Proprio
come “La migliore offerta” di Tornatore, ambientato nel mondo
dell'antiquariato, ha il valore aggiuntivo di essere un film pieno di
bellissimi oggetti, “Quartet” (delicato esordio alla regia di
Dustin Hoffmann) ha quello di essere pieno di bellissima musica.
Tuttavia l'argomento del film non è la musica – sebbene se ne
produca e se ne ascolti molta, e molto se ne parli: la lezione
sull'opera lirica che Tom Courtenay tiene a un gruppo di giovani è
una pagina da antologia. “Quartet”, che si svolge in una casa di
riposo per vecchi musicisti, è un film sulla vecchiaia e sui
sentimenti.
Strano
che questi due termini suonino quasi in contrapposizione! Nella
debolezza fisica della vecchiaia, i sentimenti non sono affatto
offuscati; anzi, lampeggiano con maggior forza – sia perché è
venuta meno la faciloneria della gioventù, che spesso scambia per
sentimenti gli umori, sia perché quella stessa debolezza del corpo
fa brillare più vividi i sentimenti per contrasto.
Amore,
rancore, amarezza e ostinazione sono quelli che muovono Maggie Smith
e Tom Courtenay, un soprano e un tenore famosi, che si sono lasciati
tempestosamente molti anni prima. Ora, dopo una carriera stellare, si
ritrovano alla Beecham House for Retired Musicians. Lei vorrebbe
mettere una pietra sul passato, lui fa lo sdegnoso; ancora
innamorati, si guardano bene dall'ammetterlo.
Ecco
però che la musica rientra in gioco in un senso diverso dal semplice
argomento narrativo. Un quartetto è una composizione
vocale/strumentale per quatto esecutori, e ciò si attaglia
perfettamente a “Quartet”. Il gioco recitativo di interventi,
richiami, passaggi, rimandi fra Maggie Smith, Tom Courtenay, Billy
Connolly e Pauline Collins (gli altri due componenti del quartetto,
che dovrebbe cantare un loro vecchio cavallo di battaglia al galà
benefico dell'istituto) è talmente felice da creare un effetto non
soltanto da grande sophisticated comedy, ma prettamente
musicale. Queste quattro “voci” si contrastano e si fondono in
pura armonia.
La
sceneggiatura, tratta da una sua pièce teatrale, è di Ronald
Harwood, ed è una delle più brillanti che abbia scritto. Immaginate
un “Il servo di scena” (il suo capolavoro) in cui il gioco a due
si divide in quattro e oltre a ciò si riverbera su tutto un vasto
impianto corale – affidato a ottimi attori di contorno, fra cui
vorrei citare almeno Michael Gambon, il dispotico organizzatore della
serata (il cui eccentrico abbigliamento strizza volutamente l'occhio
al suo personaggio cinematografico più famoso, il Silente di “Harry
Potter”). Da notare che la maggior parte degli interpreti secondari
sono anziani musicisti autentici, e infatti i titoli di coda li
presentano accanto a una foto della loro giovinezza musicale.
Il
film mentre sviluppa il suo tema principale lancia uno sguardo
realistico eppure ottimistico sulla condizione senile – i
tradimenti del corpo e della memoria, la tristezza dei bilanci, ma
anche l'attaccamento alla vita – che qui si esprime nella musica.
E' un film di dialogo e di ritratti psicologici credibili e
articolati, dolce senza essere mieloso e spiritoso senza essere
farsesco. L'unico modo per portare sullo schermo una sceneggiatura di
questo genere era una regia piuttosto classica – e in quanto tale
non invasiva, che non stringa i tempi e che lasci tutto lo spazio
necessario al parlato. A questo Dustin Hoffman provvede con abilità.
Nella sua regia l'eleganza (cito per esempio un aggraziato movimento in
dolly durante la passeggiata dei due protagonisti nel parco, oppure
la bella entrata dell'arpa extradiegetica che si aggiunge alla
melodia diegetica della viola in un'altra scena) è sommessa, al
servizio del testo e dei mostri sacri che lo interpretano.
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