In una sezione del
piacevolissimo King Arthur – Il potere
della spada, diretto e co-sceneggiato da Guy Ritchie, il protagonista Charlie
Hunnam (un Re Artù in formazione) deve attraversare le Terre Oscure per
attingere completamente al “potere della spada” Excalibur. E’ un viaggio pieno
di avventura; s’intuisce che Guy Ritchie ha filmato più materiale; ma ne
vediamo un riassunto di pochi minuti. Non faccio per dire, ma Peter Jackson ne
avrebbe fatto un intero film (mi affretto ad aggiungere che il tono critico
vale solo per il Jackson decaduto de Lo
Hobbit). Guy Ritchie non solo possiede un dono per il riassunto ma non ha esitazioni
a metterlo in pratica – neppure in un costoso blockbuster pieno di CGI come
questo.
E Ritchie è così bravo
nel riassunto perché, nel suo cinema, il suo atteggiamento verso la narrazione
è libero, addirittura sfrenato. Affabulatore compulsivo, Ritchie (anche
sceneggiatore dei suoi film) ama mettere in scena un racconto frazionato, fatto
di lampi narrativi: ama procedere per flashes,
per accenni, per dettagli divaganti. Ciò può dare al suo cinema un certo senso
di slegato – ma gli dà anche originalità e il suo fascino. Se a volte si ha l’impressione
che il film vada per conto suo, questo è un prezzo che con Guy Ritchie si paga
sempre volentieri.
Vale anche per King Arthur? Beh, è pacifico che qui
Ritchie non possa permettersi l’approccio vagamente anarchico di Lock & Stock, Snatch, RocknRolla. Ma
proprio come nei suoi film di Sherlock Holmes (e, se pensiamo alla parte
“londinese” di King Arthur, ancora di
più) riesce a negoziare coi produttori un compromesso che lascia degnamente integre
le sue caratteristiche.
Morale: la miglior
caratteristica di King Arthur è la freschezza.
Nel film – i cui credits di apertura
appaiono audacemente sull’azione (il colpo di stato del crudelissimo
Vortigern/Jude Law contro suo fratello Uther/Eric Bana, padre di Artù),
contaminandola in modo che lo spettatore non sa cosa guardare – dopo il
massacro dei lealisti e l’uccisione dei genitori Artù bambino viene affidato a
una barca alla deriva, come Mosè, e finisce a Londinium (una Londra antica bizzarramente
multietnica!) dove viene raccolto da una prostituta. Per inciso: che la
narrazione sia totalmente eterodossa rispetto alla materia arturiana lo mostra
già all’inizio il dettaglio che qui Mordred diventa il nome dell’arcimago
malvagio sconfitto da Uther. Fatti salvi, s’intende, i futuri sequel. Cresciuto
in un bordello, il futuro Re Artù diventa uno di quei piccoli criminali dotati
di sense of humour e grandi parlatori
che Ritchie amava tanto ritrarre nella prima parte della sua carriera. Il
dialogo in King Arthur è spiritoso,
molto veloce, pieno di ironia.
La narrazione è sciolta;
l’azione procede con un elegante montaggio temporale a intarsio. La visualizzazione
dell’incontro dei ribelli con i baroni del regno, che oscilla tra l’ipotesi
visualizzata e il “racconto primo”, esalta il principio del cinema
contemporaneo di giocare con i vari statuti di realtà dell’immagine. E quando a
un certo punto Artù sta facendo un racconto, che vediamo visualizzato sullo
schermo, a un poliziotto scettico, dice “Facciamo un passo indietro” – e il
film lo prende sul serio: vediamo i personaggi muoversi a rovescio. Nota bene,
quel ch’è tipico di Guy Ritchie non è l’uso di questa trovata linguistica ma il
fatto che essa compaia in un punto solo del film. Ritchie è innamorato delle
possibilità del cinema, ama sfoggiarne l’onnipotenza, come un bambino coi suoi
giocattoli.
Come già accennato, non bisogna
aspettarsi una rievocazione solenne alla John Boorman. Il film segue fedelmente
le modalità dell’action fantasy: correre e battersi, fiamme e ass-kicking, mostri e magia. King Arthur ingloba e restituisce tutta
una serie di suggestioni – però il suo stile vivace impedisce di percepirlo
come semplicemente derivativo. Sul piano grafico, il film si rifà allo stile dell’illustrazione
sword and sorcery – il mostro
fiammeggiante che uccide Uther all’inizio (dire di più sarebbe uno spoiler)
deve qualcosa a Frank Frazetta – e per altri aspetti alla pittura fantastica
inglese tardo-ottocentesca; lo mostra la superba concezione della creatura
maligna che vive nell’acqua (visivamente la miglior invenzione del film), fatta
di tentacoli e corpi di donne nude. E’ un’ottima idea, a tal proposito, che la
figura della Dama del Lago la rispecchi con un cambiamento di segno, in
positivo, coi suoi veli bianchi che fluttuano sott’acqua: omaggio alla
concezione dell’equilibrio esposta nel film.
Ma naturalmente i
riferimenti più immediati sono cinematografici. I giganteschi elefanti
mostruosi al comando del mago Mordred e tutta la battaglia iniziale fanno
pensare immediatamente a Il Signore degli
Anelli; la divisione tra uomini e maghi in due specie diverse (all’inizio
una didascalia ci informa che “uomini e maghi” vivevano in pace finché non
arrivò Mordred) può ricordare il mondo di Harry Potter; infine, l’eponimo
“potere della spada”, che Artù deve imparare a controllare come soggetto
recalcitrante ha un forte sapore di Star
Wars – e in fondo le guardie mascherate di Vortigern non sono così distanti
dagli Stormtroopers imperiali.
Ma questo gustoso mix di Signore degli Anelli, Star Wars, cinema action e perfino kung
fu sottoutilizzato, il tutto vivacizzato dall’umorismo e dalle
caratterizzazioni popolaresche propri di Ritchie, funziona bene. Cos’altro dovremmo
chiedere al film?
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