domenica 28 marzo 2010

Shutter Island

Martin Scorsese

I morti parlano ai vivi sulla triste isola di Shutter Island, nella baia di Boston, dove sorge il manicomio di Ashecliff per pazzi criminali. Una ricoverata, Rachel Solando, assassina dei suoi tre bambini, è misteriosamente evasa. L'agente FBI Teddy Daniels (un grande Leonardo Di Caprio, somigliante a Orson Welles da giovane) e il suo nuovo collega Chuck (Mark Ruffalo, notevole in una parte tutta sotto le righe) vi si recano per investigare. Siamo nel 1954; le ombre della guerra e dei campi di sterminio gridano ancora nella memoria del protagonista, che è entrato con le prime truppe americane a Dachau, e si intrecciano con la sua tragedia familiare: la moglie è morta in un incendio scatenato dal piromane Laeddis.
Il bellissimo noir di Martin Scorsese si apre su una nebbia bianca che invade lo schermo. Ne spunta la prua del battello che porta i due agenti all'isola - e sembra la nave che porta nell'Ade. I morti parlano ai vivi: Dolores, la moglie morta, appare a Teddy, dapprima in sogno, in una scena che ricorda molto David Lynch; come in Lynch i morti trasmettono suggerimenti oscuri (“Lei è ancora qui”). Poi compare sempre più spesso, tra sogni e allucinazioni, man mano che la sanità mentale di Teddy sembra andare in rovina. Compare anche una bambina che fonde in sé le vittime di Rachel Solando e quelle di Dachau, e seguita a ripetergli “Avresti potuto salvarmi”, “Perché non mi hai salvata?”
Il riferimento immediato è ai grandi film “manicomiali”, “La fossa dei serpenti” di Litvak, gli incubi di Lang e di Rossen (“Lilith”), e soprattutto “Il corridoio della paura” di Fuller. Il realismo espressionista scorsesiano incrocia le atmosfere decadenti dell'horror contemporaneo in questa cupa ambientazione, frutto dello splendido lavoro scenografico di Dante Ferretti. L'evasione di Rachel Solando si rivela di una “gotica” impossibilità. I prigionieri dispensano oscuri sorrisi, i testimoni paiono imbeccati, gli psichiatri in carica (Ben Kingsley, Max Von Sydow) sono paradigmi di ambiguità. L'indagine assume i contorni della paranoia: il sospetto è che il manicomio sia fidanzato dalla HUAC (quella del maccartismo) e dai servizi segreti, e che vi si svolgano esperimenti diabolici sui pazzi, tesi a creare una razza di perfetti assassini. Teddy in realtà è sull'isola per investigare su questo - e anche per trovare Laeddis, l'incendiario, che sospetta essere lì. Ma non sarà che i suoi avversari lo hanno attirato sull'isola proprio per farlo sparire dichiarandolo pazzo? Giacché il paradosso della pazzia è che il contrario è indimostrabile: ai pazzi non si crede, qualunque cosa dicano. Forse gli stanno già somministrando di nascosto sostanze psicotrope. E può fidarsi di Chuck? Nell'indagine-incubo di Teddy si situano sullo stesso piano gli ambigui brandelli di una verità nascosta, i sogni e le allucinazioni che lo tormentano.
Il film di Scorsese a cui “Shutter Island” è più vicino è evidentemente “Al di là della vita”, del 1999: il tema è lo stesso, il senso di colpa per omissione, la sofferenza per non aver potuto salvare le vittime (e v'erano già in “Al di là della vita” le apparizioni allucinatorie dei morti). A torto poco amato dalla critica, “Shutter Island” è in realtà un film iper-scorsesiano, e non solo per l'interesse constante del regista per la nevrosi e i personaggi ossessivi. Anche l'impulso autodistruttivo dei personaggi scorsesiani raramente ha trovato nel cinema del maestro un'illustrazione così compiuta - come non citare la toccante ambiguità della scena finale?
Il cinema di Scorsese aspira sempre alla totalità: il suo modo narrativo è spiraliforme. Così qui Scorsese, partendo dalla psicologia contorta del protagonista, allarga la visione all'evocazione dei sanguinosi orrori del Novecento. Accanto alla guerra civile americana, che in effetti anticipò la guerra totale novecentesca (e costituì per l'America la perdita dell'innocenza, anche questo uno dei temi base scorsesiani), il film evoca tutte le atrocità del totalitarismo: i Lager nazisti, i gulag sovietici, i campi di prigionia nordcoreani - l'universo concentrazionario di cui il manicomio di Ashecliff sembra essere una replica sperimentale in terra americana. Nonché i mali a venire, come la bomba H, su cui si impunta il delirio aggressivo di un ricoverato. Ecco dunque ritornare nel film l'angosciata riflessione di Scorsese sul perdono e la grazia; addirittura assistiamo a una pagina di tentazione diabolica, quando il capo delle guardie costringe Teddy a una discussione sulla violenza sostenendo che loro sono entrambi dei violenti e che “Dio ci ha dato la violenza per compierla in Suo onore”. Il suo ragionamento si chiude con una battuta molto significativa: “Noi due ci conosciamo da secoli”.
