Kim Jee-woon
Se qualcuno ancora non credesse che il cinema d'azione del Far East non ha proprio niente da invidiare a Hollywood, anzi semmai è il contrario, gli basterebbe vedere il prodigioso inizio (che viene subito dopo un'apertura cospiratoria e sussurrata) del western orientale “Il buono il matto il cattivo” di Kim Jee-woon. Ecco due vertiginose discese in picchiata giù dal cielo verso i binari, quella dell'aquila e quella della macchina da presa; si identificano ma non si confondono; è una vera e propria dichiarazione d'intenti circa l'onnipotenza della mdp, che il suo patto faustiano con la computer graphics rende un occhio svincolato da tutte le leggi fisiche. Kim Jee-won celebra l'assolutezza dello sguardo esaltandosi in una sorte di ultra-espressività che non serve a trascinare lo spettatore dentro la storia quanto ad enunciare il proprio stesso trionfo.
Bisogna dire subito che il film del regista coreano (distribuito in Italia dalla coraggiosa, e a volte temeraria, Tucker Film) non vive all'altezza del suo splendido inizio. Anche se la narrazione resta gustosa, quell'esaltazione espressiva non è costante, e il film nel complesso risulta piuttosto episodico (da segnalare un episodio onirico e quasi gotico: quello dell'albergo-bordello nel deserto). La trama è a tratti un po' oscura e macchinosa, ma ciò probabilmente deriva dal fatto che l'edizione internazionale è ridotta rispetto a quella coreana.
Anche se Sergio Leone è evocato fin dal titolo (quello internazionale è “The Good, the Bad, the Weird”), e il film culmina in un duello a tre (un “triello”) che riprende il culmine di “Per qualche dollaro in più”, il riferimento a Leone non è stilistico ma narrativo: la caccia al tesoro da parte di tre personaggi. Siamo nella Manciuria anteguerra, occupata dai giapponesi, ma i protagonisti sono coreani in trasferta. Il matto è Song Kang-ho, delizioso ritratto di bandito tanto spietato quanto simpatico, che sogna di andare a Parigi grazie al bottino come Omar Sharif ne “L'oro di MacKenna” - e qui entra una citazione anacronistica di Je t'aime, moi non plus! Il buono è Jung Woo-sung, bounty killer coreano che dei tre è la figura più compiutamente western, non solo nel cappellone ma anche nelle inquadrature che lo riguardano, come quando si trascina dietro a cavallo Song Kang-ho prigioniero. Il cattivo (Manciuria Kid nell'edizione italiana) è Lee Byung-hun, un killer crudelissimo che nella sua smorfia da psicopatico dimostra di avere studiato attentamente i film western di Klaus Kinski.
Nella caccia al tesoro Kim Jee-woon spinge al massimo (e si diverte molto a farlo) la regola dell'accumulo. Il concetto tradizionale di diversi gruppi che convergono verso lo stesso punto (oltre ai tre ci sono un gruppo di banditi/ribelli e mezzo esercito giapponese) diventa una moltiplicazione delirante del concetto di inseguimento. Super-enfatico, ma con intelligenza, il film si basa su su un flusso inventivo ricco di umorismo (impagabile il matto col casco da palombaro) e su una balistica sfacciatamente esagerata. Quando il buono a cavallo fa fuori da solo la maggior parte dei soldati giapponesi armati fino ai denti, siamo oltre l'invulnerabilità da epos picaresco del western italiano: siamo ai fumetti jacovittiani di Cocco Bill.
Kim Jee-woon è un regista estremamente interessante (“The Quiet Family”, “The Foul King”, “A Tale of Two Sisters”), e “Il buono il matto il cattivo” non è il suo miglior film. E' un esercizio di piacevolissimo manierismo. Non ha intenti allegorici (“Eeeeh, maledetta avidità”, dice il matto con il classico sospiro-imprecazione coreano, che il doppiaggio riesce a mantenere: ma niente di più); in realtà non riflette neppure il linguaggio di Leone, né mette in scena più o meno nostalgicamente i topoi, alla George Lucas: di tutto questo c'è solo il simulacro; ma sedersi e lasciarsi catturare dal piacere visivo e cinetico resta comunque un'esperienza assai gradevole. E' soprattutto grazie ai tre interpreti che il gioco regge, perché vi portano una corposità che impianta il manierismo su basi solide. Cosicché quando alla conclusione viene finalmente messo in scena (con una deliziosa sorpresa finale) quel “triello” leoniano verso il quale il film precipita fin dalle prime inquadrature, è proprio quel loro grumo di concretezza (citazionista anch'essa, per carità, ma spiritosa e vitale) a fornire il cuore dell'interesse alla narrazione.
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