Udine, Chiesa di San Francesco, settembre 2000
La meravigliosa mostra di Gianluigi Toccafondo organizzata dal Centro Espressioni Cinematografiche col Comune di Udine (coordinamento artistico Giovanna Durì) alla Chiesa di San Francesco fa riflettere sull’essenza immateriale del cinema: sguardo, memoria, movimento.
I filmati elaborati da Toccafondo a partire dal fotogramma sono un’incessante trasformazione. Tutte le cose in Toccafondo aspettano solo la spinta dello sguardo per trasformarsi e volare. Così il corpo disegnato, modificandosi, tende a sfuggire per le vie laterali: orecchie capelli braccia code; per questo Toccafondo ama appioppare ai personaggi dei suoi disegni orecchie da coniglio, o da pipistrello. Gli elementi tendono a innalzarsi verso l’alto, spargersi lateralmente, scappare. Un gatto nero dalle zampe che si allungano in corsa diventa una nuvola (“Sipario ducale”, 1999).
Quest’arte “eraclitea” fa pensare a Proteo, il corpo inafferrabile della mitologia -e infatti in Toccafondo pare impossibile afferrare, bloccare, imprigionare qualcosa, perché sarebbe come afferrare il fumo. Però, allo stesso modo, come rende Toccafondo ancor più drammatica la drammaticità cinematografica del morire rotolando! (“Le Criminel”, 1993).
Il disegno non sostituisce l’immagine fotografica: la ricopre, la metabolizza. Per Toccafondo disegnare sull’immagine significa appropriarsene (in un’inquadratura dell’ammirevole “Toccafondo in Japan”, 1999, lampi di disegno percorrono l’inquadratura ordinatamente ad angolo retto). Toccafondo parte dalla pellicola cinematografica su cui lavora, fotografando un monitor, fotocopiando le immagini, dipingendovi sopra. Ma alla pellicola cinematografica pare opporsi quel continuo trasformarsi, quella meravigliosa fluidità. Si ha l’impressione paradossale che sia “più” movimento quello che il movimento del cinema - e ciò perché distrugge la tirannia dei contorni e delle forme.
Val la pena di ricordare che nel primissimo cinema la meraviglia non veniva dal racconto, ma dal movimento. Come racconta Jacques Aumont in un libro bellissimo, “L’occhio interminabile”, quando Méliès va a vedere “Le gouter de bébé” dei Lumière, cosa nota? Non la scena in primo piano ma gli alberi sul fondo: come il vento muove le foglie.
E nei brevi film del protocinema è diffuso uno spettacolo che si chiama “la danza serpentina”. Una danzatrice dal largo manto gira su se stessa facendo roteare la sua robe. Pura voluttà del movimento! Effetto poi accresciuto dall’eventuale colorazione.
Perché la prima colorazione del protocinema sono colpi di pennello su un solo oggetto del quadro (metti, la danzatrice) che, essendo irregolari da fotogramma a fotogramma, creano una macchia monocroma, un alone vibrante che si agita dentro e fuori dei contorni dell’immagine fotografata - un’affascinante attinia cromatica.
Colore che deborda. E anche in Toccafondo il colore sprezza i contorni: è una macchia, una nuvola, che si espande e si ritrae. Contro la tradizione prevalente del disegno animato (Walt Disney è il caso limite) dove il colore è imprigionato nella gabbia del tratto, in una specie di fiorentino “primato del disegno” spinto all’estremo. Nel gran mare del disegno animato, quella dei colori che debordano dal disegno è una corrente largamente minoritaria.
Tutta questa meraviglia - quella del movimento, quella del mobile colore - Toccafondo ce lo fa ritrovare nella “danza serpentina” dei suoi film. Ecco che quest’autore di abbagliante modernità sa regalarci lo stesso brivido - di piacere - degli spettatori di Edison e dei Lumière.
(Il Nuovo FVG)
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