sabato 14 maggio 2022

Far East Film Festival 2022: Filippine, Thailandia, Malaysia


Il filippino Leonor Will Never Die, scritto e diretto da Martika Ramirez Escobar, è il colmo in termini di metacinema. Leonor, anziana sceneggiatrice di film d’azione (una strepitosa Sheila Francisco), ormai è fuori dall'industria, è depressa perché vive col figlio Rudie ma sono estraniati, è separata dal marito e rimpiange il figlio morto Ronwaldo, ucciso in un incidente sul set (peraltro, lo vediamo ancora come fantasma). Un incidente manda Leonor in coma, e qui la sua vita si sdoppia: è in coma in ospedale, ma contemporaneamente è anche dentro un film che aveva sceneggiato molto tempo fa ma che non era mai stato girato, e che ha un protagonista di nome Ronwaldo, una sorta di idealizzazione del figlio morto, anche se ovviamente ha un altro volto. Inoltre, adesso Rudie sta cercando di far girare di far girare a una regista action proprio quella vecchia sceneggiatura rimasta nel cassetto. Sono autentiche scatole cinesi di livello narrativo, e questi livelli intersecati comprendono anche il “film base”, Leonor Will Never Die, che li contiene tutti. Infatti si conclude con un’autentica metalessi (svelamento del dispositivo cinematografico) con una canzone cantata da Sheila Francisco, con balletto finale cogli attori di tutti i livelli del film che ballano sorridendo.
Nonostante il suo impianto da seminario narratologico, Leonor Will Never Die è un film popolare. E’ in primo luogo un caldo omaggio alla stagione eroico-ingenua dell’action filippino, lontana dalla raffinatezza attuale alla Erik Matti (le scene di scontro sono realizzate in modo “cinematografico”, cioè i colpi e pugni sono visibilmente finti, e non c’è la minima ricerca di realismo nelle sparatorie). Il film contiene numerose piccole perle, e ne menziono una: un breve dialogo, nel film scritto da Leonor, fra Leonor che ora è dentro il film e una madre cui hanno ammazzato il figlio fa emergere una cosa alla quale non non si pensa mai: la sofferenza dei personaggi di una storia in termini di responsabilità morale dello sceneggiatore/scrittore che li ha creati.

Rabid di Erik Matti è un buon horror in quattro episodi. Una famiglia benestante accoglie in casa per carità una mendicante come donna di servizio – e se ne pentiranno, perché è una strega malvagia, capace di dominare magicamente le sue vittime. Un uomo, nel secondo, in b/n, un uomo cerca di curare la moglie vittima di un'epidemia di zombismo/vampirismo. Un'infermiera menefreghista paga il fio del suo disinteresse verso i pazienti finendo dal suo ospedale in una realtà fantasmatica, lo stesso ospedale ma vuoto, dove la perseguita orribilmente un vecchia che è in coma, ma vivissima qui (da notare l'uso originale dei colori: freddi nelle scene della realtà, caldi e solari nella realtà alternativa – al contrario di quello che ci si aspetterebbe). Nel quarto episodio, con una vena di humour nero e di satira, una donna che ha perso il lavoro quando la sua ditta ha chiuso il settore marketing per la pandemia cerca di reinventarsi come cuoca vendendo sul web un suo piatto filippino (kare kare), e fallisce finché non trova online una ricetta segreta condita di formula magica; ma, come si dice, la farina del diavolo va tutta in crusca.
Il Covid è inserito abilmente in tutti gli episodi, sia a livello immediato (nel primo una ragazza in fuga chiede aiuto a due passanti e questi non vogliono ascoltarla perché non ha la mascherina e greenpass) sia a livello metaforico con il discorso dell’invasione e della perdita.

