venerdì 19 maggio 2017

King Arthur - Il potere della spada

Guy Ritchie



In una sezione del piacevolissimo King Arthur – Il potere della spada, diretto e co-sceneggiato da Guy Ritchie, il protagonista Charlie Hunnam (un Re Artù in formazione) deve attraversare le Terre Oscure per attingere completamente al “potere della spada” Excalibur. E’ un viaggio pieno di avventura; s’intuisce che Guy Ritchie ha filmato più materiale; ma ne vediamo un riassunto di pochi minuti. Non faccio per dire, ma Peter Jackson ne avrebbe fatto un intero film (mi affretto ad aggiungere che il tono critico vale solo per il Jackson decaduto de Lo Hobbit). Guy Ritchie non solo possiede un dono per il riassunto ma non ha esitazioni a metterlo in pratica – neppure in un costoso blockbuster pieno di CGI come questo.
E Ritchie è così bravo nel riassunto perché, nel suo cinema, il suo atteggiamento verso la narrazione è libero, addirittura sfrenato. Affabulatore compulsivo, Ritchie (anche sceneggiatore dei suoi film) ama mettere in scena un racconto frazionato, fatto di lampi narrativi: ama procedere per flashes, per accenni, per dettagli divaganti. Ciò può dare al suo cinema un certo senso di slegato – ma gli dà anche originalità e il suo fascino. Se a volte si ha l’impressione che il film vada per conto suo, questo è un prezzo che con Guy Ritchie si paga sempre volentieri.   
Vale anche per King Arthur? Beh, è pacifico che qui Ritchie non possa permettersi l’approccio vagamente anarchico di Lock & Stock, Snatch, RocknRolla. Ma proprio come nei suoi film di Sherlock Holmes (e, se pensiamo alla parte “londinese” di King Arthur, ancora di più) riesce a negoziare coi produttori un compromesso che lascia degnamente integre le sue caratteristiche.
Morale: la miglior caratteristica di King Arthur è la freschezza. Nel film – i cui credits di apertura appaiono audacemente sull’azione (il colpo di stato del crudelissimo Vortigern/Jude Law contro suo fratello Uther/Eric Bana, padre di Artù), contaminandola in modo che lo spettatore non sa cosa guardare – dopo il massacro dei lealisti e l’uccisione dei genitori Artù bambino viene affidato a una barca alla deriva, come Mosè, e finisce a Londinium (una Londra antica bizzarramente multietnica!) dove viene raccolto da una prostituta. Per inciso: che la narrazione sia totalmente eterodossa rispetto alla materia arturiana lo mostra già all’inizio il dettaglio che qui Mordred diventa il nome dell’arcimago malvagio sconfitto da Uther. Fatti salvi, s’intende, i futuri sequel. Cresciuto in un bordello, il futuro Re Artù diventa uno di quei piccoli criminali dotati di sense of humour e grandi parlatori che Ritchie amava tanto ritrarre nella prima parte della sua carriera. Il dialogo in King Arthur è spiritoso, molto veloce, pieno di ironia.
La narrazione è sciolta; l’azione procede con un elegante montaggio temporale a intarsio. La visualizzazione dell’incontro dei ribelli con i baroni del regno, che oscilla tra l’ipotesi visualizzata e il “racconto primo”, esalta il principio del cinema contemporaneo di giocare con i vari statuti di realtà dell’immagine. E quando a un certo punto Artù sta facendo un racconto, che vediamo visualizzato sullo schermo, a un poliziotto scettico, dice “Facciamo un passo indietro” – e il film lo prende sul serio: vediamo i personaggi muoversi a rovescio. Nota bene, quel ch’è tipico di Guy Ritchie non è l’uso di questa trovata linguistica ma il fatto che essa compaia in un punto solo del film. Ritchie è innamorato delle possibilità del cinema, ama sfoggiarne l’onnipotenza, come un bambino coi suoi giocattoli.
Come già accennato, non bisogna aspettarsi una rievocazione solenne alla John Boorman. Il film segue fedelmente le modalità dell’action fantasy: correre e battersi, fiamme e ass-kicking, mostri e magia. King Arthur ingloba e restituisce tutta una serie di suggestioni – però il suo stile vivace impedisce di percepirlo come semplicemente derivativo. Sul piano grafico, il film si rifà allo stile dell’illustrazione sword and sorcery – il mostro fiammeggiante che uccide Uther all’inizio (dire di più sarebbe uno spoiler) deve qualcosa a Frank Frazetta – e per altri aspetti alla pittura fantastica inglese tardo-ottocentesca; lo mostra la superba concezione della creatura maligna che vive nell’acqua (visivamente la miglior invenzione del film), fatta di tentacoli e corpi di donne nude. E’ un’ottima idea, a tal proposito, che la figura della Dama del Lago la rispecchi con un cambiamento di segno, in positivo, coi suoi veli bianchi che fluttuano sott’acqua: omaggio alla concezione dell’equilibrio esposta nel film.
Ma naturalmente i riferimenti più immediati sono cinematografici. I giganteschi elefanti mostruosi al comando del mago Mordred e tutta la battaglia iniziale fanno pensare immediatamente a Il Signore degli Anelli; la divisione tra uomini e maghi in due specie diverse (all’inizio una didascalia ci informa che “uomini e maghi” vivevano in pace finché non arrivò Mordred) può ricordare il mondo di Harry Potter; infine, l’eponimo “potere della spada”, che Artù deve imparare a controllare come soggetto recalcitrante ha un forte sapore di Star Wars – e in fondo le guardie mascherate di Vortigern non sono così distanti dagli Stormtroopers imperiali.
Ma questo gustoso mix di Signore degli Anelli, Star Wars, cinema action e perfino kung fu sottoutilizzato, il tutto vivacizzato dall’umorismo e dalle caratterizzazioni popolaresche propri di Ritchie, funziona bene. Cos’altro dovremmo chiedere al film?

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