domenica 15 maggio 2022

Far East Film Festival 2022: Cina


Guardando The Italian Recipe, un’inusuale coproduzione cino-italiana che ha aperto il festival, ci ritroveremo a casa: non solo per le immagini “turistiche” di Roma, dirette in primo luogo al pubblico cinese ma che da noi fanno scattare un riconoscimento gradito, ma soprattutto per l’immersione nell'atmosfera e nel parlato di Roma – anch’essi mitico-turistici, si capisce, ma nessuno si aspetta i fratelli D’Innocenzo: il film di Hou Zuxin ha nell'ambientazione una cordialità da commedia populista. Adorabili quei poliziotti concentrati sulla partita in tv, e non va mancata la sottile ironia della battuta seguente su “servire il popolo”, che porta a livelli più terreni la retorica ufficiale cinese. 
Peng, un cantante pop di Pechino sperduto a Roma, conosce Mandy, una ragazza (piena di diversi lavori) della comunità cinese della metropoli. Grandi questi cinesi di Roma che parlano italiano, con Mandy che in auto grida in perfetto italiano allo scooterista che le ha tagliato la strada “Ma che cavolo fai? Ma sei veramente un idiota!”. Il riferimento è ovviamente a Vacanze romane (e sì, c’è anche il giro in Vespa!), ma non solo. Se dimentichiamo la differenza di nazionalità, ecco che ci ritroviamo nell’atmosfera della commedia anni Cinquanta alla Poveri ma belli – e potremmo perfettamente vedere Maurizio Arena e Marisa Allasio al posto di Liu Xun e Huang Yao. È, come si dice in Asia, un film feel good, il che non guasta affatto di questi tempi.
La regista Hou Zuxin ama il suo lavoro e vuole farlo bene, non si limita a mettere la sceneggiatura su pellicola. Per esempio, com’è raffinata – quando Peng e Mandy appena innamoratisi girano per Roma dalla notte all’aurora – l’improvvisa trasformazione delle inquadrature da racconto oggettivo a una serie di (diegeticamente impossibili) filmini familiari – con tanto di rigature!

Sarà distribuito in Italia, grazie alla Tucker Film, l’eccellente dramma di ambiente contadino Return to Dust di Li Ruijun. In un matrimonio combinato dai familiari, un contadino né giovane né bello, il Quarto Fratello Ma, sposa una donna considerata di nessun valore, Guiying, che essendo stata maltrattata fin da piccola è timidissima, goffa, si bagna addosso. Sembra l’inizio di una storia cupamente naturalistica – e invece Return to Dust raggiunge toni di quieta elegia contadina nel descrivere la tenerezza che nasce e perdura fra i due, con gesti di un affetto pudico, mai verbalizzato. E Guiying (un’interpretazione monumentale di Hai Qing, quanto diversa che in Operation Red Sea!) attraversa una vera trasformazione. Ma il finale è triste.
Tutto focalizzato sul marito, la moglie e il loro asino sempre presente, è un film di poche parole e molti silenzi, basato su un forte sentimento del tempo e del lavoro, con al centro la madre terra: la fatica dei gesti, il passare delle stagioni. Sullo sfondo, lo sfruttamento da parte dei potenti (compresa la parte sulle donazioni di sangue) e la campagna del governo per demolire le vecchie case contadine. Sceneggiatura, montaggio e regia sono di Li Ruijun, ma bisogna menzionare anche l’eccezionale lavoro del direttore della fotografia Wang Weihua. Non produce semplicemente l’“immagine bella” (che ormai va a un soldo la dozzina) ma articola la composizione delle inquadrature con eccezionali framing. Ce n’è uno all'inizio – con la testa del Quarto Fratello in primo piano, a sinistra la sua immagine nello specchio e a destra in alto una finestra attraverso la quale vediamo due donne che parlano – da scuola di cinema.

