La
prima cosa che si nota nell’eccellente Tomb of the River di Yoon
Young-bin è il montaggio spietato. Il racconto, specie all'inizio, è
frazionato violentemente in momenti che creano una sorta di puzzle.
Al centro sta la lotta fra gangsters per il controllo di un resort
sulla riva, con uno spietato nuovo arrivato da Seoul che vuole farsi
largo a tutti i costi e fa saltare qualunque ipotesi di pace nella
malavita. Il film può ricordare quelli di Kitano Takeshi della
trilogia Outrage per la sua visione nerissima dell'esistenza sia
all'interno del mondo gangsteristico sia, per estensione, nella vita
al di fuori; ma anche per una bellezza visiva spietata (non si può
che ripetere l'aggettivo) nelle scene di omicidio.
“In
questo mondo, le parole sono
inutili”: a differenza
dell'immediatezza materialistica dell'ultimo Kitano, c'è in
Tomb of the River
un'evidente tendenza
“filosofica”, sentenziosa, che serpeggia nei dialoghi e
dà loro una risonanza poetica; e
fa pensare al noir classico americano col suo nichilismo romantico.
“Scappare non risolve niente – solo la morte mette fine alle
cose”, oppure “Il
romanticismo
è morto da un pezzo” –
e questo
in un film dove non c'è una storia d'amore ma solo un'illusione di
amicizia fra un poliziotto e il protagonista). In effetti questo
resort per cui ci si batte è come l'oro in un film di John Huston,
più un sogno e un'illusione che un bene concreto. Alla fine la neve
cade allo stesso modo su tutti i morti e sull'ultimo sopravvissuto
che ha perso l'anima.
In
The Apartment with Two Women di Kim Se-in due donne coreane, una
madre single e una figlia adulta, vivono insieme con pochi soldi
tormentandosi a vicenda: la madre è sempre stata assente e ostile,
la figlia è cresciuta odiandola; è uno sbranarsi reciproco alla
Polanski, con un comportamento che tocca la psicopatia. E tuttavia,
il film regala
una carica di umanità stupefacente a entrambe. Anche
la madre “snaturata”
mostra un lato terribilmente umano, in cui possiamo riconoscerci,
durante il tragicomico corteggiamento da parte di un brav'uomo con
figlia adolescente. Se Jean
Renoir diceva
(ne La regola del gioco) che
il tragico della vita è che ciascuno ha le sue ragioni, la
regista e sceneggiatrice Kim Se-in potrebbe modificarlo così: il
tragico della vita è che ciascuno ha le sue disperazioni. E il dolore ci rende pazzi.
In
questo girarsi attorno, allontanarsi e riavvicinarsi ringhiando, dai
toni dostoevskiani, non sembra esserci risoluzione nella coppia,
nemmeno quando nel finale sembriamo andarci vicino, nella sequenza in
cui è mancata la luce, che ha una drammaticità silenziosa alla
Imamura. Alla fine la figlia se ne va – e nell'ultima scena il
fatto che la commessa di un negozio di abbigliamento le prenda le
misure simboleggia una rinascita.
Sono
due eccellenti interpretazioni di Lym Ji-ho e Yang Mal-bok, e in
particolare Yang Mal-bok (la madre) è indimenticabile con la sua
arte di far apparire le emozioni su un viso raggelato mantenendo nel
contempo un elemento di mistero. Il montaggio, ellittico ma chiaro, è
di un'eleganza incantevole – se si può usare l'aggettivo per un
film di questa dolorosa intensità.