Parlando di Erik Matti, va segnalato – già passato a Venezia, con Coppa Volpi a John Arcilla – il bellissimo On the Job: The Missing 8, un seguito praticamente indipendente del suo On the Job del 2013. Potrebbe essere il miglior film di Matti in assoluto. Nella città dal nome ironico di La Paz, il terribile boss Eusebio, il sindaco, è un difensore della legge e ordine a tutti i costi (non è difficile vederci una frecciata al presidente Duterte) – ma in realtà ordina crimini e delitti utilizzando i prigionieri del penitenziario, che vengono fatti uscire di nascosto come nel film precedente, e la polizia locale corrotta. Quando i suoi uomini compiono un massacro di suoi amici, il suo ammiratore Sisoy, un giornalista incline al compromesso, passa dall'altra parte della barricata. Nel film, che dura ben 3 ore e 27', c'è l'ambizione di costruire un grande affresco di corruzione e di analizzare in dettaglio gli effetti che essa può avere su una personalità; ma Erik Matti non perde mai di vista l'obiettivo di fare grande cinema popolare. Le scene di violenza sono ottimamente eseguite (da menzionare almeno, nella seconda parte, la rivolta nel penitenziario, con la pagina assai tesa della sua preparazione). Inutile dire che c’è un aggancio molto forte con la tragica realtà effettuale delle Filippine. Da notare l'uso insistito del montaggio metaforico e della discordanza fra score musicale e visuali.

Reroute di Lawrence Fajardo è un thriller in b/n (la bella fotografia è di Joshua A. Reyles) con forti tono erotici. In campagna, una coppia litigiosa è costretta da un blocco stradale a prendere una deviazione. Lui (Sid Lucero) è, vediamo subito, un imbecille aggressivo; sua moglie Trina (la bella Cindy Miranda) lo sa, ma lo ama, anche se litigano. Come di prammatica l’auto si guasta in mezzo al nulla. Vengono soccorsi da un uomo dal viso piuttosto cupo, che sembra normale e tuttavia ha in sé qualcosa di inquietante (una buona interpretazione di John Arcilla), il quale li porta a casa sua, dove c’è la sua taciturna moglie Lala (Nathalie Hart).
Avrete indovinato il resto. Come concetto il film è fortemente debitore di tutti gli horror e thriller di deviazioni in mezzo al nulla (regola: mai prenderle!) ma ciò che lo solleva è l’energia che Fajardo (anche editor) ci mette dentro… c’è anche una sodomizzazione in puro stile Un tranquillo weekend di paura… e naturalmente le interpretazioni convincenti.

Spostandoci in Thailandia, l'ottimo One for the Road di Baz Poonpiriya è un mélo sulla nostalgia e sul passato, e sul recupero degli errori commessi, in una narrazione a molti livelli, di cui qui accenno solo a quello principale. Il film è prodotto da Wong Kar Wai, e si vede bene.
E’ un classico viaggio tanto fisico, nello spazio materiale, quanto mentale, nella memoria (cinematograficamente, nel flashback). Aood sta morendo e fa tornare dall'America il suo prepotente amico Boss, barista in un bar di lusso, perché lo accompagni (facendogli da autista) in un viaggio per rivedere le sue ex fidanzate e chiudere i conti con loro. Su questo viaggio – dove la focalizzazione è su Boss – si proietta l'ombra del padre di Aood, morto da anni: era un famoso DJ, di cui i due amici ascoltano le cassette in viaggio.
Di questa missione poco fortunata menziono solo, perché aiuta a capire la vivezza del film, l'incontro con una delle ragazze che è diventata una star; la vediamo vestita da sposa e ci chiediamo: flashback? Invece è la scena di un film, in cui lei all'altare spara al suo promesso sposo (con volo di colombi alla John Woo!). Ma Aood che assiste ha sulla maglia il buco di una pallottola che sanguina... per un momento: era una visualizzazione. Dopo la scena, c'è un grande discorso fiero di lei su come il dolore aiuti a recitare; però i due, andando via in auto, gettano uno sguardo segreto a lei che piange da sola.
Questo viaggio psicologico-sentimentale comprende anche il chiudere i conti con la memoria del padre. Nota che (altro esempio di queste belle visualizzazioni simboliche) dopo aver disperso le sue ceneri i due vengono sorpassati da un'auto – sulla quale c'è il padre, che fa un gesto di saluto. Ma quando i questi conti sono stati chiusi, pensiamo che il film logicamente debba finire; eppure ecco che arriva uno straordinario rovesciamento di prospettiva; se prima vedevamo la storia di Aood attraverso gli occhi di Boss, adesso vediamo la storia di Boss. Aood gli rivela un torto che gli aveva fatto a New York anni prima (e per il quale vuole chiedergli scusa). Ciò produce una ridefinizione della storia che stiamo vedendo nel film, la cui narrazione ora diventa ancora più fortemente anacronica. La faccenda riguarda Prim, la ragazza di cui entrambi erano innamorati, e che l'arrogante Boss ha perso. Qui l'azione si concentra a New York, fra ristoranti etnici e bar (risuona la battuta “A bar is not a place. A bar is the bartender”); per inciso, One for the Road, che vuol dire “il bicchiere della staffa” ma è pure il nome del locale di Boss, è anche un film sui cocktail.
In perfetto stile mélo, One for the Road è un percorso di perdita e pentimento. Nel bel finale, un gioco articolato di direzioni e cartelli sposta il racconto su un piano vagamente irreale, confermato come tale da un'apparizione di Aood (che è morto). Una libertà narrativa che non si può non amare.

