Martin Bourboulon
Quanti
ne abbiamo visti di “Tre Moschettieri”? Da quelli eleganti e
piumati di George Sidney del
1948, con Gene Kelly, a quelli scanzonati di Richard Lester
del 1973, da quelli “steampunk”, con una macchina volante, del
2011 a quelli parodistici (chi
si ricorda del
Quartetto Cetra?). Ora
Martin Bourboulon, che
ci aveva divertiti
l’anno scorso con “I tre moschettieri – D’Artagnan”, torna
col secondo capitolo (sorpresa: non l’ultimo!), “I tre
moschettieri – Milady”. La cattivissima del titolo è una
sfavillante Eva Green, il cui busto generosamente esibito fa
strabuzzare gli occhi sia al di qua sia al di là dello schermo,
tanto ai personaggi quanto agli spettatori.
I
moschettieri si trovano impegnati
nell'assedio de La Rochelle e D’Artagnan deve ritrovare l'amata
Constance, rapita nel
film precedente. L’arcinemica Milady è lì per mettere i bastoni
fra le ruote. Bourboulon e i suoi sceneggiatori si
sono saggiamente attenuti
allo spirito, se non alla lettera, del romanzo; i
pochi
tocchi di modernizzazione (la presenza di un moschettiere nero,
peraltro
un principe, o un accenno alla bisessualità di Porthos) sono
discreti e non offendono. L’ambientazione
naturalmente è realistica: un Seicento sporco e fangoso, in cui i
duelli diventano risse rotolandosi a terra e i moschettieri – altro
che Gene Kelly – vanno in giro con giubbe scure e cappellacci con
piume striminzite, mal
rasati e poco
puliti. Il dialogo è vivace e spiritoso, la regia è convincente. Se
Eva Green è brava
quanto bella (vedi
le scene in cui,
ingannevolmente, si confida), Vincent Cassel (Athos)
ruba la ribalta
con la sua disperazione trattenuta; ma tutti i quattro sono
commendevoli. Un filmone di cappa e spada contemporaneo
e tradizionale allo stesso
tempo. Che potrebbe desiderare di meglio
l'appassionato di Dumas?
(Messaggero Veneto)
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