lunedì 16 maggio 2022

East Film Festival 2022: Hong Kong e Taiwan


Diviso in dodici capitoli di lunghezza diseguale, l’hongkonghese Twelve Days di Aubrey Lam racconta dodici momenti importanti nella storia di una coppia, Jeannie e Simon. Li incontriamo fidanzati (in cerca di un posto dove amoreggiare in pace), si sposano, attraversano tutti i problemi del matrimonio, si separano – e poi si rimettono insieme: ma per quanto? L'ultimo episodio mostra umoristicamente, con la centralità di un piatto di spaghetti che si raffredda, che il maschilista Simon non è cambiato.
Stephy Tang nel ruolo di Jeannie è eccezionale. Anche Edward Ma (Simon) è bravo, ma il suo compito è reso più facile dal fatto che deve interpretare un cretino. Scritto e diretto da Aubrey Lam, il film ha una natura che si può definire – in senso buono – vignettistica, ovvero la capacità fulminante nel tratteggiare un momento o una situazione. Un esempio: un episodio particolarmente breve in cui Jeannie sta giocando al bowling e vince, e si accorge che Simon (che perde) si sente umiliato; allora fa in modo di perdere, in una specie di “sacrificio d’amore”. Il film mostra in modo prismatico tutte le sfaccettature del rapporto coniugale. Quello che più colpisce è il suo carattere di totale riconoscibilità – nel senso che riconosciamo queste situazioni (e contestualmente, ci riconosciamo in esse) al di là di qualsiasi differenza culturale. 

Gli appassionati di cinema asiatico hanno un particolare amore per Hong Kong e per il cinema wuxia; e Legendary in Action! di Justin Cheung e Li Ho celebra proprio quel cinema (di cui si è visto al FEFF anche un bell’esempio d’epoca col restauro del taiwanese The Swordsman of All Swordsmen di Joseph Kuo). “Tiger” Cheung è stato ispirato a diventare regista da una serie wuxia televisiva che guardava da bambino. Ora vuole rilanciare la sua carriera pericolante con il remake del suo ultimo episodio, che sarà interpretato dallo stesso attore protagonista della serie (tranne appunto quel decimo episodio), l’ormai anziano Dragon Tin. Ma nascono pesanti guai finanziari; la moglie incinta di Tiger lo accusa di trascurarla perché troppo preso dal film; e il peggio sono i problemi sul set. Il vecchio Dragon è intrattabile, prende troppo sul serio la parte e quindi sul set mena botte da orbi, e quel ch’è peggio ha l’Alzheimer…
Il film è l’omaggio più caloroso e commosso al wuxiapian che si possa immaginare (il modellino che compare nel finale non ricorda Chor Yuen?), o meglio, a tutto il vecchio cinema popolare hongkonghese. Non solo in modo implicito: il discorso che Cheung fa alla prima del film è un vero manifesto – e al suo grido finale “Teniamo sempre su il cinema di Hong Kong!” si saranno uniti spiritualmente tutti gli spettatori del Far East Film Festival.

Anche al centro di Table for Six di Sunny Chan risuona l’amore per Hong Kong e per la sua cultura, in tutti i sensi – a partire da quello materiale, con un personaggio (interpretato da Stephy Tang) che fa collezione di memorabilia hongkonghesi (vecchie insegne di ristoranti e decorazioni varie) e ne riempie la casa dove si trasferisce. Lì abitano tre fratelli litigiosi costretti a vivere sotto lo stesso tetto dal testamento della madre (eppoi non dimentichiamo i problemi di alloggi a Hong Kong, sui quali Fruit Chan ha realizzato il memorabile Coffin Homes). L’interazione fra questi personaggi e le rispettive fidanzate, con incroci vari di rapporti, crea una commedia graffiante, parlata in cantonese naturalmente, e sorretta da ottime interpretazioni. Non è difficile indovinare che questo intrico di contraddizioni sia destinato a esplodere in una grande resa dei conti che si lascia dietro un paesaggio di macerie sia relazionali sia materiali. E tuttavia, una ricomposizione finale che rivendica il valore dell’unità familiare ricostruita assume con facilità un valore metaforico, dove possiamo vedere in questa grande casa l’ex colonia, esortata a mantenere la sua unità di fronte al regime, che prende di mira non solo le libertà democratiche ma la stessa esistenza della cultura hongkonghese. 

