Se
non sconvolgente come lo splendido e doloroso “The Hurt Locker”,
“Zero Dark Thirty” di Kathryn Bigelow è comunque un grande film
– anche senza tener conto della soddisfazione individuale che
procura quando tre pallottole dei Navy Seals si piantano nella
putrida testa di terrorista assassino di Osama Bin Laden alla fine di
una caccia decennale.
L'apertura
ci fa ascoltare, sullo schermo nero, la registrazione autentica della
telefonata sconvolta di una delle vittime, passeggero su uno dei due
aerei quando sta per schiantarsi sulle Twin Towers l'11 settembre
2001. Questo serve a porre il ground
morale del racconto della caccia della CIA a Bin Laden – tanto che
fa tornare alla mente una citazione del “Macbeth”: “La loro
giusta causa inciterebbe a spargimento di sangue e grida di guerra
persino l'eremita votato alle mortificazioni”. Ma la presa di
posizione è morale, non narrativa: il racconto è rigorosamente
matter
of fact.
Kathryn Bigelow e lo sceneggiatore Mark Boal concentrano questa lunga
caccia nella figura femminile di Maya (Jessica Chastain) che ha
l'intuizione di scovare Bin Laden seguendo la traccia del suo
messaggero più importante, e prosegue la sua ricerca attraverso
successi ed errori, intuizioni e passi falsi, attraverso le sfide
all'incredulità altrui e la frustrazione di chi sa di aver centrato
un bersaglio che altri non vedono. Il film utilizza la sua
sensibilità femminile non in termini di contraltare emozionale o
intuitivo al decisionismo razionalizzante maschile ma, all'opposto,
come capacità di fissare
il punto centrale e tener duro su di esso senza lasciarsi deviare
dalle incertezze e dalla volubilità dei colleghi, che badano solo al
risultato immediato (è quasi una pagina satirica quella della
riunione col direttore della CIA in cui tutti i maschi cercano di
darsi un'aria analitica e oggettiva sparando percentuali di
probabilità).
“A
Washington dicono che è una killer”, sentiamo riferire di Maya
poco dopo la sua apparizione nel film. Quella della protagonista per
scoprire il covo di Bin Laden è un'ossessione – analoga
all'ossessione del sergente di “The Hurt Locker”. Vero che quella
proveniva dalla guerra come droga (citazione in esergo al film)
mentre nel caso di Maya l'ossessione ha una più precisa base morale:
“Voglio prendere i responsabili di questa barbarie - e voglio
uccidere Bin Laden”, grida dopo l'attentato in cui è morta anche
la sua amica (è bene avvertire che il testo originale è più sobrio
del doppiaggio italiano: non dice il retorico “questa barbarie”,
dice “questa operazione”, this
op).
Nondimeno è evidente un carattere ossessivo comune – e di qui il
cupo senso di vuotezza del “dopo”, di cui si fa portatore il
lungo drammatico PPP che chiude “Zero Dark Thirty”. E' quasi
inutile ricordare come questa del forzarsi al proprio estremo
(“avventurarci nel tratto buio in fondo alla strada”: “Strange
Days”) sia l'essenza del cinema di Kathryn Bigelow (la citazione è di Aldo Viganò).
In
completa opposizione alle regole hollywoodiane, il film non si
costruisce come un ordinato processo drammaturgico di avvicinamento
al climax - la magnifica pagina della spedizione dei Navy Seals - ma
scorre verso di esso come un fiume dalle ampie anse lente. Così il
fatto che lo spettatore già conosca la conclusione positiva non gli
impedisce di sentire acutamente la frustrazione scoraggiante di una
lenta ricerca che sembra un girare in tondo senza sbocchi. Anche in
ragione di questa identificazione empatica il film si focalizza
totalmente su “noi” in contrapposizione a “loro”: sui
cacciatori americani, al massimo sulle vittime degli attentati come
quelli di Londra, mentre i terroristi islamici appaiono solo in
relazione ai “nostri”, mai come controcampo narrativo; non hanno
sequenze autonome proprie (fa eccezione una riunione di terroristi
nelle “zone tribali”, ma è brevissima, visualizza informazioni
ricevute, e sembra quasi un film rubato).
“Zero
Dark Thirty”, dicevamo, sposta tutto il racconto sul piano del puro
fatto. E' una rarità assoluta se non un unicum
nel campo del cinema americano un film che asciuga così totalmente,
e vorrei dire spietatamente, il plot eliminando il gioco
sentimentale. E' un grande film senza romanticismo. Non che Kathryn
Bigelow non lo possegga nelle sue corde (basta pensare agli amori
immortali sotto le stelle de “Il buio si avvicina”); ma qui,
ancor più che in “The Hurt Locker”, se ne astrae, portando agli
estremi limiti la lezione di Howard Hawks: un cinema di persone che
sanno fare il loro mestiere. Dunque la regista rinuncia a quello che
è sempre stato un portato irrinunciabile del film di guerra: il côté
dei sentimenti (magari solo alluso come un “di là” rispetto alla
narrazione). Non sappiamo niente di Maya. Ha avuto degli amori? ha
figli? le piace la pittura? le piaceva la scuola da bambina? ha un
gatto? (persino la ferrea Ripley di “Alien” aveva un gatto). Ma
questo non è perché “Zero Dark Thirty” la mostri emotivamente
fredda... c'è anche, all'inizio, una bellissima pagina di
recitazione di fronte alla tortura dei terroristi prigionieri... ma
perché tutto il film si concentra interiormente sulla sua
incrollabile determinazione ed esteriormente sul qui
ed ora
della narrazione.
Infine
tutto sfocia nella splendida sequenza della missione dei Navy Seals,
che partono con elicotteri invisibili nella notte per andare a
“terminare”
Osama nel suo nascondiglio ad Abbottabad (il film non grida ai
quattro venti ma diplomaticamente lascia intendere la complicità del
Pakistan con il terrorismo islamico). Nessuno aveva reso tanto
memorabile un volo di elicotteri da guerra fin dai tempi di Coppola
in “Apocalypse Now” - ma rovesciandolo: quello era luce, fragore,
potenza, Wagner; questo è buio, silenzio, pericolo, sorvolare
furtivi un paesaggio che la notte rende incantato.
E
poi l'attacco alla casa, con l'alternanza delle soggettive verdi dei
visori e delle oggettive buie, il tutto scandito dall'abbaiare dei
cani, mentre le prime figure di gente allarmata sui tetti delle case
vicine, le prime finestre che vi si illuminano, creano una suspense
che nessuna scena di combattimento potrebbe eguagliare. Non v'è
ombra di abbellimento, di “riordino” drammatico o estetico nella
scena dell'irruzione. E' isterico affrettarsi, dolore e spavento,
incertezza ed esaltazione, e infine la liberazione esausta della
vittoria e del ritorno. Se il cinema ama esibire il corpo del nemico
ucciso, qui dopo che il capo di Al Quaeda ha incontrato il suo
destino non ne vediamo niente se non una barba grigia e un naso
insanguinato nell'apertura del body
bag.
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