mercoledì 18 maggio 2022

Far East Film Festival 2022: Giappone


One Day, You Will Reach the Sea di Nakagawa Ryutaro, una potente riflessione sui sentimenti correlata allo tsunami del 2011, potrebbe essere il film migliore della selezione 2022. Con una narrazione decisa e un’intensità ammirevole, eppure con leggerezza di tocco, il film parla dell’identità, del non detto, dell’amore inespresso e della perdita. E’ la cronaca “a posteriori” del rapporto fra la timida Kotani Mana (Kishii Yukino) e la sua amica, la più sicura Sumire (Hamabe Minami) (più sicura, ma per rapportarsi al mondo esterno ha bisogno della videocamera con cui filma). “A posteriori” perché Sumire è scomparsa nel grande tsunami, e quindi questo viaggio nel tempo si svolge sotto l’ombra della morte.
Nota che tanto le precise circostanze dell’accaduto quanto il tessuto dei sentimenti si svelano a poco a poco, lungo il film, creando un’autentica suspense del sentimento (sceneggiatura del regista da un romanzo di Ayase Maru). Alla base c’è una quieta drammaticità nella riflessione sulla possibilità (o meglio: le varie possibilità) di fare i conti col lutto. Si parla di Sumire ma anche del lutto in generale: una magnifica sequenza consiste nelle testimonianze di chi ha perso persone care nello tsunami, filmate semplicemente a mezzo busto a camera fissa. Ma in mezzo al dolore della perdita si ritrova un elemento, molto giapponese, di consolazione.
La fotografia di Ohuchi Tai è elegante senza essere leccata. Sul piano narrativo bisogna menzionare la bellezza con cui scene che abbiamo visto nella videocamera di Sumire riappaiono più tardi “dall’esterno” mentre vengono filmate – lo stesso vale anche per alcune scene oggettive – e il tempo (filmico) trascorso le rende maggiormente significanti. Sul piano della regia menziono solo, perché dà un’idea del modo di procedere leggero e allusivo di Nakagawa, un dettaglio: la notizia, ricevuta da Mana al telefono, della morte imprevista dell’amichevole capo del locale dove lavora viene introdotta da un breve piano sequenza che notiamo proprio perché non necessario (segue Mana lungo un corridoio) e così ci mette sull'avviso, ci prepara alla svolta drammatica.
Non c’è nulla di gridato; siamo più sulla linea dei classici; e anche lo tsunami, alla fine, viene risolto con un’ellissi perfetta e pudica, che apre alla seconda parte di una sequenza a cartoni animati, di tipo poetico, che fa da cornice al film.

Il brillante Love Nonetheless di Jojo Hideo è una commedia sentimentale agrodolce, benché tenga l'elemento agro molto sottotraccia. Parla di amore e di incertezza amorosa: non è casuale che nel film ritorni di continuo la parola nande (“Perché?”) o domande simili. Non è Rohmer, che può ricordare per la struttura, ma è agile e piacevole (e divertente).
Koji, libraio in un negozietto di libri usati, ha trent'anni ma di lui si è innamorata la sedicenne Misaki che continua ad andarlo a trovare in negozio e consegnargli lettere che finiscono sempre con “Per favore, sposami”. Koji è da sempre innamorato di Ikka, che però non l'ha mai calcolato. Ikka deve sposarsi con Ryosuke, e non sa che lui la tradisce con la padrona del negozio di abiti da sposa. Scoperte le tracce di un tradimento, Ryosuke limita i danni inventando una bugia relativa a una suo compagna di lavoro; ma Ikka decide di rendergli la pariglia con Koji. E' una ronde di incroci amorosi di personaggi, con un fluido spostamento di visuale: prima su Koji e Misaki, poi si sposta su Ikka e Koji, poi torna su Koji e la rediviva Misaki. Il film riesce a creare una quieta suspense su questi destini, fra ottimismo e tolleranza pessimista, con un bel dialogo (grande la scena in chiesa col prete e il suo “controcanto” dopo!) e con ottimi attori.

