James Mangold
Avverto qui che la presente recensione dà per scontata la visione del film e quindi non rifugge dagli spoiler.
Interpretato
da Harrison Ford ottantenne, nei cui occhi brilla un lampo di
disperata tenacia che ricorda James Stewart, Indiana Jones e il
quadrante del destino di James Mangold presenta l’eroe eponimo a
settant’anni (siamo nel 1969, già sappiamo che Indy è nato nel
1899, il calcolo è facile). Inizia tuttavia nel 1944, e quindi la
prima apparizione di Indiana Jones, quando i tedeschi levano il
cappuccio al prigioniero, ha il volto di un Harrison Ford
ringiovanito grazie agli effetti digitali.
E’
ironico che un film imperniato sulla caccia a una macchina per
viaggiare nel tempo – l’antikhytera di Archimede – si apra con
una prima parte che viaggia nel tempo, trasportandoci nel 1944 con un
Indiana Jones giovane in lotta contro i nazisti (già sapevamo che
era stato nell’OSS). Steven Spielberg, produttore esecutivo con
George Lucas e padre putativo, vuole dirci una cosa molto chiara, che
peraltro ha ripetuto in tutto il suo cinema: la vera macchina del
tempo è il cinema stesso.
Non
per nulla Indiana Jones come personaggio è una raccolta di topoi che
fanno rivivere una precisa finestra temporale, gli anni dai Venti ai
Cinquanta del cinema d’avventura, dei serial, dei romanzi popolari
e dei fumetti di Milton Caniff & C. (questo in particolare nei
primi tre film; Il teschio di cristallo e il presente, com’è
naturale, guardano come punto di riferimento alla prima trilogia).
Dopo
la vittoriosa conclusione della parte iniziale, vero film nel film,
lo stacco ai calzini appesi ad asciugare dentro un modesto
appartamento – seguito dall’enunciazione shock del vecchio Indy
in mutande – è un brutale salto alla triste realtà del 1969. E’
evidente che Indiana Jones non ha fatto i soldi, pur essendo venuto
in contatto con tesori indescrivibili in quattro film, a onta di
quelli che lo descrivevano come ladro di reperti archeologici. E’
la figura tradizionale (già nel ciclo arturiano: Lancillotto sul
carretto) del declino dell’eroe. Indy vive una vita solitaria e
ordinaria, anche se questa non implica l’esser diventato docile:
quando va a bussare alla porta dei giovani vicini rumorosi, che
stanno festeggiando l’“allunaggio”, ha in mano una mazza da
baseball.
L’aspetto
deprimente della sua vita si vede anche nella lezione all’università.
Nel primo film, studentesse innamorate lo guardavano adoranti; nel
quarto, uno studente secchione gli chiedeva bibliografia, sebbene nel
momento meno adatto; in questo, vegetano sui banchi odiosi ragazzotti
annoiati e ignoranti, che confondono la Siracusa di Archimede con
Syracuse (Stato di New York). Per inciso, lo sguardo del film
sull’America del 1969 è discretamente feroce, con il governo USA
che si fa menare per il naso dal nazista Schmidt/Voller, e l’agente
nera scema (FBI? CIA?) che segue le istruzioni fino a farsi uccidere.
Un’America spaccata in due è mostrata plasticamente nella
giustapposizione delle due sfilate, quella in onore degli astronauti
e quella di protesta contro la guerra, apparentate dal fatto che in
entrambe un inseguimento porta lo scompiglio (al cinema le sfilate
servono a questo).
Dunque,
la stanchezza dell’eroe – anche declinata sul piano fisico in una
tirata memorabile durante un’arrampicata sulle rocce. La stessa
stanchezza che gli fa desiderare nel finale la fuga più radicale di
tutte le fughe: un auto-esilio nel passato, restando a Siracusa con
Archimede, ovvero il desiderio che l'oggetto dei suoi studi si
trasformi nella realtà effettuale.
Il
dialogo ci dà la backstory e forse la spiegazione del
declino di Indiana Jones: un lasciarsi andare: la morte in guerra del
figlio (Shia LaBoeuf nel Teschio di cristallo) e la conseguente
rovina del matrimonio con Marion (Karen Allen). Invero, questa
scomparsa del figlio ricorda le ellissi di Salgari negli intervalli
fra un libro e l’altro, in cui lo scrittore veronese si liberava
della Marianna di Sandokan e della Ada di Tremal-naik facendole
morire; ce n’è un esempio cinematografico analogo di Riccardo
Freda tra Aquila Nera e La vendetta di Aquila Nera (a dire la verità
ce n’è uno simile anche fra Aliens e Alien³,
in questo
caso estremamente rozzo e offensivo).
Quel
che importa segnalare è che, in un film basato sul concetto di
viaggio nel tempo, il desiderio (irrealizzabile e irrealizzato) di
Indy di tornare indietro nel tempo per impedire al figlio di
arruolarsi apparenta imprevedibilmente Il quadrante del destino a
un'altra saga cinematografica: Ritorno al futuro di Robert Zemeckis: il
concetto di modificare la storia per “curare” la sfiga presente.
