Guy Ritchie
Se il primo “Sherlock Holmes” di Guy Ritchie aveva introdotto una lettura “revisionista”, eterodossa ma tutt'altro che campata in aria, del mito creato da Sir Arthur Conan Doyle, il secondo episodio della serie - “Sherlock Holmes - Gioco di ombre” - è anche migliore del primo. E' scritto da Michele e Kieran Mulroney, con un cambio di sceneggiatori rispetto al film precedente.
Avendo già spianato il terreno con la sorpresa di una coppia Holmes-Watson giovani e atletici (e un Watson decisamente meno eterodiretto di quello tradizionale), Guy Ritchie può dedicarsi interamente tutto al racconto, cosa che gli va benissimo, giacché il regista inglese è un affabulatore compulsivo, innamorato della narrazione per il gusto della narrazione, sempre pronto a perdersi in particolari e in digressioni. Certo, una serie hollywoodiana di forte impegno produttivo come questa non gli permette di esercitare a suo piacere il suo sguardo “laterale” (nota però la bellezza di qualche dettaglio buttato lì, come quel cane bianco interessatissimo durante lo scontro fra Sherlock Holmes e il cosacco); tuttavia, per fare una buona narrazione c'è bisogno esattamente di uno spirito simile, cosa che ignorano molti giovani “pragmatici” americani. Ritchie ama sfoggiare l'onnipotenza del cinema. La visualizzazione dei piani d'attacco di Holmes, oltre a quella dei ragionamenti, unita alla fattura elegante dei flashback e dei momenti di enfatizzazione mediante il ralenti (la fuga nel bosco) manifestano lo stile sciolto e fantasioso del regista.
Nel presente film Holmes se la vede col suo arcinemico ufficiale, il professor Moriarty: il film sfocia in una trascrizione del famoso racconto di Conan Doyle “Il problema finale”, quello delle cascate del Reichenbach. E il Moriarty di Jared Harris è il migliore che ci sia capitato di vedere sullo schermo (accanto a Leo McKern ne “il fratello più furbo di Sherlock Holmes”, d'accordo, ma quella era una parodia). Inoltre il film, che già si regge sull'eccellente coppia Robert Downey jr. e Jude Law, presenta anche un magnifico Mycroft Holmes nell'interpretazione di Stephen Fry (“Wilde”); la scena in cui compare a colazione completamente nudo, sconvolgendo la signora Watson, è da antologia.
Non bisogna dimenticare che è un film d'azione, al che provvede generosamente (volendo cercare il pelo nell'uovo si potrebbe osservare che la scena di mega-azione migliore è praticamente la prima, quella sul treno, mentre la scena madre nella fabbrica d'armi appare un po' lunga). Ma non è solo un action pepato con humour. Era ovvio che inserisse con abilità il classico lavoro di deduzione (dove Watson mostra di avere imparato bene la lezione di Holmes, a differenza di quello dei romanzi e di molte sue incarnazioni sullo schermo); in aggiunta, dà più spazio del primo film a un veloce gioco di rimpallo di battute tra Holmes e Watson che è gustosissimo, commedia screwball della più bell'acqua.
Soprattutto, il film adombra con delizioso umorismo l'elemento omosessuale insito nel rapporto Holmes-Watson (“la nostra relazione atipica”, lo chiama Holmes, urtando il vittoriano Watson che preferisce il termine “collaborazione”). Se il pretesto narrativo è quello di salvare i neo-coniugi Watson dalla vendetta di Moriarty, è esilarante vedere come durante il loro viaggio di nozze Holmes (che appare travestito da donna) si liberi della moglie di Watson buttandola dal treno; e quando subito dopo arruola il marito per una missione a Parigi dicendogli che è “la destinazione più ragionevole per una luna di miele”, non occorre essere il dottor Freud per vederci chiaro. Del resto, nella stessa sequenza, il suo “Dovrà giacere con me, Watson” stendendosi sul pavimento del vagone (per salvarsi dalle raffiche di mitragliatrice, certo, che credevate?) val più di una seduta dallo psicoanalista. Se Sir Arthur Conan Doyle vedesse questo film ne rimarrebbe passabilmente sconvolto: come lo specchio del dottor Jekyll, gli mostrerebbe un'insospettata verità.
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