Guardando
The Italian Recipe, un’inusuale coproduzione cino-italiana che ha
aperto il festival, ci ritroveremo a casa: non solo per le immagini
“turistiche” di Roma, dirette in primo luogo al pubblico cinese
ma che da noi fanno scattare un riconoscimento gradito, ma
soprattutto per l’immersione nell'atmosfera e nel parlato di Roma –
anch’essi mitico-turistici, si capisce,
ma nessuno si aspetta i fratelli D’Innocenzo: il film di Hou
Zuxin ha nell'ambientazione una cordialità da commedia populista.
Adorabili
quei poliziotti concentrati sulla partita in
tv, e non va
mancata
la sottile ironia della battuta seguente su “servire il popolo”,
che porta a livelli più terreni la retorica ufficiale cinese.
Peng,
un cantante pop di Pechino sperduto a Roma, conosce Mandy, una
ragazza (piena di diversi lavori) della comunità cinese della
metropoli. Grandi questi cinesi di Roma che parlano italiano, con
Mandy che in auto grida in perfetto italiano allo scooterista che le
ha tagliato la strada “Ma che cavolo fai? Ma sei veramente un
idiota!”. Il riferimento è ovviamente a Vacanze romane (e sì, c’è
anche il giro in Vespa!), ma non solo. Se dimentichiamo la differenza
di nazionalità, ecco che ci ritroviamo nell’atmosfera della
commedia anni Cinquanta alla Poveri ma belli – e potremmo
perfettamente vedere Maurizio Arena e Marisa Allasio al posto di Liu
Xun e Huang Yao. È, come si dice in Asia, un film feel good, il che
non guasta affatto di questi tempi.
La
regista Hou Zuxin ama il suo lavoro
e vuole farlo bene, non si limita a mettere la sceneggiatura su
pellicola. Per esempio, com’è raffinata
– quando Peng e Mandy appena innamoratisi
girano per Roma dalla notte all’aurora – l’improvvisa
trasformazione delle inquadrature da racconto oggettivo a una serie
di (diegeticamente
impossibili) filmini
familiari – con tanto
di rigature!
Sarà
distribuito in Italia, grazie alla Tucker Film, l’eccellente dramma
di ambiente contadino Return to Dust di Li Ruijun. In un matrimonio
combinato dai familiari, un contadino né giovane né bello, il
Quarto Fratello Ma, sposa una donna considerata di nessun valore,
Guiying, che essendo stata maltrattata fin da piccola è timidissima,
goffa, si bagna addosso. Sembra l’inizio di una storia cupamente
naturalistica – e invece Return to Dust raggiunge toni di quieta
elegia contadina nel descrivere la tenerezza che nasce e perdura fra
i due, con gesti di un affetto pudico, mai verbalizzato. E Guiying
(un’interpretazione
monumentale di Hai Qing, quanto diversa che in Operation Red Sea!)
attraversa una vera trasformazione. Ma
il finale è triste.
Tutto
focalizzato sul marito, la moglie e il loro asino sempre presente, è
un film di poche parole e molti silenzi, basato su un forte
sentimento del tempo e del lavoro, con al centro la madre terra: la
fatica dei gesti, il passare delle stagioni. Sullo sfondo, lo
sfruttamento da parte dei potenti (compresa la parte sulle donazioni
di sangue) e la campagna del governo per demolire le vecchie case
contadine. Sceneggiatura, montaggio e regia sono di Li Ruijun, ma
bisogna menzionare anche l’eccezionale lavoro del direttore della
fotografia Wang Weihua. Non produce semplicemente l’“immagine
bella” (che ormai va a un soldo la dozzina) ma articola
la
composizione delle
inquadrature
con eccezionali framing. Ce
n’è uno all'inizio – con
la testa del Quarto Fratello
in primo piano,
a sinistra la sua immagine nello specchio e a destra in
alto una finestra attraverso
la quale vediamo due donne che parlano – da scuola di cinema.
Fa
ribaltare dalle risate la commedia di Xing Wenxiong Too Cool to Kill,
remake di un film di Koki Mitani. Wei Chonggong è un (pessimo)
aspirante attore; l’attrice Milan e suo fratello regista Miller
sono nelle grinfie di un boss, che desidera incontrare il killer
senza volto Karl per portarlo dalla sua parte. Il guaio è che
nessuno lo conosce. Per guadagnare tempo per fuggire, Milan dice di
poterglielo presentare. Poi per mantenere la promessa, Miller e Milan
convincono Wei che stanno girando un nuovo tipo di film con mdp
nascoste e senza copione, a pro della spontaneità – e che lui deve
interpretare la parte del killer Karl. Convinto che tutti questi
gangster che incontra sono attori del film, Wei si lancia
nell’impresa con un entusiasmo eccessivo. In un film
ultracitazionista, il
riferimento numero uno è John Woo (e
Ringo
Lam),
ma
già
l'entrata
in scena del protagonista è una deliziosa (e coraggiosa, visti i
tempi) presa in giro dell'attuale, pomposo
cinema
bellico-patriottico cinese.
