Fredo Valla
Il
massiccio dell’Ambin, “cuore bianco della Valle di Susa”, tra
il Piemonte e la Francia, è protagonista dell’ultimo film di Fredo
Valla, il bellissimo documentario Ambin – La roccia e la piuma, che
si può vedere in rare fortunate occasioni di proiezione. A Udine è
stato presentato al cinema Visionario venerdì 2 febbraio.
Fredo
Valla è regista di eccellenti documentari (oltre che sceneggiatore:
cito solo Il vento fa il suo giro e Lubo, entrambi di Giorgio
Diritti) ma il suo documentarismo è diverso da quello tradizionale.
All’istanza ordinatrice autoritaria della voce narrante, Valla
preferisce sostituire una pluralità di voci, un mosaico. Il suo
metodo è quello del collage di interventi/dichiarazioni, e ciò dà
all’opera una particolarissima veridicità. Spesso la sua scelta è
quella di ancorarsi a un personaggio che crea una continuità
narrativa su cui s’innesta il discorso: come Giorgio Conte in Plus
haut que les nuages o Pietro Spirito in Medusa – Storie di uomini
sul fondo o, a un livello più complesso, lui stesso come soggetto
peregrinante in Bogre – La grande eresia europea. Non in Ambin dove
abbiamo solo una ritmata, fascinosa, convincente polifonia di voci
che crea la sensazione viva dell’esistenza e della memoria. Tutte
queste voci danno l'impressione che l’oggetto di film “si
costruisca da sé”. Ovviamente il documentario è sempre uno
sguardo non incorporeo sul mondo: è sempre la mediazione di un
autore (questo raggiunge la sua reductio ad absurdum nel
documentario-pamphlet alla Michael Moore). Peraltro, anche se
l’elemento ordinatore dello sguardo autoriale è ineliminabile, in
Ambin esso è mediato da una sorta di disponibilità che mette in
primo piano la montagna sui due piani, diacronico e sincronico,
dell’esistenza.
Di
solito i film sulla montagna (senza riandare ai Bergfilme tedeschi,
menziono il sottovalutato Grido di pietra di Werner Herzog) tendono
alla vetta, punto di arrivo. Certamente, come dice Fredo Valla,
questo si lega spesso al concetto della montagna
violata, quasi
un discorso di stupro come atto
simbolico. Ma se il film è il sogno della conquista della vetta, la
montagna in sé diventa il luogo di un percorso, il momento della
contraddizione: vale principalmente come ostacolo. Invece in Ambin la
montagna appare per sé. E la cima (i Denti) non è conquistata se
non nel senso ludico del gruppo di highliners alla fine – il che
non nega né l’elemento di inevitabile suspense che proviamo sempre
davanti a simili spettacoli né l'aspetto incantato che li circonda
(l’aurora). Nel loro camminare sul filo sopra l’abisso, o anche
stendersi per gioco a fingere di dormire, vediamo realizzarsi
quell'antitesi fra il pieno e il vuoto, il massiccio e il volatile,
la roccia e la piuma, postulata dal (sotto)titolo.
Un
grande lavoro di fotografia, che si avvale anche di riprese col drone
e dall’elicottero, rende la bellezza materiale, fisica, “tangibile”
della montagna. In molti dettagli, per esempio l’elemento insieme
concreto e visionario delle statue di Santi nel buio, si riconosce
l’autore di Bogre – La grande eresia europea. Riguardo
all’ordine
espositivo, il percorso è divagante, poetico, e
il montaggio,
che ama talvolta
i raccordi per contrasto, lo
riflette.
Lasciando
la parola a Valla stesso: “ho cercato…
un
approccio diverso al tema, vorrei dire più lirico, dove quella sorta
di Sahel alpino (complice la siccità) che è il Massiccio d'Ambin,
con i pochi ghiacciai rimasti simili a tele di Hartung, attraversati
da segni profondi, assumessero un significato diverso (quello
dell'antropologo all'inizio del film). Poi, escludendo la voce off
che non mi è congeniale, ho voluto che a raccontare il Massiccio e
il rapporto con la montagna fosse la gente che ci vive attorno, in
una sorta di montaggio che definirei espressionista” (lettera
di Fredo Valla a chi scrive).
Gli
interventi, sarebbe riduttivo chiamarli interviste, sono sempre
interessanti e spesso assai illuminanti, o per l’aspetto
scientifico o filosofico (bellissimo per esempio il discorso sul
significato delle croci in cima alle montagne), o per la concretezza
umana (i due malgari) o per una qualità di “meraviglia” che crea
una pagina magica (la visita alla galleria, scavata da un Colombano
nel Cinquecento). Anche l’intervento della giovane donna nel
rifugio esprime in modo intrigante il concetto “alternativo” di
viaggio, come continua conoscenza del percorso, rispetto alla linea
retta dell’aereo; si può trovare invece retorico
(iper-semplificatorio) il suo discorso, quando prosegue,
sull’insensatezza delle frontiere, ma anche questo, come credo
dicano i giovani, “ci sta”. La scelta di non mettere le
didascalie che permettano di dare un nome alla persona che parla è
una scelta radicale ma centrata, perché contribuisce a una fluidità
discorsiva che lo apparenta in qualche modo allo scorrere della vita
(dove parliamo con centinaia di persone ma non vediamo didascalie).
Forse nei titoli di coda sarebbe stato opportuno che i nomi, anziché
sul nero, apparissero accanto all'immagine relativa del film, in modo
da attivare la memoria dello spettatore.
Sui
due assi del presente e della memoria, la forza della storia umana –
il senso profondo delle croci alpine, i ricordi del passato, dalla
Glorieuse Rentrée dei valdesi nel XVII secolo al vecchio forte
italiano bombardato dagli italiani per sperimentare i progressi
dell'artiglieria, l'ingegneria umana, la piccola cronaca sugli
animali scomparsi – si incrocia con l’altra dimensione del tempo,
quella della montagna. Perché, se noi “viviamo la montagna”, la
montagna vive come noi – ma questa sua vita si esprime in una
dimensione temporale del tutto diversa: ere geologiche contro i
nostri brevi anni; e potremmo dire che anche nella dialettica fra la
“lentezza” possente della montagna e l'immediatezza transeunte
delle vite umane ancora si ritrova l'endiadi del sottotitolo, la roccia e la
piuma. Qui la geologia, sulla quale il documentario insiste, entra
perfettamente, perché è una descrizione dell’“anatomia
dell’Ambin”, fonda quel modo di renderlo personaggio su cui
s’impernia il discorso.
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