Fa ribaltare dalle risate la commedia di Xing Wenxiong Too Cool to Kill, remake di un film di Koki Mitani. Wei Chonggong è un (pessimo) aspirante attore; l’attrice Milan e suo fratello regista Miller sono nelle grinfie di un boss, che desidera incontrare il killer senza volto Karl per portarlo dalla sua parte. Il guaio è che nessuno lo conosce. Per guadagnare tempo per fuggire, Milan dice di poterglielo presentare. Poi per mantenere la promessa, Miller e Milan convincono Wei che stanno girando un nuovo tipo di film con mdp nascoste e senza copione, a pro della spontaneità – e che lui deve interpretare la parte del killer Karl. Convinto che tutti questi gangster che incontra sono attori del film, Wei si lancia nell’impresa con un entusiasmo eccessivo. In un film ultracitazionista, il riferimento numero uno è John Woo (e Ringo Lam), ma già l'entrata in scena del protagonista è una deliziosa (e coraggiosa, visti i tempi) presa in giro dell'attuale, pomposo cinema bellico-patriottico cinese.
Non è solo una commedia brillantissima alla Billy Wilder, con il classico meccanismo di accumulazione delle menzogne. Il protagonista (Xiang Wei, un nome da tenere presente d’ora in poi) è fenomenale. La sua recitazione si muove su tre piani: il personaggio reale – la parte che interpreta – il suo folle overacting; in più, com’era prevedibile, conosce anche il registro del patetico. Anche se tutti gli attori sono bravi (a partire dalla spiritosa Ma Li che interpreta Milan), Xiang Wei trasforma il film in un one man show. E’ sicuramente uno di quei comici irrefrenabili che hanno bisogno di moltiplicare la propria figura. Oltre alla parodia dello heroic bloodshed, è una girandola di trovate (canta anche Singin’ in the Rain rifacendo la scena del film, senza che ci sia un particolare bisogno di sceneggiatura, solo per esibire le sue abilità). Poi noi abbiamo l'ulteriore bonus di una scena in cui parla italiano.
Anche la regia di Xing Wenxiong si fa notare, perché, in un film che si presta di per sé al discorso “meta”, Xing lo trasporta abilmente sul piano del linguaggio, per esempio con l’uso delle luci cinematografiche in inquadrature “reali” – sto pensando a quella in cui un riflettore si accende e rivela il malvagio Jimmy sul divano sul fondo.

Ci sono poi le coproduzioni fra la Cina continentale e Hong Kong, che permettono budget alti e spalancano le porte di un mercato immenso ma pongono ai cineasti hongkonghesi vari problemi sia di censura sia di adeguamento ai gusti del continente. Caught in Time di Lau Ho-leung – la storia autentica della caccia della polizia cinese, sotto la guida del capitano Zhong Cheng, a un feroce rapinatore omicida, Zhang detto Eagle, negli anni '90 – cerca appunto di incrociare il ricordo dei thriller d’azione di Hong Kong col moralismo obbligatorio della Cina. Visto l'argomento, ci si aspetterebbe un film molto hongkonghese, ma invece questa coproduzione appare più cinese continentale, non solo come ideologia (l’aspetto propagandistico) ma come stile. Voglio dire che vi si ritrova quell'intellettualismo che caratterizza molti noir cinesi, e che però qui appare autocompiaciuto; in ultima analisi inutile, anche perché non è accompagnato da una capacità di dare concretezza umana ai personaggi (ciò che era una caratteristica del cinema hongkonghese). Il capitano Zhong (Wang Qianyuan) è un fantoccio imbronciato che non crea la minima empatia; il crudelissimo Eagle ha il vantaggio di essere interpretato da un attore migliore (Daniel Wu) ma non è molto meglio. Le scene d'azione, ovviamente, sono piuttosto buone, come lo è, sul puro piano fisico, lo scontro finale (peraltro sciocco sul piano narrativo) nello stabilimento dei bagni pubblici.

Altra coproduzione è Schemes in Antiques di Derek Kwok. In passato un traditore cinese, Xu, aveva consegnato ai giapponesi una famosa testa antica di Bodhisattva, pagando con la vita dopo la liberazione. Una discendente del giapponese che l'aveva ricevuta vuole restituirla alla Cina – ma la testa è un falso. Si instaura una gara per ritrovare quella vera – interpretando una serie di indizi nascosti nelle opere d'arte – fra l'ultimo membro della famiglia Xu (un ubriacone che possiede l'occhio infallibile di famiglia) e il giovane discendente della famiglia rivale Yao. Lo scopo per Xu è anche di dimostrare che in realtà suo nonno non era un traditore.
E' tratto da un romanzo cinese, ma c'è qualcosa anche di Indiana Jones, come mostra chiaramente la sequenza del crollo del sotterraneo. Un riferimento in Occidente potrebbe essere la serie di romanzi gialli di John Grant sull'antiquario inglese Lovejoy; in quei romanzi si respira un amore sviscerato per le bellezze d'antiquariato (e un interesse per la loro falsificazione), e lo stesso vale qui: gli oggetti d'arte antica cinese esibiti nel film sono così belli – non importa che secondo la trama molti siano dei falsi – che rappresentano di per sé la maggior attrattiva di tutto il film, troppo intricato per il suo stesso bene. Anche lo spettatore che cessa di seguire la trama può sempre lustrarsi gli occhi su queste meraviglie. E la scena finale in cui la vera testa viene rivelata è certamente impressiva come fotografia dell'oggetto.

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