Il
Jolly Roger, la bandiera nera dei pirati, sventola sul castello fatato del logo
della Disney, nella penombra della sera: uno degli esempi più divertenti dell’usanza
invalsa nel cinema d’oggi (non priva però di esempi anteriori) per cui il logo
delle case di produzione si trasforma in un’anticipazione del film; e il film è
Pirati dei Caraibi – La maledizione di
Salazar, di Joachim Rønning ed Espen Sandberg, quinto episodio della
bellissima saga.
Dopo
la trilogia iniziale di Gore Verbinski la serie è passata in mano ad altri
registi, prima Rob Marshall e ora il duo scandinavo; si può osservare che l’episodio
di Marshall (Oltre i confini del mare)
era un po’ “laterale” sul piano dei personaggi, mentre il presente film è una
vera rentrée. Non è un grande spoiler
se scrivo che per vie traverse ritornano Will Turner (Orlando Bloom) ed
Elizabeth Swann (Keira Knightley), assenti nel quarto film, e la maledizione
che li tiene lontani si risolve. Si può osservare per inciso che la loro
separazione ventennale nel corso della serie porta in primo piano quella
malinconia che attraversa tutta la saga sotto le sue fanfaronnades: in questo senso, e fatta salva ovviamente la
differenza a livello artistico, Pirati
dei Caraibi è un ciclo perfettamente ariostesco.
Pur
con il dovuto omaggio a Javier Bardem (Salazar), che è un grande anche quando la CGI lo trasforma in un morto
vivente, il migliore in campo resta Geoffrey Rush, un Capitan Barbossa delizioso
e in parte inedito. L’enfasi sui figli ne La
vendetta di Salazar sembra rappresentare anche un passaggio generazionale,
benché non confermato sul puro piano del plot. Gli eroi sono stanchi.
Meno
romanticismo e più buffoneria è la scelta della sceneggiatura di Jeff
Nathanson, basata su una storia sua e di Terry Rossio (scompare con questo
episodio la collaborazione Ted Elliot-Terry Rossio, sceneggiatori dei primi
film). Sono gustosissime la sequenza iniziale della “banca in fuga” (contenente
un riferimento forse non casuale a Corsari
di Renny Harlin) e ancor più la folle sequenza su Jack Sparrow e la
ghigliottina. Va sottolineato come il film metta in atto una vera e propria diminutio della figura di Jack Sparrow. Nonostante
la grande apparizione iniziale, lo vediamo in rovina: praticamente alcolizzato,
abbandonato dalla sua ciurma (che gli rimprovera di aver perso la sua
proverbiale fortuna), ridotto a una mummia di fango dopo essere cascato,
ubriaco, in un porcile – e nella stessa scena disposto a barattare la famosa
bussola dei desideri per una misera bottiglia. Segue una risalita, certo, ma Jack
Sparrow non torna mai pienamente ad essere il più flamboyant dei pirati quale lo conoscevamo. Sarebbe interessante
chiedersi se e quanto c’entri la condizione di declino espressa nel racconto,
ma Johnny Depp – che pure, si sa, ama il personaggio – lo interpreta stavolta
un po’ stancamente. Si potrebbe dire paradossalmente che il momento più eroico
di Sparrow nel film è quello senza Depp: intendo la bella pagina delle
“origini” di Jack Sparrow, ragazzo giovanissimo, che vediamo in flashback. I
tributi che la ciurma gli offre dopo la vittoria, per cui vediamo nascere
l’immagine grafica del personaggio, hanno una solennità particolare,
rappresentando la sua vestizione –
qualcosa che nell’epica data fin dalle armi di Achille.
Pur
coi nuovi registi e sceneggiatori, La
vendetta di Salazar si inserisce bene nella serie. Il dialogo è sempre
spiritoso, con la confusione verbale dei pirati sul ruolo di Carina Smyth (Katya
Scodellaro, new entry accanto a
Brenton Thwaites) che produce passaggi di buona comedy; e con piacere vediamo ritornare, benché non così frequenti,
quei fiori di retorica piratesca che caratterizzano il genere (“Congrega di
codardi inutili e perniciosi!”). Il ritmo è veloce e (quasi inutile dirlo) il
film rappresenta un esempio di ottima action,
come tutto il ciclo – che è una vera
saga del doppio gioco sul piano umano e del rovesciamento sul piano fisico; non
per nulla un suo punto ricorrente è l’inversione fra la terraferma e il fondo
del mare. Anche su quello metafisico, peraltro: in Pirati dei Caraibi né la morte né la dannazione sono definitive. Anzi,
fanno da carburante per la serie mettendo in atto il suo lato horror. Molto
bella qui la nave fantasma di Salazar, annunciata da uno stormo di gabbiani
decomposti (e provvista di squali-zombie da usare come arma!); il modo in cui
attacca le navi nemiche torreggiando sopra di esse e “inghiottendole” è quasi
impressionante.
Infine,
con tutto il suo mix di action e
comicità, non manca nel presente film (ma qui non posso dilungarmi perché
rappresenterebbe davvero un grosso spoiler) un imprevisto tocco finale di
profondità e sacrificio.
In
una serie è pressoché inevitabile un calo nel corso degli episodi (solo Star Wars riesce a cambiare pelle e
rinascere come un serpente!) ma il quinto Pirati
dei Caraibi tiene alta la bandiera del ciclo. Il sesto, già in
preparazione, potrebbe essere l’ultimo, almeno per quanto riguarda l’attuale
set di personaggi – ma già lo aspettiamo con fiducia. “Tremate, patetici ratti
di sentina!” (cit.).
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