscire dallo schermo – e ciascuno a suo modo
non manca di far risuonare nello spettatore ricordi di conoscenza o di
parentela.
Questo
nervosismo familiare va in scena nell’appartamento della madre, affollatissimo,
nel quale si svolge quasi per intero il film. Qui Cristi Puiu mette in atto una
magnifica organizzazione “aperta” dello spazio. I piani sequenza sono
attraversati dai movimenti di una mdp nervosa e vagante che segue gli
spostamenti dei personaggi (col protagonista come filo conduttore) realizzando coi
suoi salti di interesse una sorta di teatro mobile; mentre aperture di porte, chiusure
e sbattimenti delle stesse modificano lo spazio in un modo che farebbe quasi pensare
agli shoji del cinema giapponese.
Il
senso di affollamento è enunciato già nella sequenza pre-titoli – che si svolge
all’aperto! Ma l’inquadratura stretta, l’ammassamento di auto, la presenza non
casuale di uno scavo di lavori in corso col suo ovvio effetto sull’intasamento del
traffico, tutto ciò crea un senso di chiusura soffocante, ampliato nella
sequenza da una prevalenza stridula e aggressiva dei rumori urbani, che
arrivano a coprire e soffocare le battute di dialogo. Chiusura, confusione, rumore. E' un paese coi nervi
tesi – sia per la strada (l’incidente del parcheggio, nella seconda e ultima scena
all’esterno) sia in questa grande famiglia, che del paese rappresenta il
rispecchiamento come microcosmo.
Tutti coi nervi tesi, anche l’apparentemente calmo protagonista: anzi, la prima
esplosione di rabbia è sua.
Nella
scena d’apertura sopra citata è particolarmente importante l’elemento (tutt’altro
che solo scenografico) dei lavori in
corso. Nella Romania
di Sieranevada vediamo un paese in
ristrutturazione – ma questo, che in un altro panorama simbolico potrebbe
alludere a un miglioramento o a una sorta di soluzione, qui somiglia piuttosto
a un moto perpetuo. L’incompiutezza – la stasi – è il senso stesso del film.
Ciò
vale in particolare per il rito che dovrebbe accompagnare al paradiso l’anima del
morto Emil. Perché qui parliamo né più né meno di elaborazione del lutto. Ma
nella Romania di Cristi Puiu il lutto non viene elaborato; il passato non
passa, rimane come un groppo in gola, o un bolo di cibo che non si riesce né a
respingere né a mandar giù. Vale per tutti gli articolati livelli del film. Vale
per la memoria storica del comunismo, da Ana Pauker a Ceausescu, che innesta
furibondi litigi fra la vecchia zia Evelina, ex attivista, ancora comunista
convinta, e la giovane nipote Sandra, anticomunista e religiosissima (nonché
antisemita). Vale a livello più personale per i litigi gli scontri i tradimenti
e le verità non dette di questa grande famiglia.
Parliamo
di un blocco e di una stasi, ed ecco allora il punto centrale: proprio il rito,
la comparsa al banchetto del figlio più giovane nell’abito del morto, quello che
dovrebbe sancire definitivamente la dipartita di Emil e così segnare un
rinnovamento – un punto da cui ripartire – viene preparato lungo tutto il film
ma non viene effettuato. Ovvero: continuamente atteso e interrotto, viene effettuato
alla fine in forme ridicole e autoparodistiche (vedi l’incidente del vestito
della misura sbagliata, ma soprattutto lo scambio di battute finali).
La
critica ha citato giustamente Beckett e Buñuel; a questi nomi indubitabili mi
sentirei di aggiungere il Tati di Play
Time; ma soprattutto mi sembra giusto richiamare quell’elemento allegorico
presente con forza sotto il realismo della messa in scena nelle varie nouvelles vagues est-europee (vedi per
esempio La festa e gli invitati di
Jan Nemec).
Non
per nulla un dibattito attraversa tutto il film: il concetto di verità, che
Cristi Puiu materializza ironicamente nelle scemenze cospirazioniste post-11
Settembre, ma che va al di là, dando al film la sua forma filosofica generale. Ovviamente
questo non è direttamente legato alla temperie politica dell’Est europeo, ma
non è inutile ricordare che il comunismo portò una vera guerra al concetto
stesso di verità (Nel paese della grande
menzogna è il titolo rivelatore di un vecchio libro di Ante Ciliga
sull’URSS staliniana).
Di
fronte al blocco politico ed esistenziale che non passa, che stende
nascostamente la sua angoscia su tutto, come può porsi il protagonista? Il
prete ortodosso del film accenna, ma solo per liquidarla come tentazione
diabolica, all’ipotesi che l’umanità sia perduta (in termini cristiani: che il
secondo avvento di Gesù sia già avvenuto e nessuno se ne sia accorto). Il laico
Lary (dettaglio interessante, un medico che ha lasciato la medicina) coi suoi
fratelli dà una risposta diversa. Alla fine del film il pranzo è servito – ma per
l’ennesima volta è interrotto. Però Lary e suo fratello, raggiunti subito dal nipote che rappresenta il defunto, rifiutano di alzarsi da tavola per
l’ultimo inconveniente – e ridono.
Forse
ridere è l’unica risposta possibile alla disperante confusione del paese, o del vivere.
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