The First Girl I Loved è un’opera prima dei co-registi Candy Ng e Yeung Chiu-hoi. Dell’opera prima ha una certa traccia di zelo estetico: per esempio il gioco d’inquadratura rovesciata col riflesso nell’acqua che la apre è elegante, ma ha qualcosa che sa un po’ di showing off. Però questo dettaglio perde importanza davanti a una narrazione intensa, di un realismo umanistico, sull'amore tra due ragazze al tempo della high school (grande il bacio in pubblico nel cortile della scuola fra gli oooh! delle compagne), sull'amore che a volte passa a volte perdura, e sul ricordo: la differenza delle prospettive nella memoria. Non mancano alcune interessanti osservazioni verbali sul cinema. Il racconto in flashback ha leggerezza e vivezza descrittiva, che si allarga a due bei ritratti di padri comprensivi. E’ un’opera prima che fa piacere vedere – e non solo per il fatto estetico: è un film che per la sua umanità appare, come dire, più che mai civile ai tempi del cupo nazismo putiniano.

Spostiamoci ora a Taiwan. L’agrodolce Mama Boy incrocia tre personaggi: il “cocco di mamma” Xiao Hong, impacciato con le ragazze fino a risultare scostante; sua madre che cerca di procurargli una fidanzata; Sister Lele (Vivien Hsu) che è la maitresse di un bordello travestito da hotel. Il cugino porta lì Xiao Hong e va a finire che lui resta vergine ma nasce un rapporto fra lui e Sister Lele, fatto di amore celato da parte di lui, affetto quasi materno da parte di lei. Non qualcosa che la società – men che mai quella madre benintenzionata e impicciona – possa tollerare.
Forse Xiao Hong è descritto in modo un po’ troppo programmatico (ma l’interpretazione di Kai Ko è buona, col suo progressivo passare da imbranato totale a una progressiva maturità). D’altro canto in Sister Lele, una donna saggia e sfortunata, vediamo un quadro psicologico assai convincente (e Vivien Hsu, di grande espressività, è eccellente davvero). Il film di Arvin Chen ha molti tratti divertenti ma nel complesso è avvolto da un’aura malinconica, come si vede dall’inizio e la fine (circolari) dove si parla simbolicamente della morte dei pesciolini comprati nel negozio di pesci da acquario dove lavora Xiao Hong.

Certo, non siamo più ai tempi “positivisti” della Universal e della Hammer, in cui tutto era chiaro e logico: il mostro o l'infestazione da trattare come una malattia: sintomi, cura, guarigione. L’horror contemporaneo, di cui è esempio Incantation di Kevin Ko, è molto più ambiguo e allusivo.
Sei anni prima, la protagonista Ruo-nan, incinta, il fidanzato e il fratello di lui sono andati in mezzo al nulla a filmare uno strano rito della famiglia dei due, per mettere il filmato su Internet: si sentono i cittadini laici e scettici in opposizione ai paesani superstiziosi. Questi intrusi si muovono con una supponenza incredibile e finiscono per scatenare, violando una galleria proibita, la divinità maligna (chiamata la “madre-buddha”) alla quale il villaggio rivolgeva l’incantation. Sei anni dopo, Ruo-nan ha appena ottenuto la custodia di sua figlia bambina dopo varie traversie – ma il disastro è in agguato.
Il film, che si muove tra i due tempi, è un P.O.V., come REC o Cloverfield. I problemi dei film P.O.V. (peraltro in realtà il P.O.V. appartiene più all’ordine retorico che a quello narrativo, ma questo è un altro discorso) sono sempre gli stessi: a) Chi filma? C’è una spiacevole confusione tra filmato diegetico, cioè P.O.V., e ripresa oggettiva; b) Chi monta? In rapporto alla registrazione il montaggio dà sempre un’aria artificiale (a meno che non sia esplicitamente giustificata sul piano del racconto, come in The Blair Witch Project), e qui come se non bastasse l’artificialità del montaggio c’è anche un uso (limitato) di didascalie; c) Infine c’è sempre una lieve tensione sul piano logico, perché questi personaggi continuano a filmare e non mollano la videocamera neanche se, come qui, stanno scappando da una galleria dell’orrore o correndo all’ospedale. Va detto però che nel presente film questo terzo punto trova una giustificazione perché la mania del filmare è necessaria al rovesciamento finale.
Il quale è interessante invero (attenzione: spoiler). Va premesso che il film inizia con un’interpellazione al pubblico chiamando in causa le sue capacità percettive, con l’ausilio di trucchi; e sembra una micro-versione demenziale del progetto di Orson Welles per l’inizio di Heart of Darkness. Ora, alla fine c’è un appello della protagonista al pubblico a recitare con lei la formula di preghiera che conosciamo, l’incantation di benedizione. E solo dopo lei svela al pubblico che lo ha imbrogliato (per salvare sua figlia): l’incantation in realtà era l’accettazione di condividere una maledizione. Questa compromissione nella maledizione è più efficace se si vede il volto proibito della statua, coperto da un drappo che lei toglie. E che noi guardiamo: come potremmo non farlo? Ed è una mostruosità vagamente lovecraftiana.
In altri termini, il film porta al massimo la “colpevolizzandone dello spettatore” di hitchcockiana memoria, utilizzando la sua “pulsione scopica” per coinvolgerlo direttamente
nel racconto.

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