giovedì 11 settembre 2008

Slipstream

Anthony Hopkins

Avete presente un nastro di Möbius? E’ una “superficie non orientabile” - un anello di nastro in cui attraverso una torsione la superficie A si trasforma nella superficie B, per cui percorrendolo ci troveremmo, senza oltrepassare il bordo, prima nella parte sopra poi nella parte sotto. Ecco “Slipstream” (uscito in Italia col sottotitolo idiota “Nella mente oscura di H.”), prodotto, diretto, scritto e musicato oltre che interpretato da Anthony Hopkins. Uno sceneggiatore cinematografico, trovandosi nell’imminenza della morte (simboleggiata nel film da un giovane vestito di nero), confonde la realtà con il film che sta scrivendo - nonché coi ricordi personali e collettivi (Hitler, Stalin) e con la mitologia vivente del nostro tempo che è il cinema. Personaggi che secondo la continuità narrativa dovrebbero appartenere al “racconto primo”, cioè alla realtà dello sceneggiatore Felix Bonhoeffer (Hopkins), slittano sul piano del racconto secondo, del film-nel-film, e continuano a oscillare fra i diversi livelli di realtà. Un nastro di Möbius appunto.
Per esempio vediamo un gangster ultraviolento (Christian Slater) che dovrebbe appartenere alla “storia reale” – però risulta da cinema fin dall’abbigliamento; certo, potrebbe semplicemente avere visto troppe volte “Bonnie and Clyde”; però una (quanto mai inconsueta) chiusura in iride già ci insospettisce rispetto allo statuto di realtà, e infatti ecco che i livelli del racconto scivolano uno nell’altro. E quasi per un fenomeno di rifrazione, proprio come in presenza della morte Felix annega nella confusione fra realtà e invenzione, lo stesso accade a Christian Slater - e l’isterismo del film-nel-film si ripropone sul set di scalcinati cinematografari che lo stanno girando.
Senza sorpresa, “Slipstream” è anche l’occasione di Hopkins per parodiare la poco amata Hollywood. John Turturro, il grezzo produttore Harvey (“Nessuno può morire durante la lavorazione di un mio film finché non glielo dico io!”), allude a Harvey Weinstein, ma al di là di questo è il quintessenziale produttore hollywoodiano di tanto cinema e letteratura (e Turturro se la gode un mondo nella parte).
E’ chiaro che Hopkins ha visto con interesse i film di David Lynch. Lo mostrano sia l’impianto generale sia le atmosfere, come nella disturbante sequenza della tavola calda. In particolare, poi, c’è una scena molto divertente in cui tre personaggi si trovano all’interno del computer di Felix (“come dei virus”, dicono) e dal monitor lo guardano dormire e fanno commenti acidi su di lui - scena che molto ricorda Lynch con i suoi universi multidimensionali.
Ne risulta una realtà mutevole e sfuggente, dove le determinazioni temporali, i livelli di esistenza, le identità medesime beffano la competenza dello spettatore (e del protagonista). Fra i fili che intessono questo racconto-non-racconto sono centrali quelli, connessi, della violenza americana e della perdita di un ordine del mondo. Questo è il concetto base, urlato dal pazzo sull’autostrada: “Abbiamo perso la trama!”. In effetti uno sceneggiatore ha il (comodo) ruolo di Dio: è creatore e ordinatore di un mondo: ma il ruolo diventa meno comodo quando i piani di realtà si confondono, e i personaggi si presentano a te protestando per la loro morte (tanto più quando essa aumenta il caos: “Adesso è tutto incoerente”).
E’ un’operazione intellettualistica, senza dubbio, e sarebbe arduo dire pienamente riuscita. E’ un film troppo carico, segnato da una sorta di “horror vacui” artistico/filosofico. Tuttavia - purché lo spettatore non si incaponisca a volerlo seguire come racconto realistico, nel qual caso ha sbagliato sala - è un film piacevole (né scorre in modo lento e compiaciuto come uno potrebbe temere dalla premessa), con numerosi tratti interessanti e brillanti. Delizioso, ad esempio, quando l’evocazione del capolavoro di Don Siegel “L’invasione degli ultracorpi” guida all’apparizione “as himself” del vecchio protagonista Kevin McCarthy (che qui non si ricorda di averlo interpretato!). Un dettaglio meno brillante? Il protagonista Felix Bonhoeffer porta lo stesso cognome del teologo luterano tedesco vittima del nazismo. Affinché questo riferimento non ci sfugga, Hopkins inquadra due volte un volume di scritti di Dietrich Bonhoeffer – ed è quel modo di citare attraverso l’ostensione di un libro che era un vezzo del cinema italiano all’epoca di Antonioni (per Godard il discorso è un po’ diverso), e ancor più di allora trasmette una sensazione di “telegrafato”.
Ovviamente un film del genere, in cui la giustapposizione di frammenti di esistenza crea un continuum di svolgimento e di dialogo, è una sfida sul piano del montaggio, e qui il montatore ha fatto un grande lavoro: si tratta di Michael R. Miller, un maestro del “fast cutting” - ricordiamo che uno dei suoi primi film fu il rivoluzionario “Arizona Junior” dei fratelli Coen.
La fotografia di Dante Spinotti in “Slipstream” non solo mantiene la nettezza elegante e rigorosa che gli conosciamo ma risponde anche al problema di adeguarsi alla moltiplicazione di frammenti di realtà che costituisce il film: ciò che significa la necessità di non avvolgere tutto in uno stile unificante, dal quale questo frazionamento verrebbe messo in crisi. Allora, vedi come un realismo fotografico “sporco” da neo-noir metropolitano si incrina nel rosso fiammeggiante da vecchio Technicolor di uno sfondo, nella sequenza all’uscita dal bar – o in generale come le entrate “tambureggianti” del b/n (a un certo punto compare anche il negativo) spezzano, pervertono e avvelenano la continuità dell’immagine.

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