Diversi anni fa il Centro Espressioni Cinematografiche presentava in dicembre, all’indimenticato cinema Ferroviario d’Essai, un festivalino di cartoni animati in collaborazione con la Cineteca del Friuli, con qualche novità e soprattutto con magnifico materiale d’epoca. E’ bello che questo appuntamento decembrino si sia rinnovato con la nascita a Udine del Piccolo Festival dell’Animazione, curato da Paola Bristot, in stretta relazione con il festival Animateka di Lubiana (inoltre confluisce in questo festival, per il settore animazione, la rassegna di forme brevi “Videounlimited” a cura di Valentina Cordelli e Thomas Marcuzzi). Una prima edizione “sperimentale” ha avuto luogo al Visionario (12-19 dicembre), aprendosi con la proiezione di un piccolo capolavoro francese che assurdamente non ha avuto distribuzione in Italia (ma si sa che presto uscirà in DVD): il lungometraggio collettivo a episodi “Peur(s) du noir”, firmato da una serie di disegnatori e autori fra cui il “nostro” Lorenzo Mattotti.
Il Piccolo Festival dell’Animazione è dedicato all’animazione “d’autore”: un termine alquanto discutibile che serve a porre una distinzione rispetto alle grandi imprese commerciali. I mezzi impiegati vanno dall’animazione tradizionale a quella al computer, a tecniche particolari come il “cut-out”, ai “puppets”, pupazzi e plastiline animati a passo uno: colpisce la forte presenza di quest’ultima forma, che è una tradizione delle scuole di animazione dell’Europa orientale (come non ricordare qui la grande lezione di Jiri Trnka?). In effetti una bellissima retrospettiva è stata dedicata alla produzione più recente della casa di produzione estone Nukufilm, attiva nell’animazione di “puppets” fin dalla fondazione nel 1957. Abbiamo così visto numerosi lavori di eccellente livello, come lo spiritoso “Istinct” di Rao Heidmets, l’intelligente “Closing Session” di Hardi Volmer, il delirante “Fox Woman” di Priit Tender, il cupo “Having Soul” di Riho Unt; ma di quest’ultimo autore va citato in particolare l’ultimissimo “Brothers Bearheart”, una pazza riscrittura della pittura moderna attraverso le avventure di tre orsi che sono Van Gogh, Rodin e Toulouse-Lautrec (e sono anche i tre orsacchiotti raffigurati in un famoso quadro del russo Šiškin). A volte i cartoon brevi mostrano qualche carenza, o disinteresse, circa l’aspetto specificamente narrativo; ma questo piccolo capolavoro di umorismo colto vanta una sceneggiatura forte da fare invidia a molti lungometraggi “comedy”.
Il cuore del festival è però stata la retrospettiva dedicata allo svizzero Georges Schwizgebel, geniale autore metamorfico. Fortemente collegati alla musica, i suoi cartoni – realizzati con pittura su acetato - sono un incessante fluire e trasformarsi; il suo punto di vista è un allargarsi e rovesciarsi continuo (con una particolare attrazione per la “mise en abyme”).
Andiamo a curiosare fra i film migliori del programma (deludenti, sia detto in margine, gli autori italiani), che comprendeva opere sia recenti sia realizzate genericamente nel decennio. Useremo per comodità i titoli internazionali. Il film vincitore del premio del pubblico, “KJFG No. 5” di Alexei Alekseev (Ungheria), è di sicuro il più divertente fra quelli presentati al festival, nonché - va annotato - uno dei più tradizionali (ciò che può avere contribuito a conciliargli il favore del pubblico): riporta direttamente per stile e concezione all’animazione classica dell’Est europeo. E’ un’operina estremamente spiritosa, di intelligenza fulminante nel suo umorismo dell’assurdo, che nella sua brevità (sotto i due minuti) funziona grazie a un “timing” accuratissimo. Sempre dall’Ungheria arriva, per contrasto, il film più innovativo (sempre che non vogliamo chiamare “innovazione” delle balordaggini al computer come “Rotators” del croato Tomislav Findrik): “Life Line”, di Tomek Ducki, descrizione astratta e in qualche modo tragica di un mondo meccanico dove su rotaie sospese in aria scivolano figure antropomorfe composte di ruote dentate. Umani o inumani? Umani, certo, umanissimi sono i loro movimenti e quel che mostrano dei loro sentimenti. Ma umani ridotti all’ombra, alla trascrizione meccanica, all’essenzialità, in un mondo non meno essenziale, e desolato.
