martedì 24 maggio 2022

L'angelo dei muri

Lorenzo Bianchini

Un avviso con la massima evidenza possibile: questa recensione è rigorosamente riservata a chi ha visto il film, non essendo possibile parlarne senza spoiler che ne danneggerebbero fortemente la visione. 

Una voce che parla dal muro… Nel malinconico e poetico L’angelo dei muri di Lorenzo Bianchini, Pietro (Pierre Richard) è un vecchio solitario che viene sfrattato dal suo appartamento polveroso, pieno di cose vetuste, in un palazzo fatiscente a Trieste. Non vuole lasciarlo: fabbrica una falsa parete e si costruisce un nascondiglio in fondo a un corridoio, una vera e propria tana, nascosta dietro una piccola grata; e fa dei buchi nel muro per spiare chi invade quello che era il suo territorio. Così diventa uno sguardo e una presenza nascosta – un concetto che sarebbe piaciuto molto a Edogawa Rampo, il padre del moderno fantastico giapponese. E’ evidente la centralità del tema dello sguardo, che interessa molto a Bianchini, come mostrano (fin dal titolo) Occhi e il bellissimo Oltre il guado. A livello profondo, si potrebbero dire molte cose su questo restringersi in una tana con una piccola apertura: ovvero sul rapporto fra questo buco dove Pietro si confina e l’inconscio.
Dapprima viene a vedere l’appartamento in affitto una donna con un bambino impiccione di nome Luca – ma non lo prende. Poi però compare una donna slovena (Iva Krajnc Bagola) con una bambina che sta diventando cieca (Gioia Heinz). In realtà la visita della madre di Luca innesta nell’inconscio il cortocircuito della memoria (specie perché Luca prende il libro di Verne che si rivelerà centrale nello svolgimento, con rabbia di Pietro che guarda nascosto; la polvere sul libro suggerisce allo spettatore un’idea di abbandono, ma in realtà allude a un passato rimosso). Pietro spia la vita delle due nuove venute – e poi entra in contatto con la piccola, parlandole quand’è sola; lei lo ribattezza l’angelo dei muri.

Partendo dal tema della solitudine, che lo ha sempre interessato molto, Bianchini in questo film lavora sugli elementi costitutivi del cinema, lo spazio e il tempo. Circa lo spazio, questa casa a scatole cinesi richiama l’elemento ricorrente in Bianchini dell’universo-trappola: un universo bloccato e ripetitivo che coinvolge tanto l’aspetto narrativo quanto quello spaziale, e li fa coincidere: dal labirinto infernale dei corridoi della scuola nel primo lungometraggio, l’acerbo ma ammaliante horror in friulano Lidrîs cuadrade di trê, ai rapporti temporali ritornanti di Custodes Bestiae, dalla comica descrizione di un universo bloccato nella demenza, un mondo ricorrente e centrifugo, in un film di isterismo e ripetizione quale l'ironico Film sporco, fino agli ottimi lavori della piena maturità.
L’angelo dei muri è un film che ha qualcosa di polanskiano (la prevalenza della soggettiva, il rapporto fra lo spazio esterno e la mente) – salvo l’elemento poetico, che Polanski non possiede. In realtà, però, Bianchini, regista atmosferico ed evocativo, è sempre stato assai legato alla soggettività (basta pensare a Occhi); per cui quello che ci appare vicino a Polanski non viene dal regista francese-polacco quanto da una poetica interiore. Il suo nuovo film non è un horror ma una poetica storia di fantasmi dell'inconscio e del ricordo; un doloroso film sul rimosso, sulla memoria che torna su se stessa e si materializza creando entro lo stesso nucleo di tempo due piani temporali diversi. Il film bene illustra la positiva duplicità di Lorenzo Bianchini: un massimalismo delle idee (non per nulla Bianchini si esprime per lo più nel campo dell’horror) che vengono concretizzate attraverso un minimalismo di tempi e di modi, nuances e sensazioni. E’ un film di allusioni e ambiguità, di specchi e di riflessi – né manca la figura del doppio nell’immagine dell’“altra” famiglia nella casa di fronte (un riflesso anch’essa, a suo modo) – ove va notato che al primo istante sono immobili come statue, prima che li metta in movimento l’attività psichica.
Inutile dire che l'interpretazione di Pierre Richard, muto per quasi tutto il tempo, è da premio internazionale. La sua capacità di trasmettere un mondo di sentimenti in un lampo di espressione lascia stupefatti. Poiché, inoltre, L’angelo dei muri si presenta come una fiaba nera (e non a caso il disco di Cinque settimane in pallone lo annuncia come “la fiaba di oggi”), Bianchini racconta di aver scelto Richard non solo per le sue grandi capacità attoriali ma anche perché nella sua fisionomia c’è un che di fiabesco, molto ben reso nei primissimi piani di Peter Zeitlinger. Ecco un altro apporto assolutamente fondamentale, la bellissima fotografia dell’herzoghiano Zeitlinger. Negli esterni: forse Trieste non è mai stata fotografata come, all’inizio, nell'inquadratura dal basso del protagonista con l’alto palazzo che “si slancia” verso l'alto alle sue spalle, in modo quasi espressionista. Negli interni, prevalenti: un autentico tour de force in primo luogo artistico, ma anche tecnico e materiale, che concretizza il punto di vista dell’“uomo nel muro” in modo indimenticabile.