E tuttavia, qui il senso è rovesciato rispetto all’ottimismo
“ingegneristico” della trilogia di Zemeckis. Come ci mostra il
finale, non è il cambiamento delle circostanze che modifica i
sentimenti ma il cambiamento dei sentimenti che modifica le
circostanze. Il toccante romanticismo dell’amore tra vecchi alla
fine de Il quadrante del destino ha un dialogo degno quasi di Robin
e Marian: “Ti fa male?” – “Mi fa male tutto” – “So
come ci si sente” – un bacio sul gomito: “Lì non mi fa male”.
La
figlioccia Helena detta Vombato (Phoebe Waller-Bridge) ha molto di
più dell’erede di quanto non l’avesse il ragazzo del Teschio di
cristallo. Ha le capacità fisiche, ha una soddisfacente ambiguità
morale, che naturalmente viene risolta in senso positivo (ricordiamo
l’ambiguità dello stupefacente inizio de I predatori dell’arca
perduta), e soprattutto ha cultura. Perché, non dimentichiamocelo,
la saga di Indiana Jones è una saga della forza e del cazzotto; è
una saga della resistenza e della tenacia; è una saga del saper
cogliere l’opportunità (come si vede anche nel presente film,
Indiana Jones è il più grande ladro di veicoli della storia del
cinema); è una saga dell'autocontrollo (Sean Connery ne L’ultima
crociata di fronte all’agitazione del figlio: “Conta fino a dieci
– in greco”); ma soprattutto è una saga del cervello e della
cultura. Per questo i giovani imbecilli che vediamo nella scena già
citata della lezione all’università non sarebbero
darwinisticamente adatti a sopravvivere nella più facile delle
avventure di Indiana Jones. Lo è, eccome, quella che sembra l’unica
studentessa brillante, e invece è Helena, venuta lì con un’agenda
tutta sua.
Parlando
appunto di cultura, è affascinante la decodifica del messaggio
segreto sulla tavoletta, un’anticipazione dell’esibizione di
cultura classica della parte finale: su questo terreno la
sceneggiatura è addirittura coraggiosa, considerando il livello
medio degli adolescenti americani che andranno a vedere il film. La
parte finale, con il trasferimento involontario nel tempo e
l’incontro con Archimede (Nasser Memarzia) è veramente molto
bella, e resterà fra gli highlights della saga di Indiana Jones il
concitato dialogo in greco antico fra Archimede, Indy e Helena:
geniale l’immissione nel greco antico, in bocca a lei, del termine
inglese internazionale “fan”.
Sebbene
il ritmo sia a volte un po’ irregolare (ma a dire la verità lo era
anche nello spielberghiano Il regno del teschio di cristallo), James
Mangold si è calato bene nelle scarpe di Spielberg. Certo, non
troviamo ne Il quadrante del destino il grande tema spielberghiano
della terribilità della visione (né le sue luci bianche sparate
contro l’obiettivo, se non magari un accenno in una breve scena,
dove forse le vediamo solo perché ce le aspettiamo). Ma sicuramente
c’è nel film quello che sta al cuore del cinema di Spielberg: il
concetto di Quest.
Perché
nei film di Indiana Jones l’oggetto della ricerca non è un
MacGuffin, non è qualcosa che serve unicamente a mettere in moto
l’avventura. Nei film di Indiana Jones la ricerca è una Quest, un
processo centrato sulla conquista di un oggetto-valore che determina
il senso del film (anche se poi magari verrà affidato all’ignorante
burocrazia americana e – come ci mostra Spielberg in uno dei
momenti più laici del suo cinema, il finale de I predatori dell’arca
perduta – finirà sepolto in un deposito, cassa fra altre miriadi
di casse).
E’
questo valore sacro della ricerca (c’è sempre in Spielberg un côté
mistico) che ritorna, esemplificato da un titolo come L’ultima crociata,
nella natura degli oggetti cercati: l’Arca dell'Alleanza, le pietre
sacre a Shiva, il sacro Graal, il teschio di cristallo; il presente
film poi, con uno scherzo delizioso proprio rispetto a questa
ricerca, si apre sulla contesa per la Lancia di Longino – che però
si rivela essere una copia moderna; mentre la vera macchina capace di
dare il dominio del mondo, l’antikhytera, è lì sotto il
naso dei nazisti, che non se ne accorgono (salvo il giovane Voller,
Mads Mikkelsen, che diventerà il villain del film).
Nell’ultima
inquadratura, il cappellaccio di Indy (oggetto simbolo, metonimico,
assieme alla frusta) è appeso a una molletta sul terrazzino – e la
mano entra in campo e lo afferra fulmineamente. Si chiudeva in modo
simile anche Il regno del teschio di cristallo: ma quella era una
orgogliosa riaffermazione di vitalità, ci diceva che Indy non era
ancora pronto a passare il testimone e il cappello al figlio, che lo
aveva preso. Nel presente film quell'immagine non vuol dire che
Indiana Jones tornerà (ma Helena?) in azione. Semplicemente, consegna
la figura all’eternità del mito.
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