venerdì 9 dicembre 2011

Miracolo a Le Havre

Aki Kaurismäki

Vi sono due modi di fare miracoli nel cinema. E va detto che di miracoli in “Le Havre” di Aki Kaurismäki ve ne sono diversi. Il primo è sociale: la congiura di solidarietà messa in atto dal lustrascarpe Marcel (André Wilms), dai suoi vicini di un quartiere popolare e da un poliziotto, che riescono a salvare un ragazzino negro clandestino e farlo arrivare a Londra dalla madre. Il secondo è medico e metafisico: l'improvvisa guarigione della moglie di Marcel, Arletty (la grande regular kaurismäkiana Kati Outinen) che stava morendo di cancro in ospedale. Il terzo è simbolico: la fioritura del ciliegio secco alla fine del film, che rappresenta quella fioritura nell'arido terreno della vita che è il miracolo.
Dicevamo, vi sono due modi di fare miracoli nel cinema. Uno è di esibirne esplicitamente la gloria con una sorta di esaltazione estremista, un innalzamento solenne nella costruzione del film, ed è il Frank Borzage di “Settimo cielo” (quel raggio di luce che scende dall'alto!). L'altro è di mostrarlo come un fatto che cade misteriosamente nel quotidiano, con sobrietà narrativa completa, ed è il Dreyer di “Ordet” - o Kaurismäki. Questi sono i due modi legittimi. Tutto il resto - le varie gradazioni di realismo engagé e poeticismo magniloquente - casca nel mezzo e si perde via.
Nel cinema di Kaurismäki l'amore è sempre la salvezza. La Le Havre umanissima del piccolo quartiere stretto attorno a Marcel e al suo protetto (ma c'è anche un corbeau, interpretato da Jean-Pierre Léaud!) ricorda un po' la Parigi anni '30 di René Clair e del Fronte Popolare. Sarà per questo che la moglie di Marcel si chiama Arletty: una magnifica attrice che leghiamo nella memoria al cinema francese di quella stagione, anche se rimase in attività ben più a lungo. Il film è pieno di nomi-omaggio. Il protagonista si chiama Marcel Marx: Marcel come Proust - Marx come Marx. Il ragazzino si chiama Idrissa come un grande regista africano, Idrissa Ouedraogo, il commissario di polizia Monet (farà di nome Claude?); a proposito, la storia, appena accennata in una scena, fra Monet e la padrona del bar è un pezzo splendido dell'asciutto romanticismo kaurismäkiano - quasi ancora più bello del film che lo contiene.
Lo hanno detto per Blasetti e chissà per quanti altri, ma l'espressione viene proprio in taglio qui: Kaurismäki filma come respira. Perché, semplicemente, filma comme il faut; riesce sempre a lasciarci con l'impressione (certo, unilaterale) che il suo sia l'unico modo possibile di filmare. Prendiamo la scena della visita di Monet dal prefetto, che gli ingiunge di trovare al più presto il fuggitivo. L'inquadratura piuttosto distanziata che rimpicciolisce il commissario e quasi lo schiaccia sul fondo; la mancanza del controcampo sul prefetto, che non essendo mai enunciato come viso resta una voce autoritaria che investe il poliziotto. Assolutamente perfetto. O guardiamo quando Marcel al molo lascia un sacchetto con soldi e cibo per il ragazzino nascosto in acqua: all'immagine del sacchetto risponde solo il suono di uno sciacquio, e non occorre altro.
La sobrietà stilistica di Kaurismäki tende all'epicità, quasi all'astrazione. Guardate i suoi personaggi! Immobilità e impassibilità sono le caratteristiche dei personaggi kaurismäkiani (la sigaretta che tengono in bocca non ne è che un prolungamento, un oggetto-simbolo). Il dramma esiste, ma resta chiuso dentro quella loro maschera alla Buster Keaton - e questo, oltre che servire alla sobrietà, ha anche un lato morale. Giustamente dice Marcel al ragazzino negro nel film: “Hai pianto?” - “No” - “Bravo. Non serve a niente”.
Il classico dialogo alla Kaurismäki, solenne non come lessico e fraseggio ma per via della sua pronuncia distaccata che provvede il tono epico, è il perfetto equivalente sonoro dell'impassibilità dei visi. Un vantaggio laterale è che esalta l'umorismo; non manca in “Le Havre” una nuova collezione di battute fulminanti in puro stile kaurismäkiano (Marcel al burocrate spacciandosi per il fratello del nonno del ragazzino negro: “Sono l'albino di famiglia”); di più, si può dire che lo crea, l'umorismo, perché la sua secca nettezza conferisce una buffa risonanza, impagabile, a quello i personaggi dicono. E se a volte il film sfiora il didattico, pure il didattico ci sta - proprio in ragione di questo tono epico.
Attraverso la sua maniera “fredda” Kaurismäki restituisce le emozioni con stupefacente intensità. Fra tanti, citiamo solo un passaggio: la bella scena della riappacificazione fra il vecchio cantante Little Bob e sua moglie (sguardi e sorrisi muti) si lega in montaggio alla scena di Arletty in ospedale che, convinta di dover morire, guarda il porto di Le Havre dalla finestra, come un addio. Ed è commovente e folgorante, questo, come l'ultima passeggiata della vecchia signora ne “La vedova del pastore” di Dreyer. Ancora un altro miracolo.

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