Un uomo in rovina dice a sua figlia di aver riconosciuto per strada un serial killer ricercato, e di volerlo catturare per la taglia. Poi l’uomo scompare e la figlia si mette a cercarlo. Questo è il punto di partenza del notevole Missing di Katayama Shinzo (che ha lavorato in passato con Bong Joon-ho) – ma c’è molto di più da scoprire e, potremmo dire, da vivere.
Racconto crudele pervaso di umorismo macabro, Missing ha punti di violenza visiva ai limiti dello splatter; tanto più che nel film si nota fin dall’inizio un’evidenza fisica dei rumori. Come molti film d’oggi, ha una costruzione anacronica che nel suo svolgersi all’indietro getta luce su quelle scene o dettagli che alla visione ci sono sembrati bizzarri – o anche no, ma che nel prosieguo assumono un diverso significato. La descrizione di Osaka, dove si svolge, e del Giappone è cupa e squallida sotto tutti i punti di vista. E la conclusione – dove si nota una sorta di imprevisto omaggio all’antonioniano Blow-up – è assolutamente desolata.

Popran è diretto dallo Ueda Shinichiro di One Cut of the Dead, il meta-film di zombi “in piano sequenza” che trionfò al FEFF nel 2018 – e poi in tutto il Giappone. Il film è una commedia piacevole, con ritmo veloce e tocchi indovinati. 
Proprio come il naso nel racconto omonimo di Gogol', qui c'è un'altra parte del corpo che una mattina sparisce con disperazione del suo possessore: il popran (il membro virile), lasciando solo un buco. Il protagonista Tagami Akira, editore di manga pieno di sé, scopre ben presto di non essere l'unico a soffrire di questa perdita. Una specie di conferenza ci dà tutte le informazioni in merito: i popran volano velocissimi, a catturarli si possono riattaccarle, ma dopo sei giorni da soli muoiono di malnutrizione, quindi bisogna sbrigarsi. Al pari delle altre vittime, Tagami si mette in caccia con reticella da farfalle per recuperare il membro ribelle. Ueda (regista, sceneggiatore e montatore del film) usa quest'idea assai divertente come base per un racconto morale, alla Buzzati diremmo in Italia; e questo non può essergli imputato a colpa perché è dichiarato fin dalla prima scena, dove vediamo che Tagami è un mascalzone di successo che ha licenziato il suo socio, ha abbandonato moglie e figlia e non fa visita ai suoi genitori da dieci anni. Siccome un'altra vittima ha colpe simili, se ne deduce che la perdita del popran è una sorta di punizione per l'egoismo mostrato; e infatti compare nei luoghi dove chi l'ha perso si è reso colpevole; per cui Tagami fa un viaggio presso le persone cui ha fatto del male, alla ricerca del proprio uccello. Lo condisce di bugie, dicendo che va a caccia di avvistamenti di uno Skyfish, che è una leggenda metropolitana, per documentazione. Tuttavia, il viaggio è comunque un insegnamento per lui (delicatissimo l'incontro del protagonista con la propria figlia, che ignora chi sia), anche se il film evita scene strappalacrime di pentimento. Personalmente trovo affascinante questa equiparazione del popran con la coscienza.
Naturalmente, fin da quando sentiamo all'inizio che Tagami è un editore di manga possiamo indovinare che vi è anche sottesa una linea metanarrativa: sarebbe una buona idea per un manga, dice la segretaria quando Tagami le racconta la vicenda come delirio; e alla fine Tagami si vede proporre la sua stessa “malattia” come invenzione per un fumetto da un giovane autore.

I kaiju sono quelle creature gigantesche e pesantissime, il cui capostipite è Godzilla, che zampettano fra i grattacieli distruggendo Tokyo. Orbene, quando noi diventiamo matti a dividere l'immondizia fra i vari cassonetti e ricordarci in quale giorno vanno messi fuori, già ci lamentiamo della nostra sorte, ma… e se dovessimo smaltire la ciclopica carcassa in decomposizione di un kaiju morto? E’ questo il problema con cui ha a che fare il governo giapponese nel film satirico What to Do with the Dead Kaiju? del provocatorio – e ben noto al pubblico del FEFF – Miki Satoshi. Su questa questione il governo giapponese annaspa, si divide, fa mille riunioni con continui spostamenti, si perde in piani complicati, si dilania in lotte per il territorio politico fra enti, agenzie, ministeri. Alcuni dettagli sono perversamente divertenti, come il problema politico-burocratico di dare un nome appropriato al tipo di fetore emesso dalla carcassa (non dimentichiamo che ad annusare sono gli elettori!); e seguono manifestazioni con cartelli da parte di chi non è d’accordo. E poi, se nel cadavere si celassero pericoli peggiori della puzza?
I kaiju (per quel che ne sappiamo) non esistono; ma i moderni governi ipertrofici sì. La satira politica, frammista a una sottotrama avventurosa meno felice, di What to Do with the Dead Kaiju? non fa che riprendere, estremizzandolo, un elemento satirico già presente nell’ultimo Godzilla giapponese, Shin Godzilla di Anno Hideaki e Higuchi Shinji, del 2016: era un film serio e drammatico, però anche lì l’impaccio del governo giapponese di fronte all’attacco del mega-dinosauro radioattivo (memorie dell’incidente di Fukushima!) faceva sì che nel film i mostri enormi, goffi e pesantissimi fossero due. 