La polvere è una presenza costante nel film, che è molto materiale e fisico sul piano dei corpi e delle cose. In questa casa senza tempo ritroviamo l’amore di Bianchini (anche scenografo) per i vecchi oggetti. Bianchini è un maestro nell'uso evocativo degli oggetti del passato, una caratteristica che lo accomuna a Pupi Avati: “horror antiquario” – e qui si potrebbe dir meglio “fantastico antiquario”. Il modo in cui viene gestita la doppia qualità del racconto – ieri e oggi, illusione e realtà, il ricordo e l'attuale – è magistrale. Così il film perviene a quella dimensione inquietante (una realtà che sembra oggettiva ma nella quale c'è qualcosa che “non torna”, fino alla rivelazione finale) che è uno dei capisaldi del fantastico. Inevitabile ricordare il racconto Un avvenimento sul ponte di Owl Creek di Ambrose Bierce che è un po' la Bibbia di questo tipo di fantastico; ne fu tratto un film nel 1962, La Rivière du Hibou di Robert Enrico, che mi spiace di non aver visto, ma salgono alla mente vari esempi più diffusi, a partire da Jacob's Ladder (Allucinazione perversa, che nel titolo italiano dà via ingenuamente la sorpresa) di Adrian Lyne. L’angelo dei muri è un film a rovesciamento, come Il sesto senso e The Others; la sceneggiatura (Lorenzo Bianchini, Michela Bianchini e Fabrizio Bozzetti) e il montaggio (del regista) ne riportano efficacemente l’ambiguità; solo dopo lo spettatore ripercorre all’indietro la visione per trasformare quelle piccole tracce enigmatiche – si potrebbe parlare di dissonanze – in tappe della comprensione e della rivelazione. Segni sparsi lungo il film, ora uno straccio insanguinato, ora un’antica vasca da bagno sporca e insanguinata. Oppure, il modello eccessivamente vecchio del televisore della donna; è vero che il film volutamente non dà indicazioni di tempo, ma il padrone della casa parla al cellulare: la fantasia di Pietro, o i fantasmi nella sua mente, che è lo stesso, sono rimasti legati agli anni ‘60. Peraltro Bianchini gioca pulito con il suo pubblico: la verità è lì, siamo noi che non la vediamo.
Il richiamo a Giulio Verne è raffinato. Cinque settimane in pallone (che compare sia come libro sia come lettura su disco in un vecchio mangiadischi) dapprima sembra solo un tocco scenografico, poi assume un valore sempre più importante nello sviluppo, con la mongolfiera giocattolo costruita da Pietro, e infine un valore simbolico e metaforico nel finale; ma se ci pensiamo (e L’angelo dei muri, lo abbiamo detto, è uno di quei film che vanno ripercorsi mentalmente all'indietro dopo la visione) il cuore del film è costruito sull’opposizione fra due movimenti associati e inversi, l’innalzarsi e il cadere.
C’è, nel film, un feroce senso di inesorabilità – che è giusto perché stiamo vedendo quello che è già accaduto. Al cinema il disco che s’incanta rappresenta sempre una dichiarazione del tempo che non passa e ritorna su se stesso: il “tempo sospeso” dei fantasmi – e della memoria. Tutte le storie di fantasmi (revenants) sono su un passato ritornante che si imprime sul presente. Le storie di fantasmi sono una coazione a ripetere.

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