Non
è solo una
commedia brillantissima alla
Billy Wilder, con il classico
meccanismo di accumulazione delle
menzogne. Il
protagonista (Xiang Wei, un
nome da tenere presente d’ora in poi)
è fenomenale. La sua recitazione si muove su tre piani: il
personaggio reale – la parte che interpreta – il suo folle
overacting; in più, com’era prevedibile, conosce anche il registro
del patetico. Anche se tutti gli attori sono bravi (a partire dalla
spiritosa Ma Li che interpreta Milan), Xiang Wei trasforma il film in
un one man show. E’
sicuramente uno di quei comici irrefrenabili che hanno bisogno di
moltiplicare la propria figura. Oltre alla
parodia dello heroic bloodshed, è
una girandola di trovate
(canta anche Singin’ in the
Rain rifacendo la scena del film, senza che
ci sia un particolare bisogno
di sceneggiatura, solo per esibire le sue abilità).
Poi noi abbiamo l'ulteriore
bonus di una scena in cui parla italiano.
Anche
la regia di Xing Wenxiong si fa notare, perché, in un film che si
presta di per sé al discorso “meta”, Xing lo trasporta abilmente
sul piano del linguaggio, per esempio con l’uso delle luci
cinematografiche in inquadrature “reali” – sto pensando a
quella in cui un riflettore si accende e rivela il malvagio Jimmy sul
divano sul fondo.
Ci sono poi le coproduzioni fra la Cina continentale e Hong Kong, che permettono budget alti e spalancano le porte di un mercato immenso ma pongono ai cineasti hongkonghesi vari problemi sia di censura sia di adeguamento ai gusti del continente. Caught in Time di Lau Ho-leung – la storia autentica della caccia della polizia cinese, sotto la guida del capitano Zhong Cheng, a un feroce rapinatore omicida, Zhang detto Eagle, negli anni '90 – cerca appunto di incrociare il ricordo dei thriller d’azione di Hong Kong col moralismo obbligatorio della Cina. Visto l'argomento, ci si aspetterebbe un film molto hongkonghese, ma invece questa coproduzione appare più cinese continentale, non solo come ideologia (l’aspetto propagandistico) ma come stile. Voglio dire che vi si ritrova quell'intellettualismo che caratterizza molti noir cinesi, e che però qui appare autocompiaciuto; in ultima analisi inutile, anche perché non è accompagnato da una capacità di dare concretezza umana ai personaggi (ciò che era una caratteristica del cinema hongkonghese). Il capitano Zhong (Wang Qianyuan) è un fantoccio imbronciato che non crea la minima empatia; il crudelissimo Eagle ha il vantaggio di essere interpretato da un attore migliore (Daniel Wu) ma non è molto meglio. Le scene d'azione, ovviamente, sono piuttosto buone, come lo è, sul puro piano fisico, lo scontro finale (peraltro sciocco sul piano narrativo) nello stabilimento dei bagni pubblici.
Altra
coproduzione è Schemes in Antiques di Derek Kwok. In passato un
traditore cinese, Xu, aveva consegnato ai giapponesi una famosa testa
antica di Bodhisattva, pagando con la vita dopo la liberazione. Una
discendente del giapponese che l'aveva ricevuta vuole restituirla
alla Cina – ma la testa è un falso. Si instaura una gara per
ritrovare quella vera – interpretando una serie di indizi nascosti
nelle opere d'arte – fra l'ultimo membro della famiglia Xu (un
ubriacone che possiede l'occhio infallibile di famiglia) e il giovane
discendente della famiglia rivale Yao. Lo scopo per Xu è anche di
dimostrare che in realtà suo nonno non era un traditore.
E'
tratto da un romanzo cinese, ma c'è qualcosa anche di Indiana Jones,
come mostra chiaramente la sequenza del crollo del sotterraneo. Un
riferimento in Occidente potrebbe essere la serie di romanzi gialli
di John Grant sull'antiquario inglese Lovejoy; in quei romanzi si
respira un amore sviscerato per le bellezze d'antiquariato (e un
interesse per la loro falsificazione), e lo stesso vale qui: gli
oggetti d'arte antica cinese esibiti nel film sono così belli –
non importa che secondo la trama molti siano dei falsi – che
rappresentano di per sé la maggior attrattiva di tutto il film,
troppo intricato per il suo stesso bene. Anche lo spettatore che
cessa di seguire la trama può sempre lustrarsi gli occhi su queste
meraviglie. E la scena finale in cui la vera testa viene rivelata è
certamente impressiva come fotografia dell'oggetto.
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