Clint Eastwood
Gli americani dicono che la differenza fra un paese libero e una dittatura è che nel primo, se senti bussare alle cinque del mattino, sai che è il lattaio. Clint Eastwood e il suo sceneggiatore Anthony Peckham devono essersene ricordati per una bella scena all'inizio di “Invictus”. Montaggio alternato: le guardie del corpo di Mandela (neo-eletto Presidente del Sudafrica dopo anni di prigionia) lo accompagnano al lavoro, un furgone corre nella città notturna, nel nerissimo buio eastwoodiano. Momento di allarme quando si incrociano! Poi il furgone li supera e butta giù il pacco dei giornali nuovi da vendere. Ecco il compito di Mandela: far sì che un furgone in corsa non faccia paura.
Due paesi separati dentro uno stesso paese, due destini che devono diventare un destino solo, pena il distruggersi l'un l'altro. Mandela (Morgan Freeman) si inventa una riconciliazione attraverso un'alta impresa: “Questa nazione ha fame di grandezza”. Punta sulla squadra di rugby degli Springbok - detestata dai negri come simbolo dell'apartheid - e sul suo capitano François Pienaar (Matt Damon) affinché vincano la coppa del mondo 1995 (ospitata dal Sudafrica) unificando nella vittoria bianchi e neri. Così il parallelismo insito nel concetto stesso di “Invictus” s'incarna in due personaggi e due destini personali, Mandela e Pienaar (che poi il gigantesco Freeman rubi la scena al pur bravo Damon, questo non può essere negato) - fino al vasto e sinfonico capitolo finale che mostra ed esalta l'unità costruita (François ai suoi uomini stanchi durante la partita finale mentre risuona l'urlo degli spettatori: “Li sentite? Ascoltate il vostro paese!”). “Invictus” è anche grande cinema sportivo. Le partite di rugby, filmate con fluide riprese a mano e in steadycam, sono emozionanti; Eastwood - come mostra tutta la sua opera, e segnatamente “Million Dollar Baby” - sa rendere magnificamente la fisicità della mischia: i grugniti, il sangue, gli spruzzi di saliva, le zolle di terra che volano.
Un racconto articolato, tanto semplice per concezione quanto ricco di sfumature, è realizzato in sequenze di pura classicità; in verità “Invictus” è un film che avrebbe potuto firmare John Ford – vale anche per il rapporto di Mandela con la segretaria Brenda (Adjoa Andoh), che gli fa da sparring partner sul piano spettacolare. Nella figura di Mandela ritroviamo due sfaccettature tipiche dell'eroe eastwoodiano. La prima è l'indomabilità. “Sono il padrone del mio destino / Il capitano della mia anima”, recita la poesia amata da Mandela (“Invictus” di William Ernest Henley, 1875) che ritorna nel film, esplodendo con forza nella scena della visita degli Springboks al vecchio campo di prigionia; François si ferma nella piccola cella di Mandela ed entra il flashback, realizzato modernamente con la compresenza delle due linee temporali (quindi è anche una visualizzazione soggettiva). Il secondo carattere è la solitudine. Gli eroi eastwoodiani, senza eccezione, sono dei solitari; nel film ritroviamo i loro tratti, la malinconia e il senso di colpa dovuti alla separazione dalle persone amate (anche se la figura imbarazzante di Winnie Mandela è messa fra parentesi). E la solitudine del leader, nonostante l'affetto che lo circonda: per il semplice motivo che vola più alto.
Non per nulla Mandela nel loro primo incontro chiede a François qual è la sua filosofia della leadership. “Invictus” è precisamente un film sulle qualità del leader e le sue responsabilità (una parola chiave nel cinema di Eastwood). L'uomo cui è stato affidato il bastone del comando è tale perché ha una visione, vede sopra le teste dei suoi simili, e ha l'obbligo di portare avanti la sua visione anche contro i loro dubbi. “Visto che mi avete eletto vostra guida, lasciatevi guidare da me”, dice Mandela ai suoi compagni di partito quando vorrebbero mettere al bando gli Springbok. C'è qualcosa di monarchico in “Invictus”: ma è la grande tradizione americana, in cui il Presidente è un re non coronato.
Questo film è anche una lezione di politica in senso alto (fin dall'appello di Mandela agli impiegati bianchi, i discorsi nel film sono solenni e bellissimi). Morgan Freeman è quanto mai carismatico (in fin dei conti, l'uomo ha interpretato due volte Dio!) ma allo stesso tempo delinea un personaggio di estrema umanità: vediamo Mandela con una luce di divertimento negli occhi mentre porta avanti i suoi progetti - golpe e lione, direbbe Machiavelli - con piccole astuzie (imparare a memoria i nomi dei giocatori per conquistarseli, accogliere al primo incontro l'intimorito François dicendogli “Che grande onore, sono emozionato”); astuzie che non son altro che il mezzo attraverso cui si realizza la grande visione.
Un'importante realizzazione del film è dunque di aver reso la figura di Mandela come un uomo superiore senza per questo averne fatto un santino. Eastwood si diverte anche a mostrarcelo a una festa che fa il galletto con la bellona negra con cui balla, e le dice d'invidiare il padre che praticava la poligamia. Questo carattere di umanità fornisce la base su cui possono svilupparsi gli innalzamenti lirici e drammatici senza provocare l'“effetto monumento”. Così “Invictus” sfugge a quella tendenza alla Madame Tussaud che rischiano i film celebrativi - per esempio il “Malcolm X” di Spike Lee.
Il momento in cui vediamo iniziare a formarsi l'unità nazionale attorno agli Springbok è quando il loro bus riparte dalla township nera dove si è conquistato per la prima volta gli applausi, e la mdp in panoramica inquadra il cartello “One Team One Country”. Eastwood passa quasi subito a un panorama sudafricano dall'alto, in campo lunghissimo con una nitida messa a fuoco, e un aereo in volo, che porta gli Springbok alla prima partita. Poco più tardi vediamo una ripresa analoga, con un elicottero (Mandela va a fare gli auguri alla squadra). E' un modo originale di portare al culmine la solennità della narrazione trasformando metaforicamente l'altezza ideale in vastità spaziale - dove la presenza della macchina (aereo, elicottero) serve a mediare ancorando la metafora all'elemento umano. Controprova: l'aereo che passerà sopra lo stadio mostrando una scritta augurale dipinta sulla pancia (Eastwood ci costruisce una scena di suspense post-11 settembre; nella realtà storica le guardie del corpo erano state avvertite) è inquadrato in volo senza la nitidezza solennizzante degli altri totali.
“Invictus” è il miglior film che Eastwood abbia fatto dopo “Million Dollar Baby” e il grande distico su Iwo Jima: perché è il più classico, il più pulito, il più lineare e diretto. Come l'umanista John Ford, cui questo film fa pensare, l'umanista Eastwood sa filmare allo stesso modo le grandissime e le piccole cose: accanto allo scontro sportivo e al dramma di un paese che cambia pelle, il sorriso commosso della cameriera negra dei Pienaar quando François porta anche a lei oltre che ai genitori il biglietto omaggio per la finale, o le buffonerie degli uomini della sicurezza bianchi e neri che per la prima volta giocano a rugby insieme. “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”.
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