Hiroki Ryuichi, lo sappiamo, si divide tra film “intellettuali” di alto livello ed ambizione (River, Side Job.) e film di genere, più commerciali e di ambizione minore (Policeman and Me). Un suo indubbio difetto è che raramente riesce a costruire l'incrocio perfetto tra questi due gruppi (un esempio riuscito è The Egoists). Noise, che appartiene al secondo gruppo, è un film non spiacevole ma narrativamente forzato. Il modello è La congiura degli innocenti di Hitchcock (qui però il morto è autentico): una menzogna coinvolge sempre più gente, in un’isola impoverita che il protagonista sta risollevando con una coltivazione di fichi pregiati. Qui arriva un pazzo assassino (hitchcockianamente, che sia pazzo è evidente a tutti ma che sia un assassino lo sanno solo gli spettatori). Il protagonista Keita e i suoi amici Jun e Shin (giovane poliziotto) credono che abbia rapito la figlia bambina di Keita; ne nasce una colluttazione in cui il demente batte la testa e muore.
Ecco un esempio delle forzature logiche del film: siamo nel campo dell'incidente per legittima difesa (e anche se così non fosse, la cosa più semplice sarebbe stata alterare un po' la verità); invece i tre decidono di nascondere interamente l'accaduto, e di lì si scatena una valanga di bugie – mentre arrivano due odiosi poliziotti da fuori a investigare sul pazzo – che chiamano altre vite. Il problema centrale di Noise è la sua incapacità di assumere un tono. Hiroki ci immette alcuni momenti di commedia nera esagerata del tutto scollegati dal resto, totalmente serio, e il film risulta squilibrato. Il selvaggio overacting di alcuni attori, come il burocrate in visita e la sindaca del paese, avrebbe avuto senso solo in un film interamente costruito sul registro della commedia. Come che sia, con una sorpresa finale il film si chiude sotto il segno di un dolore universale che rientra molto nella visione di Hiroki.

Il FEFF contiene sempre una piccola sezione di capolavori restaurati, e qui non si può non menzionare il meraviglioso Pale Flower (1964) di Shinoda Masahiro, esponente della New Wave dell’epoca meno noto del suo collega Oshima Nagisa. E’ un noir ambientato nel mondo della yakuza, e basta la potenza dell’immagine di apertura – una statua di donna nuda in atteggiamento drammatico in primo piano sullo sfondo della stazione di Tokyo – per inchiodare lo spettatore, che seguirà il film in stato quasi ipnotico nei suoi giochi di ombra nera e lame di luce (l’incredibile fotografia – che è anche uno degli utilizzi del formato scope più belli che abbia mai visto – è di Kosugi Masao).
Lo yakuza Muraki, appena uscito di prigione per aver accoltellato un membro di una banda rivale, attraversa la stazione ed è, il suo, un pensiero in voce over di nichilismo esistenziale (“uomini… bizzarre creature”), che pone il tono di tutto il film. Muraki incontra alla bisca clandestina una donna, Saeko, che gioca forte ed è nichilista come lui, cercando emozioni sempre più forti. Tutti e due si lasciano trascinare senza resistere da un destino di accettazione del nulla (anche simboleggiato in una scena da un negozio pieno di orologi).
Ci sono nel film numerose sequenze di gioco d’azzardo che assume un valore metafisico. Fra i due nasce un’attrazione e poi un amore non dichiarato né dichiarabile da parte di nessuno dei due, che continuano in una spirale distruttiva (oltre al gioco d’azzardo, c’è una incredibile sequenza di gara di sorpassi a cento all’ora in auto nella notte), e sullo sfondo c’è la tentazione di Saeko verso la droga. 
Il racconto è severo, ellittico, spietatamente netto come in un film di Samuel Fuller (per combinazione, presente al FEFF con un film in retrospettiva), e il finale disperato è incredibilmente potente. Oltre alla fotografia e al montaggio secco, nervoso, va menzionata la magnifica score di un jazz dissonante. I due ottimi protagonisti sono Ikebe Ryo e Kaga Mariko.

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