“Somnambule” di Anke Feuchtenberger (Germania), del 2006, è forse il lavoro migliore presentato alla rassegna. Versione animata di un fumetto dell’autrice, con una bella animazione “sporca” ove il tremolio della figura sfugge all’ossessione della continuità del tratto propria dell’animazione dell’industria, presenta in brevi episodi le avventure surreali di una donna nuda dalle lunghe orecchie che abita un pianetino privato vagamente simile a quello del Piccolo Principe, ed è innamorata di una luna dai tratti maschili (del resto, in tedesco “der Mond” è maschile). Graficamente bellissimo nella sua semplicità di tratto, il film è un susseguirsi di invenzioni inquietanti e sottilmente perverse.
Prodotto da Germania e Slovenia è “Lovesick” della slovena Špela Čadež, una storia d’amore fra “puppets” in uno studio medico che cura le malattie più folli, perfettamente costruito come scenografia (in generale si può osservare che la materialità dei pupazzi ama circondarsi di oggetti - o riproduzioni di oggetti -“vecchi”, caricati di memoria, immediatamente evocativi, e per questo un po’ tristi). Ciò che ben si vede anche in “Sainte Barbe”, malinconica animazione di “puppets” di Cédric Louis e Claude Barras. Canada e Slovenia sono i paesi produttori.
Lo slovacco “Four” di Ivana Šebestova è una gradevole “ronde” di amori realizzati animando “cut-outs” di gusto volutamente démodé: una serie di storie interlineate in un ambiente arioso e solare, che poi si congiungono grazie al racconto anacronico - come, per intenderci, nel Kubrick di “Rapina a mano armata”. Un amabile erotismo attraversa il cartoon; e a proposito di eros, come non citare qui “Patty” di Matej Lavrenčič e Roman Ražman (Slovenia), omaggio alla Patty Diphusa di Almodovar, che inizia in stile “Out of the Inkwell” esibendo il materiale e il lavoro e si scatena in un’animazione supersexy, accompagnata da una canzone in onore della protagonista che a un certo punto riecheggia Kurt Weill!
Olanda, Belgio e Gran Bretagna producono il poetico “Father and Daughter” di Michael Dudok de Wit, un’allegoria della vita umana attraverso l’interminabile attesa di una figlia per il padre partito in barca, realizzato con uno splendido disegno acquerellato dove gli alberi, i ciuffi di canne, i voli d’uccelli sono debitori della pittura orientale. Dalla Gran Bretagna arriva “Adjustement” di Ian Mackinnon: misto di animazione al computer e “live action”, è una riuscita riflessione intellettuale sul cartoon (che usa la tecnica dei “flip books” come simbolo dell’arte) e di conseguenza sull’estraneazione dell’artista dalla realtà in favore della riproduzione, attraverso il racconto della fine di un rapporto d’amore.
In “Tôt ou tard” di Jadwiga Kowalska (Svizzera) l’elementarietà bidimensionale delle figure, dal tratto elegantemente infantile, ben si adatta a un concetto di “meraviglia” infantile: una teoria delirante dell’alternarsi di giorno e notte come effetto meccanico del lavoro di ingranaggi sotterranei. Basta una ghianda che cade giù per un albero cavo a bloccare questo meccanismo, consentendo l’incontro e l’amicizia fra una creatura del giorno e una della notte. Ancora svizzero è “The Cable” di Claudius Gentinetta e Frank Braun, umorosa descrizione della sfiga assoluta in un viaggio su una funivia che definire poco sicura è dir poco - e dei mezzi volontaristici (qui: un nastro di scotch) di un uomo di fronte al disastro. La bella descrizione ambientale trasmette veramente la sensazione della montagna, della gelida altezza e del pericolo.
E restiamo in Svizzera con “Le Printemps de Sant.-Ponç” di Eugenia Mumenthaler e David Epiney. Le voci degli ospiti di un’istituzione per handicappati in Catalogna scorrono sopra animazioni dei loro stessi disegni. Un film interessante, ma nel quale l’animazione sembra mantenere un ruolo estrinseco e vicario; l’impatto del film lo danno queste voci con le loro storie di solitudine, emarginazione e violenza subita: non cambierebbe nulla se le voci scorressero su pareti nude, alla Margherite Duras.