Se già questo basta per considerare “Shutter Island” un film assai rilevante, adesso però tocca affrontare l'ultimo punto - avvertendo il lettore che quanto segue è lo spoiler degli spoiler, per chi non ha visto il film o non ha letto il romanzo di Dennis Lehane da cui è tratta l'eccellente sceneggiatura di Laeta Kalogridis.
Perché tutto questo complotto che si svolge nel manicomio è un delirio di Teddy, che era un agente FBI ma da due anni è uno dei ricoverati, in preda a un'amnesia traumatica per aver ucciso la moglie dopo che questa impazzita aveva ucciso i loro tre figli (la sequenza del flashback “reale” è fra le più terribili del cinema di Scorsese). Teddy in realtà si chiama Laeddis. E' uno psicotico violento, e la sua indagine non era che un role play terapeutico, messo in scena dal direttore del manicomio come estremo tentativo prima di doverlo sottoporre a lobotomia. Chuck in realtà è lo psichiatra di Daniels/Laeddis, da lui non riconosciuto nel suo delirio. Vediamo Teddy sparare al direttore ma poi vediamo quest'ultimo vivo e vegeto: la scena serve a darci un punto d'appoggio oggettivo nella visione.
E' consigliabile vedere “Shutter Island” due volte: così si può cogliere la sua estrema abilità nei dettagli. Ad esempio accorgersi di come Chuck sorvegli e controlli Teddy nel corso dell'indagine. Un particolare indovinatissimo: all'inizio del film, quando consegnano le armi, Chuck mostra un evidente impaccio con la fondina, cosa che per un agente FBI sarebbe strana - ma non per uno psichiatra che ne recita il ruolo. Tutto viene ridefinito; l'interazione dei pazienti e delle guardie con Teddy è significativa, molte battute cambiano di significato al pari degli sguardi. Alla luce della nostra nuova conoscenza, la scena folle della moltiplicazione di ratti sulla scogliera è chiaramente un'allucinazione – e qui Scorsese ha giocato sul carattere ultra-espressivo del cinema contemporaneo, che solo poteva farla accettare come realtà. Ci accorgiamo anche che la figura allucinatoria di Dolores è paradossalmente nel giusto quando supplica Teddy di andarsene dall'isola (“Questo posto sarà la tua fine”) - poiché la guarigione del protagonista significherà la fine della sua attuale personalità.
Dunque “Shutter Island” si basa su quello che potremmo chiamare il “principio del Ponte di Owl Creek”, dal famoso racconto di Ambrose Bierce (un prigioniero sta per essere impiccato; la corda si rompe e lui fugge; tutto intorno a lui ha un alone di stranezza; raggiunge sua moglie e sta per abbracciarla quando scoppia un accecante lampo di luce bianca: “il suo corpo col collo spezzato dondolava lentamente dal ponte di Owl Creek”). Ne è stato tratto un cortometraggio, “La Rivière du Hibou”, che mi spiace di non conoscere, ma lo stesso meccanismo di radicale ridefinizione finale della realtà sta alla base di “Jacob's Ladder” (“Allucinazione perversa”), il miglior film di Adrian Lyne, e d'un discreto numero di altri film.
E' la figlia di Teddy (di nome Rachel!) la bambina che gli appariva nelle allucinazioni. Tutto il dolore collettivo si fonde col dolore privato del delitto e delle atrocità inconsapevoli commesse dalla pazzia - con l'orrore di vivere in assoluto. Così l'eterno tema della teodicea (come può Dio consentire il male?) entra in primo piano; ed è questo che ci interessa, più che il gioco “enigmistico” di inserire particolari che risultano significativi a una seconda visione. Ed è per questo, per la forza della concezione e della realizzazione, che “Shutter Island” è un grande Scorsese - una disperata elegia.

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