domenica 11 giugno 2017

Sieranevada

Cristi Puiu



In Romania il parastas è il rito funebre cristiano ortodosso, che vediamo in Sieranevada di Cristi Puiu. Su questo rito la famiglia del film innesta una tradizione valacca: a quaranta giorni dalla morte – a sancire la fine del periodo traumatico della perdita e il momento del “congedo” – il più giovane della famiglia indossa un vestito simbolicamente appartenente al morto (anche se comprato apposta) e benedetto dal pope; si siede al banchetto funebre accolto con solenni espressioni di benvenuto; è insieme il rappresentante del defunto e, come se stesso, il pegno della continuità.
Nel superbo film di Puiu, una sorta di acida commedia drammatica che dura quasi tre ore (ma passano come un lampo), il defunto è il capofamiglia Emil, e la madre, le zie, i figli, i generi e le nuore, i nipoti si riuniscono per il rito e per il pranzo. Il protagonista, il barbuto e quieto Lary, uno dei figli, va alla riunione familiare con la sua nervosa moglie. Ma questo pranzo solenne è atteso e rimandato per tutto il film. In primo luogo, il pope non arriva mai, e nell’attesa di questo prete-Godot si sviluppa il nervosismo (e anche la fame, come ben sa chi si sia trovato in situazioni simili). Poi il vestito per il giovane è grottescamente sbagliato di misura, e va aggiustato. Sul tutto si abbatte un vortice di litigi, recriminazioni, isterismo e pianti. Non aiutano, anzi!, un paio di intromissioni: il marito prepotente e cornificatore di una delle zie, che piomba in casa (esilarante quando la rabbia spinge la moglie a un linguaggio che scandalizza tutti), e una straniera sconosciuta, ubriaca fradicia o drogata, che viene portata dalla nipote più squinternata e rimane come un cadavere vivente in una camera, inondandola regolarmente di vomito. Il caos familiare si sviluppa a velocità incredibile: è la vita accelerata, come una comica muta proiettata al passo sbagliato d’un tempo. Tutti i personaggi sono concreti come se stessero per uscire dallo schermo – e ciascuno a suo modo non manca di far risuonare nello spettatore ricordi di conoscenza o di parentela.
Questo nervosismo familiare va in scena nell’appartamento della madre, affollatissimo, nel quale si svolge quasi per intero il film. Qui Cristi Puiu mette in atto una magnifica organizzazione “aperta” dello spazio. I piani sequenza sono attraversati dai movimenti di una mdp nervosa e vagante che segue gli spostamenti dei personaggi (col protagonista come filo conduttore) realizzando coi suoi salti di interesse una sorta di teatro mobile; mentre aperture di porte, chiusure e sbattimenti delle stesse modificano lo spazio in un modo che farebbe quasi pensare agli shoji del cinema giapponese.
Il senso di affollamento è enunciato già nella sequenza pre-titoli – che si svolge all’aperto! Ma l’inquadratura stretta, l’ammassamento di auto, la presenza non casuale di uno scavo di lavori in corso col suo ovvio effetto sull’intasamento del traffico, tutto ciò crea un senso di chiusura soffocante, ampliato nella sequenza da una prevalenza stridula e aggressiva dei rumori urbani, che arrivano a coprire e soffocare le battute di dialogo. Chiusura, confusione, rumore. E' un paese coi nervi tesi – sia per la strada (l’incidente del parcheggio, nella seconda e ultima scena all’esterno) sia in questa grande famiglia, che del paese rappresenta il rispecchiamento come microcosmo. Tutti coi nervi tesi, anche l’apparentemente calmo protagonista: anzi, la prima esplosione di rabbia è sua.
Nella scena d’apertura sopra citata è particolarmente importante l’elemento (tutt’altro che solo scenografico) dei lavori in  corso. Nella Romania di Sieranevada vediamo un paese in ristrutturazione – ma questo, che in un altro panorama simbolico potrebbe alludere a un miglioramento o a una sorta di soluzione, qui somiglia piuttosto a un moto perpetuo. L’incompiutezza – la stasi – è il senso stesso del film.
Ciò vale in particolare per il rito che dovrebbe accompagnare al paradiso l’anima del morto Emil. Perché qui parliamo né più né meno di elaborazione del lutto. Ma nella Romania di Cristi Puiu il lutto non viene elaborato; il passato non passa, rimane come un groppo in gola, o un bolo di cibo che non si riesce né a respingere né a mandar giù. Vale per tutti gli articolati livelli del film. Vale per la memoria storica del comunismo, da Ana Pauker a Ceausescu, che innesta furibondi litigi fra la vecchia zia Evelina, ex attivista, ancora comunista convinta, e la giovane nipote Sandra, anticomunista e religiosissima (nonché antisemita). Vale a livello più personale per i litigi gli scontri i tradimenti e le verità non dette di questa grande famiglia.
Parliamo di un blocco e di una stasi, ed ecco allora il punto centrale: proprio il rito, la comparsa al banchetto del figlio più giovane nell’abito del morto, quello che dovrebbe sancire definitivamente la dipartita di Emil e così segnare un rinnovamento – un punto da cui ripartire – viene preparato lungo tutto il film ma non viene effettuato. Ovvero: continuamente atteso e interrotto, viene effettuato alla fine in forme ridicole e autoparodistiche (vedi l’incidente del vestito della misura sbagliata, ma soprattutto lo scambio di battute finali).
La critica ha citato giustamente Beckett e Buñuel; a questi nomi indubitabili mi sentirei di aggiungere il Tati di Play Time; ma soprattutto mi sembra giusto richiamare quell’elemento allegorico presente con forza sotto il realismo della messa in scena nelle varie nouvelles vagues est-europee (vedi per esempio La festa e gli invitati di Jan Nemec).
Non per nulla un dibattito attraversa tutto il film: il concetto di verità, che Cristi Puiu materializza ironicamente nelle scemenze cospirazioniste post-11 Settembre, ma che va al di là, dando al film la sua forma filosofica generale. Ovviamente questo non è direttamente legato alla temperie politica dell’Est europeo, ma non è inutile ricordare che il comunismo portò una vera guerra al concetto stesso di verità (Nel paese della grande menzogna è il titolo rivelatore di un vecchio libro di Ante Ciliga sull’URSS staliniana).
Di fronte al blocco politico ed esistenziale che non passa, che stende nascostamente la sua angoscia su tutto, come può porsi il protagonista? Il prete ortodosso del film accenna, ma solo per liquidarla come tentazione diabolica, all’ipotesi che l’umanità sia perduta (in termini cristiani: che il secondo avvento di Gesù sia già avvenuto e nessuno se ne sia accorto). Il laico Lary (dettaglio interessante, un medico che ha lasciato la medicina) coi suoi fratelli dà una risposta diversa. Alla fine del film il pranzo è servito – ma per l’ennesima volta è interrotto. Però Lary e suo fratello, raggiunti subito dal nipote che rappresenta il defunto, rifiutano di alzarsi da tavola per l’ultimo inconveniente – e ridono.
Forse ridere è l’unica risposta possibile alla disperante confusione del paese, o del vivere.

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