Il polacco “Alter Ego” di Kuba Gruglicki è una riflessione divertita e cinica sul di qua e di là dello specchio, sorretta da una magnifica animazione tridimensionale al computer: magnifica prospettiva, eccellente resa della figura umana, entro una scenografia di delusione e desolazione. Il francese “Skhizein” di Jérémy Clapin è interessante - anche se piuttosto prolungato e in ultima analisi intellettualistico -per l’invenzione audace di un uomo che, per l’influsso di un meteorite, si trova spostato a 91 centimetri da se stesso: un paradosso che il film concretizza non senza abilità (memorabile l’auto guidata da fuori!).
Dalla Croazia in coproduzione con la Francia viene il bel cartoon futuristico post-disastro “Morana” di Simon Bogojevic Narath. E’ Moebius, naturalmente, l’ispirazione è visibilissima; e come in Moebius la concezione del mondo fa premio sull’aspetto narrativo. Però il film scorre piacevolmente, a tal punto che un produttore coraggioso non farebbe male a prolungarlo a lungometraggio. Il serbo “Metamorph” di Rastko Ćirić è un “must” per gli amanti di pseudoscienze, “pseudobiblia” e animali immaginari: è un documentario didattico, rivolto agli allevatori, sulla cura di un animale impossibile durante il ciclo inesauribile delle sue metamorfosi che violano tutti i confini dei regni animale e vegetale. Peccato che, tre anni dopo questo gustosissimo film del 2005, lo stesso autore si sia perso in compiaciuti giochetti al computer col tedioso e troppo lungo “Fantasmagorie 2008”.
L’olandese “Sold Out” di Marie José van der Linden e Gerrit van Dijk parla con dimessa cordialità di un negozietto a conduzione familiare nel passare degli anni. Durante il racconto i personaggi si bloccano in foto-ricordo, oppure ne escono per andare a servire i clienti: realizzando una sensazione di “album di famiglia” che è coerente con questa sensazione del tempo che passa in opposizione al “presente continuo” dei supermercati (da cui alla fine sarà sostituito il piccolo negozio). E’ un film che riesce a coniugare la particolarità dei suoni e dei visi (il Brabante) con l’universalità del ricordo.
Quanto mai diverso il delirante “Vesna Doesn’t Work Today”, di Anete Melece, che ci arriva dalla Lituania. Trascrizione in termini umoristicamente grotteschi delle incertezze del corteggiamento, il film è un conglomerato di idee, alcune buone altre meno, che migliora andando avanti e lascia un ricordo positivo, sebbene non abbia una particolare profondità nemmeno in termini di humour dell’assurdo.
Dall’Argentina arriva “Lapsus” di Juan Pablo Caramella, tutto sul gioco fra i campi opposti di bianco e il nero, pieno d’invenzione e d’intelligenza, in una quantità infinita di giochi grafici di cui è vittima una suora (“Oh my God!”) presa fra le due dimensioni. Dal Canada, “Madame Tutli-Putli” di Chris Lavis e Maciek Szczerbowski. Realizzato con “puppets” estremamente espressivi grazie al movimento degli occhi e genialmente concretizzati con abiti e oggetti, crea una sensazione di realismo onirico invero inquietante: le paure inconsce di un lungo viaggio in treno, che tutti abbiamo sperimentato (le soste nel cuore della notte…), qui si materializzano sullo schermo con forza sconcertante.
Ma non chiuderemo senza menzionare il geniale Blu, che meriterebbe una rassegna a parte. E’ l’inventore di un nuovo genere espressivo, che potremmo chiamare graffiti animati (visibili anche su Internet). I graffiti metropolitani prendono vita, lungamente ridisegnati e animati a passo uno, con esiti stupendi. Dove un motivo, non l’ultimo, di fascino dell’operazione è come Blu inserisce nel contesto semi-narrativo gli “ostacoli”, le interruzioni del muro, come una finestra, col graffito in movimento che ci striscia sotto. Così nella dialettica del disegno viene recuperata e inserita la realtà bruta del supporto, che non è cosa da nulla, trattandosi della concretezza materiale della città.
(Il Nuovo FVG)
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2 commenti:
Carissimo Prof, come le riferii personalmente sulla difficoltà di trovare i commenti ai suoi post, ora, ad una successiva rilettura, le confermo che, pur avendoli scovati, li trovo ancora poco visibili e, se mi permette, le suggerirei un colore rosso ed un "corpo" "maggiorato" del carattere al link "commenti". Mi permetto di proporle questo, a maggior ragione, dopo averli letti e riconosciuti brillanti quanto i suoi articoli.
Cordialmente Stefano M.
"Father and Daughter" è un capolavoro :D E diffonderlo è cosa buona e giusta. Ma avrebbero dovuto proiettare anche "Le moine et le poisson", per mostrare il lato dolce del regista.
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