Cracked di Surapong Ploensang è un buon horror thailandese serio e solido. Una donna con la figlia malata agli occhi (nota le soggettive “offuscate” della bambina) si trasferisce da New York alla Thailandia in una casa ereditata dal padre pittore. Il film potrebbe ricordare l'indonesiano Death Knot per la casa ereditata e l'avvertimento spettrale “Non tornare!”, ma è migliore, e prende un'altra strada, relativa a fantasmi, un'antica storia di sadismo e due quadri (a tema erotico) maledetti. Il titolo Cracked allude sia alla follia sia alle crepe che compaiono sulla superficie dei quadri.
Il film fa fare dei soprassalti ma non è solo una collezione di jump scares. E' un horror alla Pupi Avati per l'uso evocativo della casa piena di vecchi oggetti, e in particolare dei quadri (e c'è un ricordo avatiano ancora più preciso, forse una citazione diretta, ma sarebbe spiacevole fare spoiler). La rivelazione del mistero che sta dietro questa infestazione spettrale è molto logica – e di estrema crudeltà. Come in molti buoni horror, al centro dell'orrore sta il dolore umano.

Infine, dalla Malaysia, The Devil’s Deception di Khabir Bhatia. Hajar, incinta di nove mesi, si reca in una villa isolata assieme al detestabile marito; pensano di dar via il bambino dopo la nascita (lei ha cercato invano di abortire). Nella villa c’è l’ambigua Junaidah, che diventa alleata di Hajar – o forse no? Hajar ha un complesso di colpa per la morte del fratellino, perso di vista, quand’era ragazzina. Subito piovono allucinazioni e visioni spettrali. Un difetto del film è nella prima parte è piuttosto ovvio: i suoi jump scares sono alquanto banali, tant’è vero che ricorre spesso all’abusato espediente del sogno/risveglio. Sul lato positivo, c’è un discreto gioco interpretativo a due fra Azira Shafinaz (Hajar) e l’ottima Nasha Aziz, la migliore del film (Junaidah). Più banale come figura, ma divertente nella sua esagerazione carognesca, Amir Nafis nel ruolo del marito; c’è poi un quarto personaggio, Nasir (Zul Ariffin), nel ruolo del forzuto sfregiato (poteva mancare?). Il film sembra una storia di fantasmi, somministrati in CGI con liberalità, ma il nome di Iblis (il diavolo) già nel titolo originale Talbis Iblis ci annuncia che c’è molto di più. E infatti la parte finale del film diventa una vera tregenda con un’esplosione satanica scatenata.
E’ sempre interessante vedere il diavolo inserito nella tradizione musulmana. Quando, tutto mostruoso, ringhia “Io sono più onorevole di voi! Dio mi ha creato dal fuoco! Voi dalla terra!”, questa non è un'invenzione degli sceneggiatori ma è purissima tradizione islamica, che vede proprio in questo il motivo della Caduta, col rifiuto del diavolo di onorare Adamo che ritiene inferiore a sé. Musulmano è anche il concetto assoluto del potere di Allah, al quale anche il diavolo deve obbedire (da noi L'esorcista faticava di più). Tuttavia, la conclusione a sorpresa è puro Rosemary’s Baby.

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