Joseph Kosinski
All’inizio
di Top Gun: Maverick di Joseph Kosinski, il protagonista – che in
tutti questi anni non ha fatto carriera – fa parte di un progetto
per raggiungere Mach 10 con un caccia; ma il generale Cain vuole
terminare il progetto perché vuole il suo budget per il proprio
programma sui droni. Così Maverick (Tom Cruise) si spinge agli
estremi limiti per raggiungere l’obiettivo prima del tempo.
L’inizio
dunque pone una opposizione fra uomo (il pilota) e macchina (il
drone). E infatti più in là nel film un altro pezzo grosso della
Marina dice fuori dai denti a Maverick che il tempo dei piloti è
finito (risposta: forse… ma non subito). Questa opposizione perdura
per tutto il film, anche anteponendo la pianificazione al computer di
un attacco all’istinto del pilota (e qui c’è l’arrière pensée
che in fondo i piloti sono sacrificabili). Quando Maverick (chiamato a
preparare la mission impossible di un attacco a una centrale atomica
illegale, iperprotetta, in un imprecisato stato canaglia) insegna ai
suoi allievi a non pensare nel momento culminante della decisione,
“Se pensi sei morto”, in realtà sta mettendo al primo posto il
fattore umano, l’istinto che nasce dall'abilità (questo film
americanissimo non ne parla, ma ciò coincide perfettamente con la
concezione del buddhismo zen in merito).
Allargando
questo concetto, forse oltre misura, c’è la tentazione di trarne
un'analogia con il film stesso. Top Gun: Maverick è un film molto
umano, rispetto all’attuale cinema al computer, basato su calcoli
di marketing astratti, psicologie plastificate, movimento incessante che
pretenderebbe fare ritmo, dittatura della CGI (per tutto questo, cfr.
la decadenza della saga Jurassic). In Top Gun: Maverick ci sono
ancora dei tipi psicologici e c’è ancora uno svolgimento sui
sentimenti (il piacevole gioco sentimentale con Jennifer Connelly).
Niente di bergmaniano, si capisce, ma abbastanza per riconoscere le
tracce di un cinema che, almeno a livello di blockbuster, è sempre
più raro, al punto di avere un inconfondibile sapore d’antan.
Naturalmente
Top Gun: Maverick è facilitato dal programma di volersi costruire
come duologia assieme al Top Gun originario di Tony Scott, col quale
instaura un abile gioco di sovrimpressioni di momenti-immagine
(simboleggiati definitivamente dalla foto finale). Ma non cade nella
trappola del sequel-remake. Se nel primo Top Gun, un film della
giovinezza (dove tra l’altro un tipico atto da maverick di Maverick era
corteggiare la sua insegnante), la questione era “chi è più
bravo”, in questo, che è un film sulla maturità, salgono in primo
piano questioni di responsabilità, presente e passata. Ancora,
mentre il primo era un film sulla bravura, il secondo è anche un
film sul corpo – la sua fatica nel sopportare accelerazioni
impossibili (per superare, durante la missione, la “montagna della
morte”).
Chiaramente
qui entra la questione di Tom Cruise, che è quasi magicamente
giovane, sia a livello di personaggio (col suo sorriso da impunito)
sia di eccellente interprete. E’ uno shock vedere nel film il suo
incontro col suo coetaneo ed ex rivale, ora generale, Ace (Val
Kilmer), invecchiato e malato (anche l’attore!), che sembra suo
padre – ed ha le funzioni protettive di un padre, avendo difeso
l’indisciplinato Maverick negli anni, e ora indicandogli la strada
nei suoi turbamenti morali: “Lasciar andare”. E’ un tema,
quello della paternità, che per forza di cose era assente nel primo
film e che spunta prepotentemente nel secondo con il personaggio di
Rooster (Miles Teller). Sulle corse in moto, gli strappi alla
disciplina, le fughe dalla finestra delle signore, insomma
sull’allegra incoscienza giovanile di Maverick si stende la
sensazione del tempo che passa, com’è giusto in un film sulla
nostalgia e sulla responsabilità.
Ma
il discorso non sarebbe completo senza riconoscere il perdurare di
uno spirito americano quasi western (ricordiamo che il primo film si
concludeva con due aerei che si allontanavano insieme, come due
cavalli liberi in un film western). Ora, è solo dannata coincidenza (il
Covid), ma questo film concluso nel 2019 e che doveva uscire nel 2020
esce nell’anno di guerra 2022. Così nel presente film colpiscono
le immagini dello “stato canaglia” innominato: sono frondosi
paesaggi innevati (l’ispirazione era la Corea del Nord?) anziché
quelli caldi e desertici che siamo abituati ad aspettarci in questi
casi. Inevitabilmente richiamano alla memoria un altro stato
canaglia, più grande. Gli anni passano – ma c’è sempre bisogno
di un Top Gun.
Nessun commento:
Posta un commento