Costruito con bella tensione da Yoon Jong-seok, il giallo-thriller Confession è un film a molti strati. Per evitare spoiler, limitiamoci alla situazione di partenza: il giovane rampante, sposato, Yoo Min-ho è accusato di aver ucciso la sua amante. Si proclama innocente ma è difficile convincerne la polizia: è un classico “delitto della camera chiusa” dove lui è stato trovato col cadavere. Yoo è in libertà provvisoria in uno chalet di montagna ma teme che lo arresteranno nuovamente. Sotto la neve, che è una marca simbolica nel film, va a trovarlo un'avvocata raccomandatagli perché non ha mai perso una causa (una grande interpretazione di Kim Yun-jin), per discutere la sua difesa. Come primo livello, Confession è un noir, non nel senso generico di thriller metropolitano ma in quello del noir classico: l'accanirsi del destino contro un uomo in seguito a una colpa (qui l'adulterio), che nel meccanismo fatale si amplia a valanga. Ma c’è un secondo livello: i racconti in flashback, intessuti di menzogna e verità, e le ricostruzioni ipotetiche, anch'esse visualizzate in forma di (pseudo) flashback, fanno assomigliare il film a una sorta di Rashomon nero.
Kingmaker di Byun Sung-hyun affronta il tema della moralità nella
lotta politica. Nel 1971, un politico onesto, Kim Woon-bum, è
candidato del Partito Democratico contro il presidente-dittatore Park
del Partito Repubblicano. Seo Chang-dae (Lee Sun-kyun, visto anche in
Parasite) sta dalla sua parte ed è abilissimo nel condurre le
campagne elettorali, sicché è prezioso per l'ascesa di Kim nel
paese e dentro il partito. Il problema è che – mentre gli
avversari com'è prevedibile giocano sporco – anche Seo gioca
sporco: è per una buona causa, ma fin dove è lecito? Qual è in
politica il rapporto tra i mezzi e i fini?
Seo
è soprannominato “L'ombra” (infatti il film collega più volte
la sua figura con la sua ombra); il suo sogno sarebbe di “uscire
dall'ombra”, come dice, ed emergere come politico, ma invece Kim
finisce per licenziarlo per ragioni morali. Per rivalsa Seo mette le
sue capacità al servizio del partito di Park, e con un trucco
particolarmente cinico gli fa vincere le elezioni. Da notare che i
personaggi alludono con nomi cambiati alla storia reale; la figura e
la storia di Seo sono ispirate a un autentico stratega elettorale
coreano, e anche la figura di Kim Woon-bum è modellata su quella di
Kim Dae-jung, che arrivò effettivamente vicino a battere il
presidente Park Chung-hee.
Hostage: Missing Celebrity è un thriller coreano sul rapimento di un attore ispirato al cinese Saving Mr. Wu di Ding Sheng, ove la cosa interessante è che il protagonista del film, Hwang Jung-min (ben familiare al FEFF) è anche personaggio: ovvero, il suo personaggio è il divo del cinema d'azione Hwang Jung-min e i film da lui interpretati citati nel film sono proprio quelli di Hwang. Questo riflettersi “meta” del plot nella realtà – o in qualcosa di simile alla realtà – è un'ottima trovata. Scritto dal regista Pil Gam-sung, il film mantiene un buon ritmo e dipinge con impegno un gruppo di villains psicopatici del tipo che fa venire voglia di sparargli contro lo schermo. Una cosa difficile da capire è come mai Pil Gam-sung, dopo essere riuscito per tutto il film a mantenere una dignità umana all'attore spaventato e picchiato, lo mostri in un imprevisto atto di vigliaccheria: uno dei rapitori lo ucciderà se lui non implora di uccidere al suo posto la ragazza rapita assieme a lui – e lui lo fa (“Ammazza la cagna”). Non faccio un discorso morale – chissà come agiremmo noi nella stessa situazione, anche se fuori dal pericolo tutti ci lusinghiamo di pensare che manderemmo al diavolo il bastardo – ma di coerenza di sceneggiatura. In ogni modo, il film è agile e, senza essere un capolavoro, si lascia seguire volentieri, mantenendo l'adeguata tensione. Fra gli interpreti si segnala Lee Yu-mi, che è diventata una star in Corea grazie a Squid Game. Il post-finale è metanarrativamente ironico, con un ricordo di Misery (il romanzo, non il film).
In
Thunderbird di Lee Jae-won la “Thunderbird” (da uno sticker che
ha sopra) è un'auto che contiene una grossa somma ed è stata
impegnata – a insaputa di ciò – dai recuperatori di debiti
mentre il suo proprietario Tae-min (Lee Myeong-ro), un giovane
esempio di stronzetto totale, è ubriaco. Attorno alla macchina si
scatena una ridda con Tae-min, suo fratello maggiore tassista
Tae-gyun (Seo Hyun-woo) e la ragazza del primo, Mi-young (Lee Sul)
che cercano di recuperarla. Ne fa le spese la padrona dell'agenzia di
pegni su automobili (un'altra bella interpretazione della
caratterista Park Seung-tae, vista in tanti film). Menziono anche Kim
Gyu-baek nel ruolo di un picchiatore mezzo pazzo che è in fondo
(molto in fondo) il più umano e disperato.
Come
si vede dai nomi, è un film di ottimi attori. Il ritmo è
indubbiamente vivace; il modello è il noir del genere “nessuno è
pulito”. Nella prima parte del film sembra essere la storia di un
uomo per bene (il tassista) che soffre per colpa di un fratello
bastardo; nella seconda parte vediamo che neanche Tae-gyun è
innocente. Il film è ambizioso, ma
non raggiunge la grande ambiguità di personaggi del noir: siccome le
psicologie appaiono elementari, il cambio di prospettiva morale
attorno a Tae-gyun risulta
un po’
forzato, e questo non
è l’unico tratto a sfidare alquanto
la “sospensione dell'incredulità”.
Mi
scuso per avere perso, e non ancora recuperato il film vincitore del premio del pubblico, Miracle: Letters to the President di Lee
Jang-hoon. Ora qualche altro film in breve.
In
Perhaps Love, esordio alla regia dell’attrice Cho Eun-ji,
la vita dello scrittore Kim Hyun è molto complicata. Dopo un romanzo
di successo, vive coi soldi dell’anticipo sul nuovo libro e non si
decide a scriverlo. Suo figlio adolescente (un cretino) piange per la
fidanzatina incinta di un altro e si incavola perché (mentre la
moglie di Hyun è all’estero) il padre ha una relazione con sua
madre, la ex moglie. La ex moglie ha una relazione segreta con il miglior amico di Hyun. Il giovane scrittore Yu è innamorato di Hyun
che è ultra-etero. Hyun è geloso di una giovane scrittrice in
ascesa – e non finisce qui. Perhaps Love si lascia guardare con una
certa simpatia, anche se nel complesso è piuttosto debole. Il punto
di forza sono le buone interpretazioni: oltre all’ottimo Ryu
Seung-ryon nel ruolo di Hyun, grande Lee Yoo-young nel ruolo della
disinibita vicina di casa che diventa amica del figlio.
In
Special Delivery di Park Dae-min l’attrice di Parasite Park So-dam,
nel ruolo di una guidatrice spericolata, sfodera una grinta
impassibile alla Clint Eastwood nella lotta per difendere un bambino
(che è purtroppo uno dei più antipatici mai visti al cinema). Le
corse sfrenate in auto sono l’argomento di interesse del film, che
infatti perde forza quando non ci sono, e deve reggersi solo sulla
classica ultra-cattiveria dei banditi.
Va
menzionato infine il teso e spettacolare Escape from Mogadishu di
Ryoo Seung-wan, appartenente a una sezione del FEFF limitata al 2022
che “recuperava” film già visti nei festival. Nella Mogadiscio
in rivolta
nel
1991, i
membri dei corpi diplomatici sudcoreano
e nordcoreano
(come dire cani e gatti) devono rifugiarsi insieme all’ambasciata
del Sud. E per salvarsi
(sembra invenzione ma il film di Ryoo Seung-wan racconta una
storia accaduta) fuggono
insieme verso
l’ambasciata italiana. Il
film descrive con vivacità il crollo del regime somalo col
progredire della rivolta, ed è indubbiamente emozionante nelle parti
d’azione, che culminano nella fuga dei diplomatici verso
l’ambasciata italiana – alquanto romanzata rispetto alla realtà
– in auto provviste di una difesa antiproiettile di fortuna (libri
attaccati alla carrozzeria con lo scotch!).
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